Alessandro Carrera: la Voce e le Lyrics di Dylan incontrano Rough and Rowdy Ways

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Proprio a un tiro di schioppo del suo ottantesimo compleanno, di Bob Dylan in Italia sono usciti due aggiornamenti editi da Feltrinelli. Le nuove edizioni de La Voce di Bob Dylan – Un racconto dell’America (528 pagg., 25 euro) di Alessandro Carrera e del terzo volume delle Lyrics, intitolate per l’occasione Lyrics 1983-2020 (512 pagg., 15 euro), per mano dello stesso Carrera, traduttore ufficiale per il nostro Paese di Dylan.

Per completezza, l’intero corpus dei testi dylaniani diviso in tre tomi è stato rieditato in un formato tascabile molto piacevole e a prezzo davvero invidiabile.

Rough and Rowdy Ways non poteva restare ancora a lungo fuori da dall’analisi (e traduzione) di un autore stimato e la voce di bdamato dai dylaniani probabilmente quanto lo stesso Bardo di Duluth. Peraltro nella nuova edizione de La Voce di Bob Dylan, Carrera non si è limitato semplicemente ad aggiungere il capitolo centrato sull’ultimo disco di Dylan, ma ha ampliato una parte del volume precedente (che già era un accrescimento della prima edizione).

Se i testi sono imprescindibili sia per chi conosce Blowin’ In The Wind, Knockin’ On Heaven’s Door e stop sia per il maniaco attento a raccogliere nel suo archivio anche le parole che Dylan pronuncia per strada, le parole dell’autore sono sempre un valido pezzo per conoscere i dettagli e il profilo delle due fatiche editoriali.

Nell’aggiornamento de La voce di Bob Dylan descrive qualità e difficoltà del canto del Bardo di Duluth con esempi tratti dall’ascolto dell’ultimo album, Rough and Rowdy Ways. Visto che ogni dieci anni assistiamo a una sua revisione vocale, come definirebbe in due termini, come fece David Bowie, oggi la voce di Dylan?

È sempre una voce “di carta vetrata” come l’aveva definita Bowie (“sand and glue”), perché questa caratteristica non è mai cambiata se non all’epoca di Nashville Skyline, ma è meno brutale di quella che si ascolta nei brani più blues di Tempest, come Pay in Blood. Non credo che l’addolcimento sia dovuto all’età, o almeno non solo. Credo che abbia influito molto il lavoro sul repertorio della canzone americana classica. Soprattutto in Triplicate, ci sono brani in cui Dylan raggiunge una sorta di “precisione dell’imprecisione”, un certo controllo sull’aspetto più selvatico della sua voce, che riesce poi a riprodurre in Rough and Rowdy Ways.

Nei vari articoli letti dall’uscita del disco a oggi mi è sembrato che ci sia stata una corsa a trovare il brano che ne riassuma la centralità. Chi ha scritto che il motore vada ricercato nel pezzo iniziale, I Contain Multitudes, chi in Murder Most Foul, chi invece punta verso Key West (Philosopher Pirate). Per lei invece la chiave è False Prophet. È la chiusa della canzone a elevarla a madre dell’opera?

lyricsFalse Prophet non è la madre dell’intera opera, ma forse è la chiave per entrarci, proprio per via di quell’ultimo distico, “Non mi ricordo quando sono nato / e quando sono morto l’ho dimenticato”. Cioè, siamo al di là della necessità di provare qualcosa a qualcuno, incluso l’autore stesso. Contengo moltitudini, sta dicendo Dylan, ma in queste moltitudini non ci sono falsi profeti.

Nelle note delle Lyrics scrive che è azzardato pensare che questo brano sia una risposta a Joseph Ratzinger, che in un suo libro di memorie su papa Giovanni Paolo II tira in ballo Dylan prendendo le distanze dall’esibizione al Convegno Eucaristico Nazionale a Bologna nel 1997. Il Nostro, ne abbiamo prova, si prende i suoi tempi se vuole parlare di un argomento, anche personale. Non ho prove certo, ma io sento che quelle righe del futuro Benedetto XVI abbiano toccato le corde di Dylan. Poi è ovvio che l’autore abbia traslato l’argomento in una dimensione più universale.

È azzardato, ma è una tentazione. Dopotutto era stato Ratzinger a chiamare “profeti” in senso dispregiativo sia Dylan sia altri artisti del rock. Può darsi che Dylan se la sia legata al dito, ma può anche darsi di no. È da una vita che qualcuno lo chiama profeta, ed è una vita che lui rifiuta la definizione. Il problema nasce ben prima del 1997.

Dedica una meticolosa attenzione a Black Rider, un brano finora passato in sott’ordine se non per l’uso della parola “cock”. Lei la definisce “tra le più demoniache” e “complesse” che Dylan abbia mai composto. Righe che per me sono state una vera epifania. Ce lo spiega? Lei afferma anche che buona parte dell’album è demoniaco. Come si lega questa considerazione al titolo del disco?

Collego il termine “demoniaco” (ma meglio ancora “demonico”) all’uso che ne faceva Goethe quando parlava di una black ridermusica particolarmente infuocata (il suo esempio era Paganini). Ma Goethe pensava anche allo “spirito della terra”, un’entità misteriosa che Faust non riesce a evocare, ed è per questo fallimento che si affida al diavolo (che in un certo senso è lo spirito del “sottoterra”). Dylan ha una lunga familiarità con il demonico, o con lo spirito della terra, che poi – diciamola tutta – è il blues con la sua scala irregolare e il suo tempo rubato. Nonostante le leggende sui musicisti che fanno i patti col diavolo, da Paganini – appunto – a Robert Johnson, se sai evocare lo spirito della terra non hai bisogno di fare patti col diavolo. Ti resta il demonico, la durezza, il sarcasmo, anche un po’ di sovrano disprezzo per chi non ti capisce. Steven Van Zandt ha detto una volta che in ogni vera opera d’arte ci dev’essere un po’ di “fuck you”. Dylan ne è sempre stato capace, e Black Rider è un po’ tutto questo. È demonica perché anche se non sembra è piuttosto irregolare, perché il suo soggetto è proprio riuscire a dire “fuck you” al diavolo – e qui la spiegazione sarebbe complessa, devo rimandare alle note che ho inserito nel nuovo terzo volume delle Lyrics, ma basti dire che il riferimento principale va a The Black Rider di Tom Waits, William Burroughs e Robert Wilson, una sorta di horror musical che a sua volta è basato sull’opera romantica Il franco cacciatore di Carl Maria von Weber su libretto di Friedrich Kind, dove il diavolo appunto ha un ruolo centrale – ma Dylan nella sua Black Rider riesce a mandare un f.y. anche al diavolo.

Nel capitolo “La religione del folklore” cita quattro canzoni di Dylan che ritiene perfette nel mantenimento dell’equilibrio tra ironia e affetto, prossimità e distanza: Tomorrow Is a Long Time, She Belongs to Me, To Ramona e Love Minus Zero/No Limit. Brani in cui è riuscito a trovare un completo contatto diretto con la sua musa, aggiunge. Dopo stop. Non pensa l’abbia ritrovato nella creazione di I’ve Made up My Mind to Give Myself to You?

l1Può darsi che l’abbia ritrovato anche in Precious Angel e I Believe in You del 1979, anche se in quella canzone il discorso amoroso era filtrato attraverso l’allegoria religiosa. Ma la stessa cosa si può dire per I’ve Made up My Mind to Give Myself to You, che può essere rivolta a una donna o a Dio. Le canzoni degli anni Sessanta che avevo individuato però non erano allegoriche, sono proprio canzoni di relazione di coppia (non necessariamente “canzoni d’amore”; To Ramona è una canzone d’amicizia) o canzoni rivolte alla musa. In un certo senso sono più “pure”, non possono farsi proteggere dall’allegoria.

Ha giustamente tradotto Mother of Muses in Madre di Muse. Quello che mi suona strano è la mancanza dell’articolo “the” da parte di Dylan nel titolo, cosa che attribuisce alle muse una connotazione tanto indeterminata, quasi una stonatura. Madre delle Muse non sarebbe stato più preciso, poetico e oserei dire più rispettoso?

Madre di Muse è più poetico. In inglese, quando si può evitare di usare un articolo è meglio non usarlo; la presenza insistita dell’articolo appesantisce la frase. E poi Mother of the Muses suonerebbe come una definizione da dizionario: sarebbe esclusivamente la madre delle muse della mitologia greca, mentre Mother of Muses lascia aperta la possibilità che di muse ce ne siano molte altre.

Dopo averla ascoltata più volte e lavorato sul testo, ha definito Key West il paradiso “più ironico e disilluso” tra tutte le canzoni in cui Dylan parla di paradisi. L’ironia è uno strumento che Dylan usa per creare, la disillusione lo stato d’animo da cui l’autore deve estrarre la prima. Tra il mezzo narrativo e la fotografia del suo sentimento chi emerge di più?

Key West è ironica perché è anche un luogo turistico, e Dylan non fa niente per nascondere l’aspetto turistico della città (un giorno o l’altro si scoprirà che ha preso i riferimenti geografici da una Guida Michelin o dall’equivalente americano, una Rand McNally). L’unica cosa che manca è il concorso annuale in cui vince l’uomo grasso e barbuto che assomiglia di più a Ernest Hemingway (nemmeno la sua casa viene citata). Sarebbe come se un rispettabile cantautore italiano scrivesse una canzone per celebrare, che ne so, Cortina d’Ampezzo come “paradise divine”. Credo che molti rarwresterebbero perplessi. In effetti il testo di quella canzone (la musica e la voce non si toccano), è un pastiche assurdo. È molto difficile trovarvi un senso unitario, e infatti alcuni commentatori si sono lanciati in spiegazioni che dire azzardate è poco. Ma è anche vero che Key West è stata molte cose nel passato: il luogo da dove è partita la guerra ispano-americana quando era presidente McKinley, ucciso come poi Kennedy e citato nella prima strofa. È stata una base di pirati, da cui il sottotitolo Philosopher Pirate, che peraltro si riferisce anche a una canzone di Jimmy Buffett che Dylan ha cantato una volta con Joan Baez. È stata a suo modo la seconda capitale degli Stati Uniti quando il presidente Truman andava a passarvi le vacanze ecc. ecc. È anche uno dei luoghi dove “finisce l’America”, nel senso che dopo c’è solo il mare, o Cuba, o il Messico, come Brownsville, dall’altra parte degli Stati Uniti, e anche quella città è stata oggetto delle attenzioni dylaniane.

La butto lì: Crossing the Rubicon è una delle cinque composizioni in assoluto più poeticamente elevate di Dylan. Stessa potenza della parola di Changing of the Guards ma con meno cripticismo, medesimo cammino di Ain’t Talking che conduce il poeta sì al termine del mondo ma con la convinzione di poter artigliare l’ultima luce. Passo l’esame, mi rimanda a settembre o mi boccia?

Promosso, perché Crossing the Rubicon è veramente un testo notevolissimo. Non lo metterei tra i migliori in assoluto, ma certamente tra i migliori dell’ultimo Dylan, quasi sullo stesso livello di Early Roman Kings in Tempest. Addirittura direi che in questo caso è la musica a non essere del tutto all’altezza del testo, ma è una canzone che può svilupparsi molto bene dal vivo, e spero proprio di poterla sentire “caricata” a dovere dal gruppo. In fondo è una variante epica sul tema dylaniano per eccellenza, “don’t look back”.

l2Può tornare sulla sua frase per cui Dylan “scrive, compone e dipinge non più per il tempo ma per ciò che dopo il tempo lo attende”?

È quando non si ha più niente da dimostrare a nessuno, tranne che a qualunque cosa ci sia “dopo” il tempo. Eternità è una parola grossa, e forse tutto ha una fine e niente è eterno, nemmeno l’universo, ma “dopo” il tempo c’è “il paese inesplorato” di cui parla Amleto.

In un incontro organizzato dall’Università di Verona per gli 80 anni di Dylan, lei ha voluto chiarire il motivo per cui le sue traduzioni seguono la via letterale a discapito della versione in rima invece sostenuta da Tito Schipa che aveva affermato che quello è l’unico input dato ai traduttori dallo stesso autore per concedere l’autorizzazione a tradurre le sue liriche. Che cosa ha l’una più dell’altra?

Io non ho ricevuto nessun input, anzi sono stato lasciato libero di fare come volevo, anche di aggiungere un apparato critico, cosa che ad esempio al traduttore tedesco non è stata permessa. Non so perché, ma è andata così. Avevo due scelte: una era la traduzione letterale, non in rima e metrica; l’altra era la traduzione ritmica. Ho scelto la prima perché per me era importante anche l’apparato critico, e se dovevo chiarire dei passaggi difficili nelle note o illustrare le fonti vere o probabili di cui si è servito Dylan bisognava che la traduzione fosse corrispondente alla letteralità del testo. In alcuni casi sono riuscito a fornire una traduzione quasi ritmica, ricreando le rime in italiano (My Back Pages, Early Roman Kings, qualcun’altra). Ma in molti altri casi se avessi optato per una traduzione in metrica avrei dovuto discostarmi molto dal testo di Dylan, o ridurre molta della complessità originale. Qualunque tentativo di tradurre Like a Rolling Stone o Highway 61 in rima e metrica finisce per avere solo una vaga rassomiglianza con l’originale. Ma il vero problema è se le traduzioni debbano essere lette o cantate. Se devono essere cantate, allora è legittimo riscriverle, 91NCXSLeb4L._AC_SX425_perché la nuova voce supplirà nuovo significato. Il disco dylaniano di Tito Schipa a me piace, perché mi piace come canta i “suoi” versi, anche se la parentela con Dylan a volte si fa sottile. E per lo stesso motivo mi piace quello di De Gregori, che in alcuni casi è riuscito anche a essere molto fedele. Ma se le traduzioni devono essere lette, allora devono essere fedeli, anche a costo di sacrificare (non sempre) la musicalità del verso dylaniano. Ma di sedici canzoni ho approntato anche una traduzione perfettamente “cantabile”, che ho tenuto per me. Chissà, magari un giorno o l’altro riuscirò a inciderle. Ho fatto la stessa cosa con Leonard Cohen, di cui ho tradotto molte canzoni in rima e metrica, ma non ho ancora trovato un editore.

Quale, se c’è stato, il passaggio tra le varie liriche che l’ha messa più in difficoltà come traduttore?

Chronicles Vol. 1 mi ha dato più difficoltà di tutte le canzoni messe assieme. Le canzoni, bene o male, sono fatte di versi. Si possono affrontare un verso per volta. Ma Chronicles è in prosa, e la prosa di Dylan può raggiungere livelli di vera bizzarria. In vari punti ho corso il rischio di passare per un cattivo traduttore, perché non ho voluto “normalizzare” il testo di Dylan, non ho voluto “migliorarlo” in italiano, anche se avrei potuto, ma si sarebbe persa proprio quella bizzarria, quel senso di irregolarità sintattica, di imprevedibilità che il testo dylaniano trasmette. Ma per tornare alle canzoni, varie di Oh Mercy mi hanno dato del filo da torcere. Sono ingannevolmente semplici. E non parliamo poi di canzoni che non sono mai state nemmeno scritte, ma solo trascritte dalla voce di Dylan, come i Basement Tapes. Il surrealismo folk di quei versi mi faceva pensare a Jannacci; lui avrebbe potuto cantare benissimo i più bizzarri tra i Basement Tapes, ne sono sicuro.

Bob-Dylan-writing-Blood-on-the-Tracks-credit-barry-feinstein_1974In generale, quale l’elemento che più la ha colpita dal punto di vista lirico?

Be’, se uno riesce a scrivere cose come “Laggiù c’è il tuo orfano col fucile in mano / che piange come un fuoco sotto il sole” (da It’s All Over Now, Baby Blue) bisogna stare zitti e lasciarlo fare. E se poi viene fuori con versi come “I don’t even remember what I came here to get away from” (“Non mi ricordo nemmeno da che cosa fuggivo quando sono venuto qui”, da Not Dark Yet, ma in inglese suona molto meglio) o anche il recente “I can’t play the record ’cause the needle got stuck” (che ho tradotto come se fosse un proverbio, “Non si può suonare il disco se s’incanta la puntina,” da Goodbye Jimmy Reed, spero si capisca il doppio senso, è un verso che mi strappa ancora una risata ogni volta che lo sento), direi che Dylan forse non è in grado di scrivere un “poema” unitario, nelle sue canzoni più lunghe c’è sempre qualche caduta di tono, ma come cesellatore di versi singoli non ha rivali.

Da professore, come inquadra la scrittura di oggi, intendo proprio l’uso dell’inglese, di Dylan?

È un uso “gnomico”. Una volta era più lirico (anni sessanta), poi è sceso a fondo in tormenti psicologici (anni settanta), poi ha creato allegorie (anni ottanta), ma oggi crea una “gnome” dopo l’altra: immagini sapienziali, perle di saggezza;

Bob Dylan Mural
Murale che prende spunto da Subterranean Homesick Blues, ad Austin, Texas

proverbi, appunto. Ma è una cosa che ha sempre saputo fare: “Non hai bisogno del meteorologo per sapere da che parte tira il vento”, “quando non hai niente, non hai niente da perdere” sono esempi sommi. Tra parentesi, sono io ad aver scoperto che quest’ultimo verso si trova, abbastanza simile, anche in Shakespeare (“Non avendo niente, niente ha da perdere”) ma è nell’Enrico VI, una tragedia molto meno nota di altre, e non credo che Dylan la conoscesse negli anni sessanta. È un’espressione che ha reinventato senza saperlo.

Per ovvie ragioni Rough and Rowdy Ways non è stato ancora eseguito dal vivo. Però, visto che le canzoni di Dylan si reinventano di volta in volta sui palchi di tutto il mondo al punto da poter essere considerate opere perennemente in fieri, ci sono brani a cui, come performer, non è riuscito a dare la stessa perfezione stilistica dell’incisione su disco?

Molti appassionati saranno pronti a smentirmi, ma credo che ci siano dopotutto alcune canzoni, anche se poche, che Dylan non è mai riuscito a migliorare dal vivo. Highway 61 e Tombstone Blues sono inarrivabili. E anche The Lonesome Death of Hattie Carroll. Mentre già le prime esecuzioni dal vivo di It’s Alright Ma (I’m Only Bleedin’) hanno più mordente di quella in studio.

A un anno di distanza dall’uscita, quanto Rough and Rowdy Ways gira ancora sul suo lettore?Bob-Dylan-is-seen-out-in-LA-for-the-first-time

Gira, gira. Ma io non sono un ascoltatore ossessivo di Dylan. La maggior parte del tempo ascolto altre cose. Musica classica, elettronica o jazz quando lavoro, rock e canzoni quando sono in macchina.

A che punto è oggi lo sguardo di Dylan sull’esistente?

Per avere “uno” sguardo sull’esistente bisogna essere un filosofo sistematico. E Dylan, tutt’al più, è un filosofo pirata… Ma un poeta, come dice Keats, è tutte le cose di cui si occupa, tutto quello che incontra. Un poeta è sempre “altro da sé”. Un poeta lirico, naturalmente. Se uno è Lucrezio, scrive un poema che è anche un trattato di filosofia. Ma Dylan è un poeta lirico e gnomico, e rinasce a ogni testo che scrive. O che canta.


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