Dio e morte: la versione di Julian Barnes

Barnes-Julian-2-colour-c-Urszula-Soltys-permission-not-cleared-1Non credo in Dio, però mi manca.

Necessitassimo di una reductio dell’ultimo libro di Julan Barnes, Niente paura, l’aforisma, che apre il volume, soddisferebbe il bisogno.

Lo scrittore inglese, da tempo speleologo letterario del ruolo e degli effetti dell’abbandono sulle nostre vite, questa volta ha ampliato al massimo lo sguardo fino a comprendre il giudice primo e ultimo, riflettendo sulla sua esistenza. In vita e morte di lui e di noi suoi confratelli e consorelle.

Il senso di una fine e Livelli di vita, solo per citare i suoi due titoli più empatici al caso, ci avevano suggerito che una tale sensibilità potesse prima o poi tentare d’incamminarsi verso lo spazio del mistero.

 

Non credere o non sapere di credere

In Barnes alberga la possibilità di Dio. Se la ragione gli impone un no categorico, la partita non è affatto finita. L’essere umano non si compone di solo ragione. Crede anche al di fuori della ragione. Gli basta che uno dei cinque sensi percepisca un frammento di realtà da un qualunque fatto di cui l’intelletto non comprende i motivi per concedergli una punta di veredicità. E così con Dio.9788806216221_0_536_0_75

E così accade con lo scrittore di Leicester. Molto di più del “suvvia credi! Male non fa”, che ci arriva dai taccuini di Ludwig Wittgestein. Bernes, ateo convinto a vent’anni, agnostico coi cinquanta, ammette che, ormai più vicino agli ottanta che ai settanta, neanche l’agnosticismo può più definire la sua posizione. E non per una maggiore saggezza raggiunta ma solo per “più consapevole della mia ignoranza. Come facciamo a essere sicuri di saperne abbastanza da conoscere la verità?” Una posizione simile a quella di Jules Renard. Che, alle menti più ottuse che scambiarono il suo anticlericalismo in ateismo, rispose: “Voi credete di averlo trovato. Congratulazioni. Io sono ancora qui a cercatlo. E lo cercherò per i prossimi dieci o vent’anni, se mi concede altro tempo. Ho paura di non riuscire a trovarlo, ma non smetterò di cercarlo comunque. E non è escluso che mi sia grato per i miei sforzi”.

 

Tutto parte dalla chiamata

truydhgfdfzsRichiestogli da un amico se e quanto pensava alla morte, Barnes rispose: «Almeno una volta al giorno». Con attacchi notturni che di tanto in tanto lo destano inclusi. Una vicinanza all’atto finale che lo inserisce nello stesso club di Rachmaninov o Šostakovič, con il primo che combatteva la paura di morire ingurgitando pistacchi salati e il secondo che sosteneva il dovere di ogni essere umano di pensare di più alla morte così da rendercela famigliare, non commettere stupidi errori e non farci prendere di soprassalto dal pensiero.

Vogliamolo o no, è così. Il pensiero che ci stiamo avvicinando alla nostra fermata inizia spesso a scavare dentro di noi il dubbio che il divino non sia mero argomento per i credenti. Barnes cita Montaigne. Philosopher, c’est apprendre à mourir. Essere filosofo significa imparare a morire. Da Socrate all’uomo e alla donna comuni. Del tutto fuori dall’attualità contemporanea, con l’essere umano che, in tremebonda paura della morte, ha smesso proprio di parlarne. Pur potendola osservare (e osservandola con neanche malcelato piacere) nelle migliaia sue facce con un clic o movimento di polpastrello.

 

L’importanza del Messaggero

La morte come veicolo per arrivare a Dio. Se accade è perché è un passaggio umano. Perché forse, come scrive Barnes, “ciò che fa la differenza non è tanto il credere o il non credere, quanto l’aver paura o meno1-gstQdHf1IV93WPoBi5d9nA-1200x559 della morte”. E il timore, l’ansia, o finanche l’angoscia finiscono per portarci nelle braccia della fede, il cui punto centrale è credere in ciò che le regole comuni definiscono come non possibile, e far propria la convinzione che non c’è regola fisica o norma comunque di profilo scientifico che possa in qualche modo confermare o confutare Dio.

 

La morte può essere gentile?

Montaigne si augurava che il suo turno lo cogliesse in un momento ordinario, mentre piantava i cavoli

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Emily Dickinson

nell’orto, addusse come esempio. Non fu così. Come non lo fu per Goethe e per Ravel. L’ultimo gesto di Mozart fu comporre con la bocca il suono dei timpani del Requiem che non aveva terminato di scrivere, Emily Dickinson disse prima di assopirsi definitivamente: «Devo rientrare. Si alza la nebbia», Totò si tolse con forza i tubi che lo bucavano esclamando: «Ma facciamola finita!»

Il tema è di primissimo piano. L’importanza di essere all’altezza del proprio destino è compito primario di ogni abitante umano di questo pianeta. Non essere vigliacchi all’arrivo del capolinea  definisce l’uomo e la donna. Addirittura più di ogni azione od omissione che ha scritto la propria storia.

Perché in fin dei conti, sussuriamocelo almeno, più della morte ci fa paura il morire. Il letto di morte è la tortura. L’agonia, il delirio, il progressivo indebolimento psicofisico, il pensiero della sofferenza della

propria famiglia o, al contrario, la consapevolezza maligna che, pur noi ancora esseri respiranti, c’è chi del nostro cerchio si sia preparato alla nostra dipartita, l’afferrare la forchetta dalla parte sbagliata, il sentirsi privato delle parole, non avere più il controllo dello sfintere, sono possibilità che ci terrorizzano. No, la morte gentile non esiste. E quei pochi che ne hanno avuto dono non intaccano la media statistica.

Morire è un mestiere, ribadisce Barnes. Che spesso non si riesce a imparare neanche facendolo. Siamo garzoni senza il paracadute del maestro. Non conosciamo i ferri del mestieri e se pure li distinguessimo non sapremmo come usarli visto che saremo noi a doverli scartare dal cellophan e prenderli per la prima Scienziato-tornato-aldilàvolta in mano.

Sarà pur vero, come afferma Sherwin Nuland, citato nel libro, che, indipententemente dalle convinzione del singolo sulla morte, “un uomo proverà sempre spavento di fronte alla malattia che lo ucciderà”.  Difficile che calma e serenità interverrano come  opzioni valide a garantirci un’uscita gentile. Impossibile al contempo trovare specialisti sul tema che ci forniscano consigli utili.

 

Parte del ciclo. Non il ciclo

Ecco allora che torna in superficie la necessità di riflettere con costanza sul fatto  che la vita dipende dallaaldilà-dopo-la-morte morte. Quella di chi “è stato” per noi viventi, la nostra per chi verrà. Il pianeta che abitiamo non sarebbe potuto essere senza lo spegnimento di altri astri. La nuova primavera ci coglie col suo primo vivifico sole solo perché l’inverno muore, non c’è modo di interrompere il ciclo né di avere le due stagioni allo stesso momento. Queste cose le sappiamo sin dalla nostra giovinezza, ma le abbiamo davvero interiorizzate? 

Il nostro comprendere il meccanismo non si è ancora evoluto, non raccontiamoci bugie. Se ci prepariamo anche nei giorni in cui ci sentiamo così forti ed energici da raggiungere e scollinare l’Everest correndo forse possiamo farcela meglio. E l’accettazione del divino dentro di noi può fare della nostra testa un oljkhgvalido muro di rimbalzo contro l’indomibilità sofferente di un fisico uscito definitivamente dal nostro controllo ma non ancora diventato marmo gelato. 

Prendiamo l’abitudine di rifletterci sopra, il giovane come l’adulto. Queste pagine di Julian Barnes scritte col sangue sono un punto di partenza in grado di svegliare i più dormienti.

 

 


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