Dylan e il Paradiso uscito da Burbank

HeavenDi tanto in tanto lo chiedo a chi ne è appassionato: secondo te c’è un brano che Dylan, sul palco, non è mai riuscito a rendere come in studio? Preciso, prima che l’equivoco infiammi il petto del dylaniano doc che si chiede che razza di domande vado in giro a porre: non intendo la copia identica a quella uscita da una sala di registrazione.

Chi abbia dell’artista anche solo un’infarinatura elementare alle spalle sa bene che Dylan non solo non ha mai presentato in concerto la stessa canzone due volte in modo equivalente, ma ha pure sempre eseguito dal vivo i pezzi dei suoi album in modo non sovrapponibile a quanto l’ascoltatore ha imparato a conoscere attraverso i dischi.

frthryMi riferisco a una resa d’atmosfera generale del brano, una forza propulsiva dell’esecuzione sul palco, un tutto compreso tra suono, vocalità e humus del componimento artistico non pari a ciò che è stato inciso su vinile o cd ovviamente non live. Le risposte si sono col tempo composte in un “album de doléances” piuttosto nutrito di cui Like A Rolling Stone sarebbe l’indiscusso hit single.

Scena epica

Non mi ricordo una sola citazione del brano che invece mi fa venire la pelle d’oca ancora oggi quando lo ascolto nella sua versione registrata in studio, cima mai raggiunta dalle versioni dal vivo che conosco. jyjdtKnockin’ On Heaven’s Door.

Incominciamo dal film Pat Garrett & Billy the Kid, diretto da Sam Peckinpah, di cui la canzone è parte della colonna sonora. Il momento clou in cui allo spettatore arrivano le note di questa perla.

In una hacienda nel Nuovo Messico lo sceriffo Baker (Slim Pickens) viene colpito durante una sparatoria. Si preme con la mano il fianco destro colpito e cammina vacillante verso un rivolo d’acqua che gli si apre davanti. Siamo al tramonto di un giorno e il dato non è solo atmosferico. L’anziano uomo lo raggiunge a fatica e si siede su un masso e non si accettano scommesse sul senso della meta. Sarà quello l’indirizzo in cui a momenti busserà alla porta del Paradiso.

xnfsrLa canzone è già partita, nell’immobilità sacra e spettrale di tutti coloro che hanno fatto parte della scena. La moglie dell’uomo, Mrs Baker (Kathy Jurado), gettato via il fucile, gli corre incontro fino a fermarsi a qualche metro da lui. Gli sorride mentre le lacrime si liberano sul volto. Il marito la ricambia con uno sguardo attonito, ma consapevole della fine imminente. È troppo disfatto per comunicarle anche un grammo di sentimento.

Io non sono più qui

La drammaturgia della scena è potente e ci appare durare ben più del tempo che effettivamente prende. E noi la viviamo ormai immersi in quella stessa virgola geografica ascoltando Knockin’ on Heaven’s Door . Un brano che amplifica la tragica fine di un uomo così come dosata nel racconto e il cui incedere lento è il soffio vitale necessario per rendere leggendario l’intero film.

Un coro muto iniziale che ha la medesima solennità espressiva di quello della Butterfly di Puccini, un giro hfnxfgdi chitarra acustica, due strofe, un ritornello ipnotico. E un canto che non viene da una voce. Tanto, troppo umana per essere solo una voce. Essa è la voce. Al primo ascolto ci arrivano come le parole che l’uomo morente ha nella mente ma che non riesce a costruire meccanicamente nella bocca e che comunque non avrebbe la forza di far uscire.

Va bene. Le cose stanno così. Ma anche non solo così. Perché a livello più intimo le parole del testo sono l’epifania dello spirito dell’uomo che, in anticipo sulla morte materiale, ha già lasciato buona parte del corpo. Esse esprimono il potente sentimento da cui è guidato mentre ogni secondo si sta facendo sempre più buio: “Sto già bussando alle porte del Paradiso. Vi lascio la carcassa. Mama, cara, quello che vedi non sono più io. Io non sono qua. Io non sono già più”. La voce non umana.

Magia a Burbank

Knockin’ On Heaven’s Door è una canzone monumentale, resa sublime proprio dall’alchimia less is more piombata negli studi californiani Burbank, che trasformò l’empatia tra gli otto artisti coinvolti nel pezzo e la lieve produzione di Gordon Carroll in una creazione musicale epica.

nxfgnfgxIl vestito composto e delicatamente lento che Dylan dà alla sua voce riverberata ci colpisce come il verbo di un messaggero dell’Aldilà e il canto sommesso delle tre coriste (Carol Hunter, Donna Weiss e Brenda Patterson) è la rappresentazione moderna della tessitura vocale arrivata a noi dalle muse della mitologia greca per volere di Apollo.

Il processo di sdynalizzazione vocale di Dylan in questa canzone è sorprendente, non tanto per esso stesso (è cosa cognita che ogni tot anni il Nostro fa il pit stop della voce), ma per il modo. Un unicum, a mio modo di sentirlo, che neanche nelle altre prove dall’incedere dolce e malinconico aveva e avrebbe mai raggiunto. Non in To Ramona, non in Sara, non in Man In The Long Black Coat, non in Series Of Dreams, Ain’t Talkin’, Forgetful Heart, Black Rider o Mother of Muses. Forse Señor se la gioca.

Inumano troppo inumano

Qui il timbro è un’impronta mistica più che funerea nel suo dover ondeggiare tra la vita e la morte e supportare un gesto che è già dell’Aldilà (il bussare alle porte del Paradiso), un “essere-in-un-non-luogo” raccontato da un morente che è in parte già morto a una vivente.ygvubn

Le curve della voce rimangono calibrate durante il brano in una perfezione di intensità, colore, registro e frequenza mai prima e mai più testimoniata. Non me ne vogliano i dylaniani di lunga data, tra le registrazioni di questo musicista non si trova un inno che connoti l’ascesi umana come Knockin’ On Heaven’s Door.

E sul palco?

Partiamo da un dato ufficiale. Al momento Knockin’ On Heaven’s Door è stata suonata da Dylan in concerto 460 volte, dalla première a Chicago il 4 gennaio 1974 al 13 maggio 2003 (Cary, North Carolina), ultima data d’esecuzione. Il sito ufficiale di Dylan e il preziosissimo Olof Björner concordano.

E, come accade per l’intero repertorio dylaniano, anche questo brano ha subito il destino di venir offerto altrettante volte in modo difforme e nell’alveo di stili musicali così lontani tra loro, toccando punte di divertimento inusuali come testimoniabile, ma è solo un esempio, dal potente calypso con voce 911fOHmUoeLspezzettata ma tagliente e coro femminile del tutto fuori sincrono nel refrain, che possiamo ascoltare nel concerto di Basilea del 23 luglio 1981 e in tanti show di quell’anno.

Medesima sorte è capitata al testo, modificato più e più volte, cosa che comunque accade ancor oggi a ogni titolo presente in Lyrics, il corpulento volume che li raccoglie tutti. E i momenti di grande intensità emotiva si sono interscambiati con quelli di stanca o di svogliatezza. Dalla forte espressività all’intonazione eccessivamente piatta e gutturale , la tavolozza dylaniana è, come sempre, piuttosto ampia.

La riappropriazione del brano

Come se volesse fermare l’ineluttabilità del Tempo impedendo alla canzone di cristallizzarsi in e in virtù di esso e di venire identificata nella sua unica forma riconoscibile e cioè quella registrata, Dylan si è in qualche modo riappropriato del brano togliendole la per lui insopportabile presenza dell’immagine filmica.

L’operazione di decostruzione è stata scientifica. C’è chi come Andy Hill, organizzatore della californiana Dylanfest, ha puntato su come, ad esempio, Dylan abbia addirittura dato più spazio alle vocalist, ab67616d00001e028ac0e14f794d5ebf5db94b58permettendo “di sfoggiare tutte le loro abilità che nella versione in studio non si manifestano e di cantarla nei medesimi accordi dei versi”, mentre Bruce Springsteen ammise, dopo averla suonata come disco prevede, di essere rimasto spaesato al punto di non aver capito come andasse eseguita. Va da sé che la versione del Boss piacque parecchio a Dylan che vi vide “tutto il potere, la spiritualità e la bellezza come mai nessuno aveva fatto in precedenza. La rese fedele, sinceramente fedele alla versione del disco, ovviamente l’unica che doveva seguire”.

Un fluido da concerto

Già, ma quali le versioni live da ricordare? Nel suo Bob Dylan Performing Artists vol 3 1974-1986 il grande Paul Williams accende la luce sull’esecuzione con la Band al Madison Square Garden di New York del 30 gennaio 1974 (poi scelta per il leggendario Before The Flood ) e quella del 14 febbraio 1974 a Los Angeles. Le due meno lontane all’originale in studio.

R-618964-1615716320-4277“Il brano – scrive Williams a proposito del primo concerto – si rivela un forte veicolo per creare un fluido da concerto. La voce di Dylan è una porta aperta per questa via. Le sibilanti in particolare (trace – see – shoot) posseggono un’urgente e penetrante qualità che lega l’ascoltatore al cantante. Il modo in cui pronuncia ‘I can’t shoot them’ è indimenticabile.” Mentre sulla performance losangeleña: “È piuttosto differente (più potente nel coro, diversa è l’enfasi all’interno dei versi), ma ugualmente buona. La canzone respira. In ciascuna performance essa racconta, senza premeditazione, la verità del momento”.

Di contro, Andrew Muir, noto ai dylaniani per aver pubblicato uno studio che soppesa l’arte e il peso di Shakespeare e Dylan, in One More Night – Bob Dylan’s Never Ending Tour sottolinea quanto l’artista avesse (si riferisce ai live targati 1989) ormai preso questo brano come cavia per le più spericolate sperimentazioni, dal presentarla ora gemella dei suoi greatest hits ora pop orecchiabile ora introdotta da un’armonica suonata come un singhiozzo dolente e ora chiusa con nuovi interventi di armonica finali.

Nei Live ufficiali

Il brano lo troviamo in più dischi live pubblicati da Dylan. L’all in del periodo Rolling Thunder Revue è ascoltabile nel quinto volume delle Bootleg Series e nel super cofanetto The 1975 Live Recordings , lo si trova in versione reggae in At Budokan, che si concentra nel tour del 1978 quando Dylan lo propose in scaletta solo in Giappone e Australia, provandolo poi solo in due soundcheck al Pavillon di Parigi il 3 e 6 81nf42WmN0L._AC_SL1500_luglio senza poi un seguito; lo ascoltiamo coi Grateful Dead quasi dieci anni dopo in Dylan & the Dead, in una versione con un bell’attacco di chitarra e coro e un Dylan che poi interviene cantandolo come se i colpi di pistola li avesse ricevuti lui e non lo sceriffo ed è pure presente in MTV Unplugged pubblicato nel 1995 e suonato l’anno antecedente (fino a questo momento suo ultimo live ufficiale, Bootleg Series escluse), una trasposizione che è un autentico osso spolpato che sfama in emozione più di un piatto pentastellato.

Un destino tutto suo

71GGHo9ZzrL._AC_SY450_E allora, dati causa e pretesto, cosa mi porta a pensare anche solo di tracciare una linea comparativa tra il Dylan in studio e il Dylan performer se la pasta dell’arte di questo autore sfugge, per stessa materia del compositore, a un pur elementare raffronto? La risposta riposa nell’incanto di una creazione che, per la sua solennità, si eleva fino a filtrare tra i cancelli dell’Eden ed entrare nel giardino della beatitudine senza dover attendere l’arrivo del guardiano.

Nulla è definitorio, concluso, assoluto e sistematizzato con Bob Dylan. Ma forse, come è successo a ogni grande artista, capita che un’opera sfugga al suo stesso creatore e si riveli con una perfezione in virtù della quale ogni sua successiva reinterpretazione dovrà fare i conti.

Knockin’ On Heaven’s Door, brano numero sette nella tracklist dell’album Pat Garrett & Billy the Kid, è questa mano di Dio.


2 risposte a "Dylan e il Paradiso uscito da Burbank"

  1. Concordo… pur sapendo che His Bobness non replica mai la sua prima versione e neppure prova ad avvicinarsi, anche per me ” Knockin ‘ on The Heaven’s Door” rimane perfetta e mai più eguagliata nella sua versione da studio. Il senso del brano in qualsiasi altra sua versione si perde e si svuota di significato, smarrisce la sua strada nelle covers ascoltate ( Zevon,Murphy ) che pur amo e diventa altro ( il reggae Claptoniano). Spesso ruota su se stessa con il proiettile in corpo ma non passa mai other side ? Paradossalmente si apprezza di più quando diventa altro ma nulla finora ascoltato si avvicina minimamente a quella della soundtrack.

    Armando Chiechi

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