Usa & Getta, il racconto americano di Seba Pezzani

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Un viaggio nelle vene dell’America alla ricerca di luci e ombre fatte proprie con anni di letture e studio sulla terra che costituzionalizza il diritto alla felicità. Non il primo e non l’ultimo per l’autore. Seba Pezzani lo fece nel 2005 e ora è diventato un prezioso racconto contenuto in Usa & Getta (Nuova Editrice Berti, pagg. 16, euro 18).

Pezzani, traduttore di letteratura prettamente americana e musicista rock (voce e chitarra dei RAB4), è uno dei cultori italiani più competenti e seri del continente nordamericano. Chi segue le pagine di questo blog ne ha piena consapevolezza.

Un amore né folle né cieco. Occhio critico immune da elementari giudizi moralisti, attento piuttosto a scavare e far emergere radici e cause delle distorsioni che lacerano l’idea primigenia dei padri fondatori degli States. E voce che, partita dalle pagine di libri e dai solchi dei dischi, si è via via definita tanto nelle strade delle grandi metropoli quanto nei vicoli della più profonda provincia americana.

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Seba Pezzani

In America ci sei stato almeno una decina di volte. Quale motivo ti ha spinto a pubblicare i ricordi proprio di quel viaggio e non le annotazioni, gli aneddoti e riflessioni di quelli successivi?

In realtà, l’ho fatto anche con viaggi successivi. Americrazy e Istruzioni per l’USA sono esattamente quello. Solo che quel viaggio americano, il mio secondo in assoluto, aveva avuto un che di magico e mi sembrava che le riflessioni che mi ero appuntato alla fine di ogni giornata di viaggio fossero state baciate da una Musa favorevole, come se ci fosse stato un che di piacevolmente virginale in ciò che avevo scritto. Al tempo, avevo da non molto pubblicato il mio primo libro, Tuttifrutti, insieme all’amico Luca Crovi e la mia autorevolezza non era riconosciuta, ammesso che la sia oggi. Io stesso non ero convintissimo della mia forza e proposi quegli scritti, nati per gioco e per caso, a un amico editore. Non se ne fece nulla e li rimisi nel cassetto. E lì sono rimasti fino a quando la Nuova Editrice Berti, con la cui direttrice editoriale casualmente ne parlai, ha deciso di pubblicarli, in piena pandemia.

Nel libro racconti gli States del 2005.  Da allora com’è cambiata la land of hope and dreams?

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L’amico Joe Lansdale dice sempre che il sogno americano non è una promessa bensì un’opportunità. Da osservatore esterno, la penso allo stesso modo. Ci sono spazi di opportunità che il capitalismo sfrenato e la crescente sperequazione economica erodono sempre più, ma in un qualche modo l’America è sempre stata così: un mare in cui gli squali la fanno da padrone, ma in cui di quando un quando un pesciolino ha una trovata geniale o un colpo di fortuna epocale e riesce a crescere. E, magari, a trasformarsi a sua volta in squalo. Gli USA sono ancora un paese in cui succedono cose che altrove non capitano. Non tutte di segno positivo, purtroppo.

Quel viaggio fu il tuo secondo negli States. E nell’introduzione parli di opportunità per cogliere meglio assonanze e distorsioni con l’idea che ti eri fatto di questa terra grazie all’ampia frequentazione con la sua cultura e arte. Mi interessano le distorsioni. Quali le più evidenti?

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Be’, la prima cosa che mi è balzata all’occhio è il fatto che ci siano, effettivamente, grandi nuclei urbani e grandi centri di modernità, ma che l’America sia fatta principalmente di realtà provinciali, di sacche di primitività che cinema, libri e musica mi avevano sempre indicato, ma che solo la visitazione in prima persona mi ha fatto cogliere in modo chiaro. È un mondo estremamente affascinante. Mi viene in mente un paesino, ai margini del Badlands National Park, in South Dakota, la cui popolazione è dichiaratamente di un centinaio di anime. Sorgendo in una località frequentata esclusivamente da turisti e sostanzialmente d’estate, in una pietraia vera e propria, una legge dello stato consente ai quattordicenni di guidare l’automobile per poter recarsi a scuola nella prima località in cui vi siano delle scuole: Rapid City, a circa un’ora e mezza di strada.

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Se ti dico che ho notato una decisa preferenza delle cittadine più piccole incastonate nella provincia rispetto ai grandi centri?

Hai colto perfettamente nel segno. Adoro la provincia e i paesini. Sono lo specchio dell’America più antica e, ahimè, anche di quella più tenacemente abbarbicata a tradizioni non esattamente progressiste. Ma l’anima dell’America è in larga parte lì. A controbilanciarla ci sono le realtà urbane e più aperte all’avanzamento del tempo e quelle universitarie, spesso di primissimo ordine. Ma il fascino di quelle aree, con le loro contraddizioni, è irresistibile.

Scrivi che niente ti muove il cuore come il Midwest. Quale la caratteristica tutta sua?

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La semplicità e la ripetitività del territorio, la sua primitività (e scusa se mi ripeto), gli spazi enormi con il cielo a pecorelle quando il sole è alto e i nembi che si scatenano quando il sole non ne vuol sapere di presentarsi. Una malinconia sottotraccia che sembra avere lo stesso ritmo di certe ballate. Forse, una parte della forza del rock sta proprio in quello. È qualcosa di ancestrale, quasi inspiegabile. Bisogna andarci, aprire gli occhi e il cuore e, magari, sintonizzarci sulle frequenze della musica che ha origini tra i pionieri.

Scrivi che se borseggi e furti in appartamento sono roba nostra, serial killer e atti di violenza improvvisa per la strada connotano di più gli Stati Uniti. Che verità cogli nella tua osservazione? Possibile dire che gli americani hanno più rispetto per la proprietà che per l’individuo?

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Jeffrey Dahmer, uno dei più celebri serial killer americani

Non mi sento di spingermi a tanto. È una questione molto complessa. La proprietà privata e il diritto individuale in America sono sacri e inviolabili. L’impiccagione del ladro di cavalli è un topos della letteratura e della cinematografia a stelle e strisce, ma rappresenta pure bene un certo modo di intendere le cose: ciò che è mio è mio e io lo difenderò con il coltello tra i denti. Anzi, con la pistola. Non credo che non ci sia rispetto per l’essere umano, ma la scala dei valori in USA è diversa dalla nostra e la legge pure.

Il capitolo su Las Vegas, almeno per il sottoscritto, è tra i più interessanti e divertenti. Una città così troppo finta da essere in realtà realissima. E soprattutto molto amata dalla maggioranza degli americani. Fonte per te di riflessione sul genere umano. Che ruolo ha nel puzzle dell’America?

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È un aspetto del variegato quadro americano. Sono felice di esserci stato e chissà che un giorno non ci torni. Lo stridente contrasto tra le comitive di sorridenti ottantenni in vacanza e la sordida vita dei giocatori d’azzardo professionisti, in bilico costante ma pure incapaci di allontanarsi da quell’esistenza deprimente, tutto sommato fa pendere l’ago della bilancia verso i primi. Non ha molto senso addentrarci in analisi moralistiche. Non c’è niente di male nel farsi una giornata di svago in una Disneyland per adulti (in fondo, la Disneyland dei bambini non è un luogo enormemente più edificante, in quanto altrettanto finto), anche se una giornata, al massimo due giusto perché il deserto circostante è molto affascinante, basta e avanza.

L’America selvaggia. Dici che ti offrono su un piatto d’argento le opportunità per far tue emozioni primordiali e racconti di come, in certe zone, non sia per nulla strano alzarsi la mattina e vedere un puma appollaiato sull’albero del giardino. Cosa ti è rimasto di questo preciso profilo americano?

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Il senso di libertà che gli spazi sconfinati della provincia e il DNA del popolo americano ti trasmettono. C’è qualcosa di impalpabile che, dunque, sfugge alle definizioni del cronista. L’ampiezza degli spazi spaventa ed è forse anche per questo che l’americano medio è ossessionato dalla necessità di difendersi. Da cosa? Da se stesso, dai suoi spettri primordiali. Ma camminare nel deserto della California piuttosto che tra i boschi dell’Oregon riconcilia con la natura e con il senso di inferiorità che l’uomo farebbe bene a mantenere sempre.

A Goldendale, in Oregon, andasti con la tua ex ragazza a un concerto di Bob Dylan. E sottolinei un aspetto che da anni Bruce Springsteen mette in risalto con malcelato rimprovero: buona parte del pubblico non fa che andare e venire dai baracchini che vendono birra soprattutto durante i pezzi più lenti, mentre in Europa non ci si perde un attimo dell’evento. Anche il minimo gesto del musicista diventa prezioso per la propria memoria. Che cosa ti suggerisce questa differenza?

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Che il concerto rock in America, paese in cui è nato, è soprattutto una festa popolare e che, come tale, va vissuta. La cosa stride alquanto con la straordinaria bellezza, la grande profondità emotiva e la forza geniale di alcuni grandi rocker, come gli stessi Dylan e Springsteen, ma gli americani si godono un concerto proprio come si godrebbero una partita di football: accampandosi nel prato e facendo una specie di picnic.

Ci fai sapere che per la tua ex compagna si trattava della sua prima volta a un live di Dylan. Ma non ci dici se le piacque.

Si tratta della mia “ex” e, dunque, qualche ragione ci sarà. È un’appassionata di musica, ma i suoi gusti sono abbastanza diversi dai miei. Non credo avesse mai realmente ascoltato Dylan, ma il concerto fu comunque un bel momento anche per lei. Quando sei innamorato, a volte ti fai andare bene anche Britney Spears o Il Volo. Be’, non esageriamo…

Ti fece effetto vedere le armi in vendita in un supermercato come Walmart?

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Fucili venduti liberamente in un negozio Walmart

Sì, parecchio. Oggi molto meno, perché sono abituato all’idea. La prima volta, non potei fare a meno di fotografare rastrelliere e bacheche con revolver, fucili a pompa e quant’altro.

America significa anche vasti spazi. I vasti spazi sono uno stimolo per lunghi viaggi in auto. Le radio sono sempre la buona compagnia che conosciamo?

Assolutamente. È una delle verità che la filmografia ci propone da sempre. Adoro ascoltare le FM americane in macchina perché le parole dei DJ sono scandite dalle loro cadenze locali o etniche e hanno una musicalità incredibile.

Preferisci le highway o le strade blu?

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Preferisco sempre le strade statali o comunque le strade piccole perché si addentrano nel territorio e ti consentono di immagazzinarne l’intrigo durante il viaggio, magari facendo una sosta in un drugstore o in una stazione di servizio o, semplicemente, in un posto in cui ti va di trascorrere qualche ora in più.

Incontrasti mormoni e cattolici da Vecchio Testamento. Il duro senso ultrareligioso di specifiche zone è uno degli aspetti centrali degli Stati Uniti. Provincia e metropoli si equivalgono o sono due Americhe differenti?

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La varietà confessionale americana è incredibile. Se domattina ti svegli con l’illuminazione e ti va di fondare una chiesa, una confessione, una setta o che so, puoi tranquillamente farlo. Nessuno ti mette i bastoni tra le ruote e nessuno pensa che tu sia uno svitato. Non lo penso nemmeno io, anche se la cosa mi fa sorridere immancabilmente. Come sempre, il contrasto fra ambiente urbano e rurale è nella portata delle cose. Ma non sempre a favore di uno o dell’altro.

Che idea ti sei fatto sulla direzione verso cui sta camminando la tua America?

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Ancora non me la sono fatta pienamente. Penso che i quattro anni di Trump siano stati disastrosi, ma abbiano cristallizzato ciò che era già nell’aria. L’America da sempre ha bisogno di un nemico per funzionare a pieno regime. È una cosa brutta da dire, ma è l’unico paese che, dal 1945 in poi, abbia in qualche modo partecipato a ogni guerra combattuta nel mondo. Non credo che le cose possano cambiare drasticamente. Ciò che sta cambiando è sul fronte interno, dove la sperequazione ricchi-poveri è sempre più evidente, la polarizzazione politica è a livelli allarmanti e l’attaccamento di ognuno ai propri piccoli privilegi sta erodendo sempre più ogni spinta solidale. La cosa peggiore è la guerra dei poveri che ne consegue, con la classe media bianca sempre più a livelli di sussistenza e sempre più in contrapposizione con la classe media di colore, oscillante sopra e sotto la sussistenza. Non sarei sorpreso se una scintilla in un futuro non lontano scatenasse un principio di guerra civile.


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