Pop: abbreviazione del termine inglese popular («popolare»), con cui sono state qualificate produzioni e manifestazioni artistiche di vario tipo che hanno avuto diffusione di massa nella seconda metà del Novecento. Questa la definizione che ne dà l’enciclopedia Treccani.
Un’enunciazione certo corretta, ma superata dal suo insistere solo sull’arte quale terreno d’elezione. Perché il pop ha esondato dai suoi margini, andando a coprire l’intera società in ogni sua espressione: linguistica, d’azione, politica, spirituale, d’intrattenimento, creativa, formativa.
Ora, che Karl Marx mi perdoni, ma possiamo affermare che uno spettro si aggira per la contemporaneità: lo spettro del pop.
La cultura pop ha ormai superato la sua originaria funzione demitizzante e antiaccademica del sapere per trasformarsi essa stessa in un totem che ha slegato ogni attore umano dalla necessità di dover faticare per padroneggiare una specifica conoscenza e finalmente considerarsi sapiente in un dato campo dell’agire dell’uomo.
La televisione prima e il web poi hanno aperto gabbie di creazione e diffusione di modelli culturali che, invece di democratizzare il sapere, hanno prodotto il paradosso del gambero, facendo regredire l’individuo a maschera insipiente che vive con la presunzione di sapere ciò che gli basta sapere, di saperlo comunicare alla perfezione ed essere egli stesso fonte di sapere. Attitudine esplosa con i social media.
Il popular non ha elevato l’uomo a un livello superiore di conoscenza, di coscienza, di fiducia in se stesso, non gli ha stimolato la curiosità per raggiungere orizzonti diversi in grado di fornirgli nuovi e più utili strumenti concreti all’interno della sua sfera di vita personale e professionale, ma lo ha abbassato a un livello minimale con la presunzione, il più delle volte arrogante, di non aver bisogno di nient’altro che del suo essere cliente della società.
Il pop sta convertendo il mondo contemporaneo occidentale in una caverna, trasformandola in un Hotel Hilton. Traveste l’aridità culturale in semplificazione del vivere, è l’elevazione della mediocrità, ammette l’ignoranza del tempo e non prevede il ridicolo del disinganno, per dirla alla Manzoni.
L’uomo della strada
Nel 1961 Umberto Eco pubblicò un pamphlet diventato celeberrimo: Fenomenologia di Mike Bongiorno. La televisione era agli albori, ma già si era insinuata nel nostro collettivo la figura del nuovo italiano medio. Quella che appunto si plasmava sulla figura del famoso presentatore. Oggi quelle sue stesse righe, dedicate a un personaggio limitato per suo stesso ruolo e formazione personale, sono perfette per descrivere l’uomo e la donna della contemporaneità.
Italiano basico per esprimersi, in grave difficoltà nel riproporre un dialogo nella forma indiretta, abolitore dei congiuntivi, utilizzatore del condizionale nelle ipotetiche, ignorante della più elementare consecutio e dei pronomi, incapace di farsi aiutare da espressioni ellittiche, inseritore di correlative a caso, propugnatore di metafore assorbite dal lessico comune che ritiene originali, se non addirittura create da se medesimo, imbevuto di coprolalia, l’uomo pop ha depauperato il significato di termini che proprio per natura non possono trovare spazio nella ripetitiva quotidianità di massa. Pescando a caso: “genio” e “mito”. Ogni pisciata fuori dal vaso è geniale, ogni autore di un gesto leggermente inconsueto è un mito. Un orrore in rerum natura, ma decisamente pop.Proprio per il suo linguaggio pauperistico, l’uomo medio di oggi non riuscirebbe a comprendere neanche il suo omologo (per studi e classe sociale) del periodo del boom economico post guerra. Troppa la differenza nella capacità linguistica dei due a sfavore dell’uomo pop. Che lascerebbe il campo senza vergogna. Perché non la conosce. Perché, giova ripeterlo, è convinto di essere egli stesso il massimo esempio che si possa ottenere. Come se non gli fosse possibile migliorare. Più realisticamente, perché ritiene che non gli sarebbe di alcuna utilità. Boria spirituale? No, pop.
Musica maestrino
La stereotipizzazione pop ha creato i suoi bei danni anche nell’arte e nei suoi dintorni. Mi è capitato già di scriverne o di risponderne in interviste e incontri pubblici. E quindi ci torno: il caso più manifesto riguarda la conoscenza musicale. Quella di cui tanti miei colleghi del settore o semplici appassionati si ritengono padroni. Ora, se una persona mi dice di conoscere la musica io mi aspetto che appunto conosca la musica. E cioè il suo linguaggio strutturale. Che riesca a decodificarlo per trarne un giudizio. A maggior ragione se ne fa strumento per il suo mestiere di divulgatore professionale come critico o impiegato in una casa discografica.
Non pretendo che sappia leggere lo spartito (molti musicisti contemporanei non ne sono in grado ma, proprio perché musicisti, hanno il dono di saper far parlare uno strumento), ma almeno che riconosca una nota dall’altra, sappia cosa sia il contrappunto, sia capace di illustrarmi la differenza tra melodia e armonia. Insomma, che abbia almeno un’elementare, ma definita, infarinatura di teoria musicale.
Invece la concezione pop del conoscitore di musica attribuisce la qualifica semplicemente a chi conosce a memoria l’intera discografia di un cantante o le varie formazioni che si sono succedute nel tempo di un gruppo musicale. Costui è l’odierno conoscitore della musica. Poco importa se poi non sia in grado di raccontarmi musicalmente un disco o un concerto. La cultura pop non lo prevede, lo relega a fronzolo disturbante, il più delle volte percepito come superbia.
Pagine scritte
Il romanziere contemporaneo va a braccetto. Il fenomeno dei non scrittori è dilagante nel nostro Paese. Diventa una starlette della televisione e potrai dare del tu a Dante e a Leopardi. Avrai il tuo seguito e la tua parola potrà farsi tavola della legge seguita da migliaia e migliaia di adepti. La via più semplice, ma l’unica.
Indipendentemente dalla celebrità acquisita o meno, è evidente l’abitudine della nostra editoria nel campo della narrativa: scrivere sottogeneri letterari facendo incursione nella Storia. A chi lo fa non è chiesta una competenza analitica del passato per essere pubblicato. Perché diventare il nuovo Walter Scott e dover ricostruire gli eventi che furono con l’impegnativo studio delle fonti più rare quando posso scrivere un romanzo storico senza perdere tempo, usando le conoscenze che credo di possedere e l’uso del pongo narrativo quale strumento per arricchire la mia ambientazione? Non è più pop fare così? Le case editrici di massa ne danno uniformemente risposta positiva e ci offrono sui banchi delle librerie una messe di romanzi noir, gotici, fantasy, fantascientifici, sentimentali, di formazione in cui la Storia (con l’iniziale maiuscola) è rudimentale visitazione ucronica di un tempo lontano a noi in cui lo scrivente ha la certezza di essere il moderno Philip K. Dick o Isaac Asimov. Ultimamente gode di ottima salute la distopia.
Un idem sentire che troviamo nel giornalismo contemporaneo. Per il quale la paziente formazione delle nuove leve è ormai una disturbante tiritera e per il quale la presenza stessa del giornalista in una redazione è roba sorpassata dalla realtà. Poi escono titoli come: Pitbull azzanna bimbo di tre mesi. È in rianimazione. Oppure: Muore prima del funerale o ancora Cinese ucciso: è giallo. Che mi strappano una risata (ma questo conta quel che conta), ma che soprattutto suonano ultrapop e, ben utilizzati, possono diventare viatici di lancio del titolista nell’agone della celebrità senza farsi carico di un imbarazzo che in passato lo coglieva con rischio di licenziamento.
La televisione? Perdonatemi, ma della televisione non riesco più a parlare.
La pop politica
La cultura pop ha poi sequestrato la politica. Almeno nella sua massima parte. Presentando e spingendo personaggi che non conoscono affatto ciò di cui parlano, ma ne parlano con perfetta fascinazione. In tutta la seconda Repubblica il pop ci ha imposto presidenti di Consiglio, di Camera, sindaci, leader di partito, rappresentanti a vario titolo di istituzioni locali, manager di aziende nominati dallo Stato.
Il pop impone che la politica sia il campo esclusivo della promessa. Fine a se stessa. Che sappia ergersi a favola, ma che non necessariamente si trasformi in realizzazione di se stessa. La promessa è pura rappresentazione, messa in scena. Non solo mantenerla o meno non è più centrale nel vivere la politica contemporanea (quanti i politici di un’Italia non liquida non mantennero le loro), ma al politico promittente nessuno può più permettersi di chiedere motivo del suo comportamento successivo a essa. Pop significa fare la promessa di raccogliere 40 miliardi di euro tassando dello 0,1% le transazioni digitali (qualunque cosa transazione digitale voglia dire) e destinare tal cifra al mondo del lavoro. Antipop è sgonfiarla con il semplice uso della calcolatrice.
Insomma, promettetemi l’Eden non la Terra che potreste migliorare. Tanto poi ci saranno i tecnici e i grand commis che cercheranno di dare ordine ai registri dello Stato.
Un altro Dio
La fabbrica del pensiero pop ha esaurito ogni posto a sedere e in piedi della caverna e per sua stessa sopravvivenza non può uscire. Perché solo nella caverna può pensare di volgarizzare e scomporre i linguaggi come atti di nobilitazione dell’esistenza dei suoi abitanti. Il suo imballaggio dorato non può godere di altra ambientazione. Solo tra quelle pareti ci può donare il salvifico alibi per la nostra pigrizia e deresponsabilizzarci senza che i rimorsi o la vergogna ci chiedano il conto.
Il pop ha fatto fuori il sacro, ma non è Dio. Può pensare di esserlo, anzi lo sta proprio facendo. Ma uscire dalla caverna, datemi retta, se si può. Le armi dell’amor proprio, dell’umiltà e della parola dei grandi del passato ci possono riportare alla primavera.