Claudio Sanfilippo, tra il mondo e Milano la musica come antidoto al degrado

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Milanese classe 1960, musicista, scrittore e milanista. Claudio Sanfilippo è uno degli autori più raffinati del nostro Paese. Mina (dico: Mina) non se lo fece scappare nel 2014 e cantò la sua La palla è rotonda (se non la conoscete correte ad ascoltarla su YouTube per apprezzarne per lo meno l’originalità lirica), che poi mamma Rai scelse come sigla iniziale per le trasmissione dei Mondiali in Brasile.

Il suo album di collaborazioni con celebri autori è un Panini d’antan. Per citare solo qualche nome: Eugenio Finardi, Cristiano De André, Pierangelo Bertoli, Nanni Svampa, Cecilia Chailly, Salvatore Licitra, Marcelo Alvarez, Rossana Casale, Fabio Treves, Piero Milesi, Carlo Fava.

All’eleganza compositiva quale chitarrista e cantante si affiancano due amori senza fine. Milano e il Milan (tema quest’ultimo su cui ha messo la firma in due libri).

Da qualche mese è uscito Contemporaneo, il suo ultimo disco. Questa la nostra chiacchierata.

Nel tuo scrivere musicale la parola riveste un ruolo centrale. Testi asciutti in cui ogni termine dà l’idea di essere il frutto di una prova e riprova continua in cui la narrazione passa attraverso varie asciugature. È un’impressione corretta o i versi scendono più immediatamente?

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«È vero, prediligo scrivere in modo poco prolisso, cerco di non dire troppo, mi viene così, ma di solito i versi escono veloci, in buona parte insieme alla musica, alla melodia. È una specie di controllo automatico, provo a non penalizzare l’immagine che arriva in immediatezza e apparentemente può sembrare spiazzante. So da dove inizio ma non ho idea di dove finirò, quindi assecondo il momento, il clima. Mi piacciono le “parole-conchiglia”, come soleva dire Gianni Mura.»

Quale musicista ha più di ogni altro segnato la tua formazione?

«Domandona, sono tanti. Intanto diversi musicisti con i quali ho suonato in tutti questi anni, fin dai miei inizi con Francesco Saverio Porciello, ad esempio, o con Rinaldo Donati. Nell’album Contemporaneo ce ne sono tanti che mi hanno segnato e continuano a segnarmi. Suonare insieme ad altri musicisti è fondamentale, è una forma di comunicazione pazzesca. Se invece parliamo di personaggi popolari, per la musica che faccio con la chitarra classica dico Jobim, per la genialità e l’eleganza armonica, e anche per i testi, soprattutto quelli scritti da Vinicius de Moraes. Per l’altra mia anima musicale, quella legata alla chitarra acustica, è James Taylor, per un songwriter acustico come me quel modo di suonare è stato una calamita. Faccio fatica a non allungare l’elenco, aggiungo Chet Baker, suono e fraseggio soave, anche come cantante.»

Il disco che sta al centro del cuore.

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«Blood on the tracks di Bob Dylan, Amoroso di Joao Gilberto, anche qui dovrei citarne tanti, è un puzzle a forma di cuore. Dipende dai momenti, potrei dire anche Battisti, Cohen, De Gregori, Joni Mitchell, Lolli, Neil Young. Ma se devo scegliere quello al centro del cuore dico La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria di Vinicius – Vanoni – Toquinho. Ispiratissimo, con i testi di Vinicius adattati splendidamente da Sergio Bardotti, un concept-album perfetto, un disco che amo molto.»

Come mai hai voluto rendere Wayfaring stranger di Johhny Cash in milanese (Viandant, nda)?

«Me l’ha fatta tornare in mente Massimo Gatti, il mandolinista che in quel brano ha suonato la mandola. Con lui ho fondato Ilzendelswing, una band acustica che spazia tra swing, folk anglofono e bluegrass. Di quel brano c’è la versione di Johnny Cash, forse la più nota, anche se io ricordavo quella di Doc Watson. È una bella canzone folk ottocentesca, un blues in minore che sa di spiritual. I dialetti si sposano bene con le atmosfere folk, le musiche tradizionali hanno linguaggi in comune, indipendentemente dai luoghi.»  

Cosa provasti quando Mina decise di cantare un tuo pezzo?

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«Per qualche istante incredulità, poi una contentezza difficile da raccontare. Avevo 32 anni, mi ero già tolto qualche piccola soddisfazione, il Tenco del 1985, la canzone che Pierangelo Bertoli aveva inciso subito dopo, ma quel momento è stato il vero spartiacque della mia avventura musicale. Mina è Mina, e va bene, ma considera che fin da piccolo ascoltavo i suoi dischi, era una delle preferite dei miei genitori, avevamo diversi 45 giri. Per cui, figurati. Nelle 1100 grigio topo, 50 anni fa, oltre a Mina si ascoltavano Aznavour, Battisti, Vanoni, Sinatra…»

In un tuo post su Facebook hai scritto che la musica è stata uccisa dalla rete con la complicità delle istituzioni. Puoi spiegare meglio il tuo pensiero?

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«Per qualche ragione la musica ormai si gioca solo sui numeri, ma lei non è tutta lì, anzi, spesso è da altre parti. Non che prima fosse tutto perfetto, ma oggi sembra che il numero dei “like” sia l’unico valore. Numeri e qualità possono coincidere, ma non è facile, non accade spesso. Poi, in Italia la musica non ha mai avuto spazio adeguato nelle scuole, anche quando ne aveva più di adesso. L’onda si è moltiplicata negli ultimi vent’anni, fino a trasformare la musica in un “marketplace globale” (sembra il nome di un multivitaminico) basato sull’idea che tutto è gratis, e a fare profitto sono solo le grandi piattaforme. Agli artisti arrivano le briciole, quasi nessun musicista oggi può contare su un ritorno decente dalla pubblicazione digitale, senza il supporto fisico del cd o del vinile resta solo la musica dal vivo. Penso che la musica, come le arti visive, debba stare al centro dei programmi scolastici, fino alle superiori. L’ascolto si può educare, la musica avvicina alla bellezza e stimola i giovani, sappiamo bene che è così. Invece il momento storico che stiamo attraversando l’ha svilita a sottofondo per la chiacchiera. C’è tanto terreno da recuperare, penso anche alla canzone d’autore, che da Modugno ai primi anni Ottanta ha espresso le pagine più belle della musica italiana dell’ultimo secolo. Ascoltare Luigi Tenco, Leonard Cohen, Fabrizio De André, Paul Simon, Chico Buarque, Georges Brassens o Léo Ferré abituava a una certa complessità, era una dimensione culturale vera, non era niente male. Non voglio passare da passatista, solo credo che la memoria sia tutto quello che siamo, e dal passato possiamo trarre cose buone.»

Trovi una responsabilità anche delle major discografiche?

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«Non sono esperto di queste cose, a naso ho il sospetto che quando la barca iniziava a fare acqua, 20-25 anni fa, le major fecero cassa senza proteggere i musicisti, gli autori, gli interpreti, quelli che la musica la fanno. Oggi una casa discografica fa un mestiere diverso da prima, segue X-Factor e Sanremo, è un’attività limitata a quel tipo di cose, sempre parlando delle poche major che restano. C’è un sacco di buona musica semisconosciuta in giro e troppa fuffa. Non so cosa si sarebbe dovuto o potuto fare, non si può giudicare, magari in certi posti-chiave ciascuno di noi non avrebbe fatto diversamente. Hanno portato a casa tutto quello che si poteva e fine delle trasmissioni. Ricordo che già alla fine degli anni Ottanta il prezzo dei cd lievitava, c’erano dischi che costavano 25.000 lire e più, come un vinile stampato oggi, che è quasi un oggetto di lusso, molti dei quali recavano l’adesivo che dichiarava le spese promozionali, per giustificare il prezzo. Hanno guadagnato l’impossibile. L’avvento dell’mp3 ha fatto il resto, eppure un libro di mille pagine in digitale pesa molto meno di una sola canzone. Evidentemente il comparto del libro ha protetto meglio il proprio lavoro e quello degli scrittori, in generale era ed è più attrezzato, c’è molta più competenza. Gente come Nanni Ricordi o Franco Crepax, per citarne due che ho avuto la fortuna di conoscere quando ero molto giovane, hanno lasciato un gran vuoto nell’ambiente musicale italiano. Poi, anche l’ambito letterario ha le sue magagne e in generale la vita di un artista non è mai stata comoda. Non ci resta che andare avanti.»

La liquidità contemporanea, tanto divulgata da Ziygmunt Bauman, ha colpito anche il settore discografico. La percentuale di giovani che si educa ad ascoltare musica attraverso un vinile o un compact disc è irrisoria. Pensi che ormai sia una partita perduta o si possa riuscire a fare capire alle generazioni più giovani il valore di un ascolto più profondo che riconosca quanto lavoro c’è dentro quel particolare oggetto fisico?

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«È sempre molto difficile tornare indietro, anche se le grandi piattaforme pubblicano un formato compresso senza note, senza libretto e zero informazioni, a parte i titoli delle canzoni. La differenza con il cd e soprattutto con il vinile è evidente, ma il villaggio globale impone la sua legge, c’è poco da fare. Al tempo stesso stiamo attraversando un mutamento antropologico in cui l’individuo è più esposto e fragile, la comunità global non ha la stessa energia della famiglia, del cortile, del villaggio, delle tribù e delle città. Tutti molto smart ma senza una visione della vita e della morte, in balìa dei mercati. In questo grande pasticcio, la musica potrebbe aiutare molto. E torniamo al discorso di prima, senza essere ”dirigisti” una piccola mano per incoraggiare le proposte di qualità oggi avrebbe senso. Anche il servizio pubblico, a parte le solite eccezioni, è rilasciato in dosi minime, schiavo del mercato e dello share, ma il canone lo paga anche chi la tv non ce l’ha. Il tema è politico, viene da dire che non ci sono più le lottizzazioni di una volta. Comunque io nel mio piccolo continuo a stampare i miei cd e Boxe è uscito anche in vinile grazie a Maremmano Records, l’etichetta che lo ha pubblicato. Non è una partita persa, è una partita difficile ad armi impari, ma si può dare battaglia, alternative non ne vedo.»

C’è un momento della giornata o un particolare fenomeno atmosferico che rende più magico il momento della composizione?

«Sono entrambi importanti perché possono determinare tutto, ma non ho preferenza tra un cielo d’estate spazzato dal maestrale e la neve fuori dalla finestra. Comunque, credo di avere scritto più canzoni di notte.»

Uno dei tuoi amori musicali è Bob Dylan. Per ogni suo cultore nel mondo questo artista racchiude un mistero. Tu cosa hai capito del mistero-Dylan?

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«Bella domanda. Quasi niente, e questo forse riguarda tanti altri come me, chissà forse è il segreto del fascino che emana da 60 anni. Ho capito che è un uomo molto complesso con una grande predisposizione alla libertà individuale. Soprattutto un grande scrittore di canzoni, oltre non saprei andare.»

Perché hai voluto tradurre e interpretare Cross the Green Mountain?

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«Me l’ha segnalata qualche anno fa Ferdinando Molteni, è una canzone che non conoscevo. Mi è piaciuta fin dal primo ascolto, l’ho scritta al volo, la sera stessa.»

Da dylaniano di vecchio stampo ho trovato la tua interpretazione non solo fedele all’originale ma particolarmente convincente per quell’aurea da crooner che trasmetti. Era voluto o è stata la canzone a portarti in quella direzione?

«L’ho cantata a modo mio, ci sono canzoni di Dylan che adoro, ma ho una voce così diversa dalla sua che se dovessi avvicinarmi al suo modo di cantare farei un disastro ferroviario, come direbbe il mio amico Giorgio Terruzzi. Contento che ti sia piaciuta.»

Dylan ha attirato l’attenzione di numerosi tuoi colleghi, da De André a De Gregori. Ognuno non ha mancato di sottolineare la difficoltà di riportare nella nostra lingua i versi dylaniani. Anche per te è stato così?

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«Garantisco che non è una passeggiata. Dipende dai brani, alcune delle sue liriche che avrei voluto adattare ho dovuto mollarle lì, con altre mi è andata bene. Ci sono testi e testi, e bisogna sempre considerare di avvicinarsi il più possibile all’originale mantenendo una certa musicalità, anche fonetica. Con certe sue canzoni l’impresa è quasi impossibile, così quando il rischio di incorrere in forzature è alto, mollo il colpo. Adattare Dylan, ma non solo lui, letteralmente è impossibile, quindi bisogna lavorare scambiando le righe e i punti di osservazione, usando parole che suonano bene.

Cosa ne pensi del suo ultimo disco Rough and Rowdy Ways?

«Sono onesto, l’ho sentito velocemente una volta sola, dopo Tempest confesso che Dylan non l’ho seguito molto.»

Hai scritto due libri sul tuo milanismo. Quando e come sei diventato rossonero?

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«Mio padre era milanista, mi ha portato per la prima volta a San Siro nel 1965, avevo 5 anni. La famiglia di mia madre era interista, ma io ero innamorato di Rivera e di quei colori, mi piaceva molto chiedere a mio padre del Gre-No-Li, di Altafini, di Sani, di Buffon, di Schiaffino, che era il suo giocatore preferito. Bellissimo.»

Chi è stato il tuo eroe in campo?

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«Rivera, ma lui appartiene a un mondo semidivino. Tolto lui, dico Baresi. Ma di eroi ne ho avuti altri: Prati, Rocco, Van Basten, Maldini, Ancelotti, Seedorf, Donadoni, Rui Costa, Kaka, Sheva, Pirlo. Confesso che mi disturba un po’ che Pirlo non abbia chiuso in rossonero, da capitano.»

Per numerosi decenni il Milan a Milano è stata la squadra del popolo, la squadra dei casciavit, di coloro cioè che per guadagnarsi il pane dovevano lavorare con le mani, le braccia, spaccarsi la schiena. Pensi che oggi questa nomea abbia ancora una qualche attualità o sia una pagina consegnata alla memoria?

«Credo che sia quasi consegnata alla memoria, anche se qualche differenza continua a resistere. In generale il milanista è istintivo, l’interista un po’ snob.»

Cosa ne pensi del mondo del calcio di oggi?

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«Molto faticoso, come tutto ciò che passa dai media. Il tweet della fidanzata del centravanti fa notizia, i like dei calciatori pure. Non è pallone, ma sembrerebbe di sì. Poi c’è il tema dei procuratori, che ormai hanno un potere spaventoso, d’altronde anche il calcio subisce nel bene e nel male il pensiero dominante, basta vedere le magliette delle squadre, ormai i colori sociali fanno da sfondo agli sponsor. Da appassionato del gesto tecnico, del modo di stare in campo di una squadra, continuo a seguirlo, anche se da anni la metà dei calciatori che sento nominare nelle campagne acquisti non so chi siano. Per stare in zona, Milan e Inter hanno due proprietà straniere diversissime tra loro, ma entrambe non hanno dimestichezza col gioco del pallone. Il capo dell’Inter è un giovane cinese che probabilmente ha visto la prima partita della sua vita a San Siro, quando Suning ha rilevato il club, e Scaroni è un mistero catapultato nel Milan solo per costruire il nuovo stadio. Comunque la storia recente dice anche che i soldi degli emiri non bastano per vincere una Champions, e ogni tanto emergono squadre che riaprono le speranze, come l’Atalanta e il Leicester.»

E della Milano contemporanea?

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«La vedo colpita duramente da questi ultimi sei mesi di crisi, ma è una città dalle risorse infinite, la storia dice che Milano ha la capacità di metabolizzare tutto e rinascere. Bisognerà contare sui valori veri, l’amicizia, la lealtà, la generosità. Spero anche che la musica dal vivo ritrovi spazi adeguati, lo spero davvero.»

So che sei impegnato nella stesura di un romanzo noir. Quanta milanesità ci sarà nella tua storia?

«Ho scritto poche pagine, vediamo se mi torna l’ispirazione. Di solito non scrivo noir, ho scritto solo un racconto per un’antologia uscita prima di Natale per Solferino intitolato Giallo al cabaret. Ho anche un romanzo nel cassetto, sono a buon punto, ma la serrata non ha aiutato quel tipo di scrittura, mi sono ritrovato più vicino alla musica. Comunque per quell’abbozzo di noir, una ventina di pagine, l’ambientazione è molto milanese. »

In Contemporaneo canti: “Hanno bruciato anche il vocabolario/l’hanno sostituito col rosario del nuovo ordine della moneta confessionale”. A quanto pare non ti piace una società dove politica e finanza camminano a braccetto.

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«La moneta detta i valori, mentre dovrebbe essere il contrario, almeno un pochino… se a comandare è soltanto la logica del profitto è un disastro. In una società modellata sulle “mission performanti”, l’arretramento culturale è previsto dalla legge della natura, infatti c’è un mare di analfabetismo non censito, il vocabolario non va di moda, è anacronistico. È una canzone atipica per il modo di scrivere, di solito non racconto di temi sociali, non in modo diretto.»

Chi sono “i testimoni dell’oscurità” pagati per giudicare?

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«Il potere di oggi è più subdolo, ci sono zone d’ombra da cui si pontifica, si rilasciano patenti. I social network sono il bar moltiplicato all’infinito, spesso la pancia prevale e si leggono cose da pazzi, senza gusto per il confronto. È il prezzo, esosissimo in termini culturali, della globalizzazione. Non sono un paladino del politicamente scorretto, ma penso che il politicamente corretto, per venire all’attualità, stia facendo i suoi bei danni. È un mondo avvitato su condizionamenti che rimbalzano e si moltiplicano, spesso ideologici in assenza di ideologie, scollegati dalla realtà. Forse hanno ragione le Sacre Scritture Induiste, siamo nel pieno del Kaly-Yuga, l’era dell’oscurità.»

Da testimone del tuo tempo e artista con l’impegno di raccontarlo, dove stiamo andando?

«Non saprei, io posso solo cercare di fare la mia parte, mantenendo quella che un tempo si chiamava coerenza, onestà intellettuale. Credo sia l’unico vero dovere che ho, cioè fare quello che so fare al meglio, senza richiamare definizioni, cercando di rispettare la parola artista.»

Sei credente?

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«Non posso definirmi ateo, non sono praticante, ho un’educazione cattolica, sono attratto dalla spiritualità. Quindi, sì.»

Cosa pensi accadrà quando saremo arrivati alla fine del nostro cammino?

«Non ne ho la minima idea. Ho il sospetto che ci possa essere una forma d’energia di tipo onirico, qualcosa del genere.»


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