Billy Summers è un sicario guidato da codice da cui non deroga. Mette a disposizione la sua mira infallibile solo per togliere la faccia della terra la feccia dell’umanità. Prepotenti, violenti, potenti che ingrossano il conto in banca ricorrendo all’assassinio come naturale mezzo per spazzare via un ostacolo o una semplice scocciatura e chi usa la stessa procedura senza avere le tasche gonfie di denaro. Le persone “cattive” le chiama.
La storia all’osso è questa. Billy ha un nuovo ingaggio in una cittadina nel sud degli States. Mettere fine alle scorrerie di un miserabile che ha ucciso solo perché ha perduto a poker. Qualche anno prima aveva fatto fuori un ragazzo di quindici anni che stava andando a scuola. Il tizio è in carcere, ma è in odore di trasferimento. E Billy nel frattempo, per amalgamarsi tra la gente del luogo, si finge scrittore.
Gli accadimenti non si limiteranno al suo incarico. Billy dà retta al suo sangue, che gli sussurra che in un bordello non si possono trovare vergini. La faccenda non coinvolge solo l’uomo da far fuori, lui lo annusa sin dal primo incontro col boss che gli ha offerto il compito. Nick, uno che lui, a prescindere, ammazzerebbe volentieri. E giorno dopo giorno costruisce e perfeziona il suo paracadute.
A quarantaquattro anni Billy sa che non potrà continuare. Il passato di cecchino in Iraq non lo ha mai abbandonato e non è una bella storia. È venuta l’ora di chiudere la carriera e dedicare più tempo a Émile Zola e Thomas Hardy, di cui è incallito lettore. Intanto, per calarsi del tutto nella sua nuova quotidianità, s’impegna a buttare giù il romanzo. Che altro non è che il racconto della sua vita. Sanguinaria fin da bambino.
Tra Houdini e Dexter
Non l’ho ancora scritto, rimedio ora. Billy Summers, oltre a essere l’ultimo titolo in libreria, è il nuovo personaggio di Stephen King. Anche se, detta così, si fa un torto all’autore e alla sua creazione.
Billy Summers è una creatura letteraria di una forza totemica. Pari forse a Carrie (ma senza poteri extra umani), ma superiore a Annie Wilkes (Misery), Jack Torrance (Shining), Scott Carey (Elevation), Johnny Smith (La Zona Morta) e a ogni altro/a protagonista in maggiore che abita la costellazione della kinghiana commedia umana, cane Cujo, clown Pennywise e macchina Christine compresi.
Billy si tiene lontano tanto dalla strada della redenzione quanto da quella camminata dal cavaliere arrivato a liberare la società. È il più vicino uomo comune tra gli esseri umani che comuni non possono più essere. Sa di essere destinato all’inferno, ma l’accettazione del destino e il destino stesso gli sono ancora soltanto un carico pesante come una piuma.
Distante per cautela dagli affetti, ma per nulla anaffettivo; in grado di svanire nel nulla come una specie di Houdini dopo un lavoro eseguito, ma luce presente come generosità e dignità comandano quando si riconosce nella paura e nella fatica dei suoi simili.
Come Dexter, per chi ama le fiction, ma allo stesso tempo ben differente da Dexter.
La rettitudine morale del killer
Non so cosa abbia guidato l’ispirazione di King a tirar su corpo e anima di un personaggio che in altri tempi si sarebbe definito leggendario. Il come sì, ovvio, il suo inimitabile talento di guardatore del mondo e narratore colpito da piccolo da una fantasia che non ha mai conosciuto nel tempo periodi di secche.
Guardandoci all’indietro e fermandoci sui migliori modelli letterari usciti dalla sua penna (quelli sopracitati o altri che più hanno colpito la vostra attenzione), ci imbattiamo sempre in volti del male o comunque del terrore. Operazione più lineare che dare forma a un personaggio che pur togliendo la vita per soldi raccoglie in sé buona parte del bene che una persona può fare, non trovate?
King non si è limitato a fare di Billy voce letteraria credibile, priva di mielismi sentimentali e di lanosi tratti da piacione, ma magnifico esempio di rettitudine morale del tutto coinvolto nella grandezza della normalità dell’esistenza umana. E le pagine (almeno metà del romanzo) in cui appare l’altrettanto straordinaria e drammatica figura di Alice sono di uno splendore che non ha pari.
Scrittore da Nobel
Billy Summers, il libro, via via perde la sua cornice, componendosi di un doppio binario che ci porta alla fine. Alla trama principale si accosta e si sovrappone la tessitura del romanzo che Billy scrive. La scrittura arriva al tempo del suo presente. Il capolavoro diventa compiuto.
E compiuto diventa lo sguardo del king-maker del Maine. Che si è addolcito nel corso dei decenni. La visione è rimasta identica, ma ormai questo scrittore unico non ha più bisogno di un’architettura che crei un mostro da fuori per rappresentare la giungla in cui siamo immersi. Non gli serve più ricorrere alla diabolicità, alla creatività fantastica. Ce lo dicono i libri degli ultimi decenni, con il Male che progressivamente si sposta dall’ambiente all’interno dell’uomo, trovandovi un ecosistema ben più comodo.
L’accentuata presenza dell’infanzia o della gioventù (L’Istituto e Later, tanto per citare i due titoli più recenti), con o senza poteri extrasensoriali, è più che un indizio per comprendere quanto per King l’essere umano debba partire o arrivare lì se vuole fare dell’esistenza quella fonte unica di fatica che gli permetta di dare un valore alto al mestiere di vivere. Vero è che a tratti lo ha detto nel corso della sua parabola artistica.
Non mancano i bambini in Billy Summers. Non manca l’eredità emozionale che essi lasciano al protagonista. In più qui troviamo giustizia, resistenza, rinascita e lealtà che non impattano affatto con la natura dell’attività di colui che al romanzo dà il nome.
Cosa deve fare ancora e di più perché Stephen King vinca il premio Nobel per la letteratura?