La passione per il Romanticismo e l’amore per Frédéric Chopin. La magia liquida insita nelle partiture di celebri autori come, tra gli altri, Debussy, Ravel, Mendelssohn e Liszt portata alla luce in una magnifica registrazione di qualche anno fa. L’amore per il nostro Paese e la decisa ammirazione per la cultura tedesca per come offre rispetto e possibilità di lavoro ai musicisti.
Ma sopra a ogni epoca e compositore, nel suo centro di gravità rimane il pianoforte, conosciuto quando di anni ne aveva nove e mai tradito. Suonato in giro per il mondo ottenendo lodi e ammirazione per il suo tocco raffinato e colto, affascinante e di profondo rispetto verso la partitura, come ha sottolineato più di un critico.
Lei, Irene Veneziano, è ormai un’eccellenza del nostro più recente patrimonio musicale. Rispettosa della tradizione ma talmente con lo sguardo rivolto al futuro da essere chiamata da un celeberrimo brand che produce strumenti musicali a fare da testimonial in giro per il mondo dei propri pianoforti digitali, ultima frontiera per chi ama il suono creato dagli ottantotto tasti.
Questa la nostra conversazione.
Chi la fece innamorare del pianoforte e a quanti anni avvenne il fattaccio?
«Volli iniziare a prendere lezioni di pianoforte a nove anni, dopo che una mia amica e vicina di casa aveva fatto lo stesso. Mia mamma mi propose il violino, che adorava, ma io ero decisa a suonare il pianoforte. Non saprei neanche dire il perché, visto che a casa non c’erano mai stati strumenti.»
Ne suona uno che sta rapidamente mutando pelle. Cosa pensa dell’incontro con la tecnologia?
«Credo sia un incontro molto interessante. Io stessa sono testimonial dell’ultimo modello di pianoforte digitale ibrido Celviano Grand Hybrid di Casio. La tecnologia può certamente apportare molte comodità e innovazioni affascinanti e stimolanti. Tuttavia ritengo anche che il “nostro” pianoforte acustico sia insostituibile: niente potrà mai riprodurre fedelmente la sua meravigliosa voce e le vibrazioni reali e penetranti delle corde e della sua cassa armonica.»
Un semplice divertissement: quale autore del passato avrebbe benedetto di più l’avere sotto le dita lo strumento digitale?
«Sembra incredibile a dirsi, ma penso che J. S. Bach avrebbe risparmiato moltissimo tempo se avesse potuto testare al computer o su base registrata il risultato della sovrapposizione delle numerosi voci delle sue fughe.»
Da qualche anno a questa parte assistiamo a un cambiamento antropologico della figura del/della pianista. Non solo un’evidente più maniacale cura estetica, ma un modo più fisico di interpretare dal vivo l’arte di cui si è esecutori. Cito due nomi a caso: Yuja Wang e Lang Lang. Un fenomeno poi, non circoscritto a questo strumento. A cosa è dovuto secondo lei?
«Il fenomeno rispecchia una tendenza generale, che non riguarda solo la musica. Si dà molta, o troppa, importanza alla forma, che dà l’imprinting a un “prodotto” di marketing. Un tempo esisteva lo studioso immerso solo nella musica, ora invece il musicista si occupa attivamente della costruzione del suo stesso personaggio. In un mondo in cui ormai la concorrenza è spietata, si usa qualunque mezzo possibile per attirare l’attenzione più di quanto possano fare gli altri. Io credo che sia Yuja Wang sia Lang Lang non avrebbero bisogno di utilizzare certi escamotage, visto che sono validissimi pianisti; ma ognuno agisce in propria coscienza.»
Davanti agli ottantotto tasti lei si sente esecutrice o qualcosa di diverso?
«Più che esecutrice, mi definirei prima di tutto interprete: in quanti modi diversi può essere eseguita una partitura pur rispettando ogni segno scritto! In secondo luogo, mi sento un mezzo di comunicazione: il musicista fa vivere anche al pubblico le emozioni che il brano comunica e che lui stesso percepisce in esecuzione. Infine sono affascinata dall’idea che noi musicisti diamo ogni volta vita a un pezzo di carta, che senza lo strumento e l’esecutore sarebbe rimasto muto. Come ho letto recentemente in un libro, l’interprete “desta la musica con un bacio”.»
Qual è il suo rapporto con la partitura? Che ambito di libertà interpretativa si concede?
«Più passano gli anni e più sento il bisogno di essere fedele al segno scritto, che spesso è uno scrigno di informazioni. Mi infastidisce l’idea di non rispettarlo solo per mancanza di attenzione ai particolari. Premesso ciò, in una certa fase dello studio del brano avviene “il miracolo”: sento come se mi distaccassi dal segno e come se improvvisamente ne traessi un significato più ampio. È questo momento che trasforma il pezzo in qualcosa di veramente mio.»
Qual è il compositore che, sotto questo punto di vista, lascia meno scampo al musicista che lo incontra?
«Trovo che un certo tipo di musica contemporanea non lasci scampo: la scrittura pretende un rigore ritmico e dinamico che non dà adito a molte variazioni.»
Due anni fa pubblicò un disco sorprendente: Jeux d’eau, ovverosia il suono del piano che si fa pioggia, acqua, materia. Un’esperienza sonora eccellente. Molto di più che una semplice suggestione o di un parallelismo connotativo. Da cosa nacque l’idea?
«In quel periodo mi piaceva l’idea di creare un programma che avesse un filo conduttore. Desideravo tuttavia che non fosse monografico, ma al contrario vario e contenente opere molto diverse tra loro. Il tema dell’acqua si è rivelato perfetto perché ho potuto accostare brani completamente disparati: dai più classici Giochi d’acqua di Liszt e Ravel, a composizioni del Novecento e anche a opere contemporanee scritte per l’occasione.»
Nello stesso periodo anche Hélène Grimaud uscì con una proposta simile, Water, personalmente meno coinvolgente del suo. Che raffronto si sente di fare?
«Non ho ascoltato il suo disco e non mi permetterei mai di fare un raffronto, ma quando ho saputo che stava realizzando un lavoro dedicato all’acqua ho esclamato scherzando: “Mi ha copiato!”.»
Quale l’autore più liquido che ha incontrato nel suo cammino?
«Sarò scontata, ma non ho dubbi nel rispondere Claude Debussy. Questo compositore è in grado di creare attraverso gli accordi che utilizza, e soprattutto attraverso la sua scrittura pianistica, degli effetti timbrici straordinari. A tratti sembra quasi magico.»
Posseggo una sua bellissima registrazione di un autore a me molto caro: la Gnossienne n. 1 di Erik Satie. Il compositore francese passa per un autore più freddo e geometrico che il contrario. Io non sono un musicista, solo un semplice appassionato. Eppure, questa definizione non la sento corretta. Me lo dice la mia pelle ogni volta che ascolto questo musicista. In particolare il titolo citato. Qual è la sua opinione?
«Sono d’accordo con lei: la sua scrittura mi esprime tutt’altro che freddezza e geometria. In primo luogo trovo che una caratteristica comune alle opere di Satie sia un’atmosfera molto intima e un carattere improvvisativo. Inoltre il fatto che spesso le sue composizioni contengano numerose volte incisi uguali o simili non mi dimostra banalità, ripetitività o geometria: Satie desiderava che l’interprete “sentisse” sempre in maniera differente le stesse note, che immaginasse sempre sensazioni e stati d’animo diversi. Anche l’agogica e i brevi commenti presenti in molti dei suoi brani mi sembrano confermare questa opinione.»
La sua giovane età non le impedisce già ora di giostrare dentro un repertorio a dir poco poliedrico: da Jommelli agli spagnoli, da Rachmaninov a Scriabin, più i classici totem della musica classica. Questo per non parlare della sua corposa esperienza cameristica. C’è chi, come Bahrami, si dedica a uno e un solo autore fino a riprodurne il fiato e chi vola nel Tempo. Cos’è la sua: curiosità, inquietudine, ricerca di bellezza planetaria, dichiarazione d’amore alla Musa…?
«Trovo interessante studiare ed eseguire musiche di autori ed epoche diverse, nonostante le proprie preferenze personali, perché è come immergersi ogni volta in un mondo nuovo, e credo che questo possa arricchire molto e possa formare un musicista più completo.»
Qual è la sua personale età dell’oro musicale?
«Per quanto mi riguarda è il periodo del Romanticismo: trovo che sia molto “umano” e quindi intramontabile.»
Si sente più a suo agio in concerto o nella musica da camera?
«Sono due esperienze molto diverse tra loro e le amo entrambe. Quando mi esibisco come solista la tensione è più alta: il senso di responsabilità è maggiore, eseguo le musiche a memoria e inoltre generalmente la difficoltà esecutiva è superiore. Allo stesso tempo la soddisfazione è unica e molto intensa, perché si comunica la propria interiorità e quella di nessun altro. Della musica da camera adoro il fatto che si possa creare qualcosa insieme, estemporaneamente, che si dialoghi e ci si influenzi a vicenda. A volte si arriva ad ascoltarsi così tanto e in modo così naturale da sentirsi un solo essere.»
Che legami ha con l’avanguardia del Novecento?
«La osservo, ma non sento nessun particolare legame o attrazione.»
Qual è il suo rapporto con la musica non classica?
«Non sono concentrata solo sulla classica, nonostante io suoni quasi esclusivamente questo tipo di musica. Penso che ci sia musica buona e musica meno buona in tutti i generi musicali. È bello che la musica sia costituita da così tanti linguaggi, essi creano vita, così come è bello che il mondo sia composto da persone così tanto diverse tra loro.»
Dove sta andando la musica? Quali gli ambiti di sviluppo?
«Credo che in questo momento ci sia esigenza di semplicità: forse come reazione al trambusto e al movimento della vita di oggi o forse come reazione a un certo tipo di musica complicata, a tratti incomprensibile, a volte innaturale del Ventesimo secolo. Per il futuro non so quali saranno gli sviluppi, sono molto curiosa di sapere se verranno creati nuovi generi o stili musicali: è così difficile immaginarsene altri oltre a quelli già esistenti.»
Come inquadra i compositori di musica da film? Non intendo tanto i Rota, i Morricone e i Glass, quanto i più contemporanei, Djawadi, Desplat, Hooper.
«Ammetto di non essere molto esperta di film né di compositori contemporanei di musica da film. In generale ho stima per questi autori perché trovo che sia molto difficile creare la musica appropriata per un film: alcune scene possono cambiare completamente se associate a una musica o a un’altra. Inoltre, spesso una colonna sonora diventa un tratto distintivo del film, qualcosa attraverso cui lo si ricorda. È vero che questa musica non ha l’esigenza di essere complicata, ma a volte è molto più difficile creare qualcosa di bello con la semplicità.»
Più volte si è esibita su palchi tedeschi. Cos’è la Germania per lei?
«Ho sempre considerato la Germania una terra della musica, ovvero uno Stato in cui alla musica viene riconosciuta una dignità, un’importanza che merita e che non possiede in altri Paesi, tra questi purtroppo anche il nostro. Ultimamente ho avuto la possibilità di esibirmi molte volte in Germania, in particolare a causa della mia collaborazione con la ditta Casio. Sono felice di questo, anche perché all’opinione positiva che avevo si è aggiunta la scoperta di un Paese dalla natura meravigliosa e dagli abitanti cordiali e calorosi.»
Quale la differenza che riscontra nel rispetto della musica fornito dai due Paesi?
«Come dicevo prima, in Germania si dà un grande valore alla musica, che non è considerata un passatempo o qualcosa di secondario, ma un elemento importante per la formazione e per la cultura della popolazione. Inoltre, si percepisce il rispetto e la stima per il musicista, per l’artista in generale e per il suo difficile lavoro. In Italia fare il musicista spesso non è neanche considerato un lavoro… Molte persone sottovalutano l’attività dei musicisti, non conoscono e non si immaginano i sacrifici e il lavoro che c’è dietro al raggiungimento di un livello professionale.»
Un collega un giorno mi disse: «Il musicista è una razza molto particolare di ascoltatore musicale; il pianista ascolta solo dischi con il piano al centro, il violinista solo violino, il violoncellista va in cerca di incisioni solo del suo strumento». Se è vero, immagino l’inferno del suonatore di triangolo.
«Per fortuna, anche del suonatore di triangolo, non è vero! Per quanto mi riguarda, al contrario, ho raramente voglia di sentire musica per pianoforte, visto che passo già molte ore ad ascoltarla da esecutrice e da insegnante. In realtà apprezzo molto altri generi musicali o anche il silenzio.»
Nel suo sito si legge una citazione: «Irene Veneziano è una pianista che non ha paura del silenzio e in esso pone il fondamento della sua forza pianistica». Davvero il suo pane è il silenzio?
«Questa frase è estrapolata da una recensione di una giornalista polacca, Marta Nadzieja, a seguito di una mia esibizione al Concorso “F. Chopin” di Varsavia nel 2010. Una difficoltà dell’esecuzione pubblica è non farsi prendere dalla fretta, e dal battito cardiaco, ma riuscire a mantenere il respiro musicale e a dare intensità e tensione emotiva anche alle pause e alle sospensioni. Sono dunque stata molto felice nel leggere queste parole, che per me sono un grandissimo complimento.»
Cosa, come natura o propria esperienza unica, differenzia la musica dalle arti consorelle? Pecco di superficialità se dico la volatilità?
«Questa domanda è molto difficile perché bisogna prima chiedersi cos’è la musica e come si realizza. Uno spartito musicale è già musica? La musica si compie solo quando viene prodotta da uno strumento? Anche una poesia si realizza quando viene letta, ma esiste già sulla carta stampata. Penso dunque che la musica, così come la drammaturgia e la poesia, possa sussistere in varie forme e fasi. Ovviamente altre arti come la pittura e la scultura sono differenti, perché esistono solo una volta che si realizza l’oggetto. La musica, il teatro o la danza non sono un prodotto esistente e non lasciano una traccia tangibile. Al massimo, con i mezzi che abbiamo oggi, è possibile registrare un’esecuzione, ma la vera attuazione di queste arti la troviamo solamente nel preciso istante in cui esse vengono realizzate.»
Quale il pianista che ammira di più?
«Maria João Pires. Di questa pianista ammiro l’intensità emotiva che riesce a trasmettere e il fatto che essa sia accostata a una grandissima sobrietà e semplicità.»
Ha una possibilità. Una sola. Passare un’ora con un compositore di qualunque tempo. Su chi cade la sua scelta?
«Senza dubbi il mio adorato Chopin!»
E che cosa gli chiederebbe?
«Sinceramente credo che sarei troppo emozionata per parlargli e probabilmente starei tutto il giorno incantata a osservarlo.»