A farne un riassunto ridotto all’osso, Quaderni di Serafino Gubbio operatore potrebbe essere scambiato per un libretto di un tradizionale dramma lirico dell’Ottocento. Serafino Gubbio, cineoperatore alla casa cinematografica Kosmograph, conosciuto con il nomignolo “Si gira”, annota in un diario quel che gli accade al lavoro.
Scrive anche di Varia Nestoroff, un’attrice slava mangiatrice di uomini che definisce “più tigre della tigre”. Una donna incline a far male ai suoi ammiratori senza peraltro provarne gran godimento. Un classico esempio di femme fatale che porta alla morte di due uomini: un giovane artista che si suicida per essere stato tradito e un attore che in una scena dovrebbe ammazzare proprio una tigre ma che all’improvviso rivolge la pistola verso l’attrice uccidendola, venendo poi sbranato dalla tigre spaventata.
Tutto sotto l’occhio di Serafino, che riprende meccanicamente la scena girando la sua manovella, impassibile alla tragedia che si sta consumando a qualche metro da lui, che gli lascerà in regalo solo mutismo e alienazione. Un drammone in piena regola, dentro cui possiamo a piacimento trovare Verga, D’Annunzio e Balzac.
Ma se un libro non si giudica dalla sua copertina, neanche lo si può definire dalla condensa della sua fabula. Quaderni di Serafino Gubbio operatore è uno dei romanzi più rivoluzionari di quell’eccelso rivoluzionario della letteratura che è Luigi Pirandello, la cui visione esistenziale lo avvicina più al filosofare che al fare scrittura letteraria.
Per una carrellata sul romanzo rimando al saggio di Simona Micali pubblicato in sede di postfazione all’edizione Feltrinelli, qui mi preme puntare la luce su un paio di aspetti del romanzo: la finzione della realtà cinematografica e l’automazione del lavoro.
Vade retro cinema
Il protagonista si guarda intorno e si vede circondato da attori, macchinisti, registi, scenografi, elettricisti, sarte, stuccatori, elettricisti, modiste, fiorai. Uomini e donne impegnati a costruire mondi fittizi. E si chiede: come prendere sul serio un lavoro che non ha altro scopo se non ingannare gli altri? E parla dei film come di stupide finzioni, nuova realtà costruita ad arte da una macchina, una macchina che si può facilmente smontare, smontando così la finzione stessa.
Il giudizio del narratore è spietato verso l’ambiente intero del cinema e della sua finalità di costruire una nuova realtà illusoria che prende vita su uno schermo gigante grazie a larve evanescenti prodotte in maniera fredda da un’industria.
Non ci sta bene in questo ambiente Serafino. Lui che vive in un ospizio di mendicità lo vede bene quanto i teatri di scena siano popolati da personaggi volgari impegnati a confezionare prodotti commerciali per soddisfare il palato delle masse e gli interessi di uomini d’affari. Il cinema è un autoinganno e lui, comunque non lo voglia, ne è un ingranaggio.
Pirandello preveggente
La perla profetica di Pirandello sta nella visione dell’automazione nel mondo del lavoro. Lo ammette subito il narratore. Un signore lo avvicina e gli chiede se si senta necessario. Non siete che una mano che gira una manovella, non si può fare a meno di voi?
Serafino, con lucidità premonitrice risponde: forse col tempo. Non dubito che col tempo si arriverà a sopprimermi. Uno dei tanti (allora) nuovi inetti della letteratura sottolinea la venuta dell’automazione quando ancora l’automazione non era se non nella testa di Pirandello. Ecco qui il prototipo dell’uomo moderno e contemporaneo, pedina della massificazione, meccanizzazione, alienazione dei processi produttivi. Lui è solo la mano che gira una manovella, ma solo fino a quando glielo permetteranno, quando cioè una macchina prenderà il suo posto.
Una sassata anti-futurista che Pirandello lancia contro i cantori della velocità, dell’industrializzazione come nuova forma di pensiero e arte e che fa dell’avveniristico cyborg un mostro non un totem.
Le macchine divoreranno le vite e gli umani ne verranno devastati, il processo di dissoluzione dell’individuo non conoscerà fine perché le stesse vittime saranno le prime ad applaudire il nuovo avvento.
Quella mano siamo noi
Serafino Gubbio non può che continuare a girare la manovella nel mentre osserva il protagonista del film uccidere Varia Nestoroff e poi la tigre sbranare l’assassino. Spegne coscienza e terrore e continua il movimento automatico del braccio per riprendere il film che s’innerva di uno sviluppo tutto suo. Rimarrà muto e alienato tra i suoi simili. Un uomo inutile. E il mutismo, a seguire una certa corrente di pensiero letteraria, è il mutismo degli intellettuali nel momento della Grande Guerra, periodo in cui il romanzo fu scritto nella sua prima edizione (1916 col titolo Si gira), prima della riscrittura del 1925.
In mezzo ai due capolavori di Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila (1926), questo romanzo dalla struttura narrativa al tempo fuori dai canoni ha un posto fondamentale nella poetica sul relativismo conoscitivo, nodo primo del pensiero dell’autore, con la proposizione di un’arte quale archetipo di illusioni di realtà diverse capaci solo di ripetersi all’infinito e strumento di moltiplicazione dell’Io.
E posto non meno centrale nella predizione della spersonalizzazione del mondo del lavoro. Quando la letteratura anticipa. Noi tutti, come Serafino, ci piaccia o no, alla fine diremo come lui: finimmo di essere Gubbio e diventammo una mano.