Partire da un eccidio realmente accaduto ma lontano nel tempo e farne romanzo che non solo restituisca l’orrore di cui fu fonte, ma penetrare nella psicologia di chi lo ideò e attuò e contemporaneamente scrivere una bellissima storia di formazione di un gruppo di giovani in una cittadina nel Michigan.
È l’impresa riuscita a John Smolens con Il giorno dei giorni, da noi pubblicato da Mattioli 1885 lo scorso anno con la traduzione (e nota finale) di Seba Pezzani.
In sintesi il fatto. Il 18 maggio 1927 a Bath un benestante cittadino di nome Andrew Kohe fece esplodere una bomba nella scuola pubblica della cittadina, causando quasi 50 morti tra bambini e adulti (tra cui egli stesso). Il massacro di Bath è riconosciuto ancor oggi negli States come il primo atto di terrorismo su suolo statunitense.
Come sempre, con il nostro Virgilio ecco il viaggio dentro questo magnifico romanzo. Magnifico in tutto, per scrittura, per incrocio di storie, architettura narrativa e poeticità della voce narrante.
So che sei molto legato a questo libro. Che cosa è stato per te? Quali le tue reazioni una volta chiusa la lettura?

Sono legato a questo libro perché, dopo aver tradotto il primo romanzo italiano di John Smolens, tra me e l’autore è scoccata un’autentica amicizia. Della serie, oggi pomeriggio ci sentiremo in videochiamata, come facciamo con una certa regolarità. La sensazione dopo averlo letto e, in un secondo momento, tradotto (in genere, non leggo mai un libro prima di tradurlo, ma stavolta l’editore mi ha chiesto di farlo per dargli una prima impressione), è stata di essere di fronte a un grande romanzo americano.
Per quanto folle nel suo criminale gesto, la figura di Andrew Kohe assume nel romanzo una potenza fuori dal comune. Evitando ogni identificazione o empatia, mi sembra che Smolens costruisca un personaggio di grande complessità restando sempre all’interno della nebbia che lo avvolge. È questa indefinitezza il punto forte del suo scrivere?

Certamente, non si può fare a meno di provare una certa simpatia per il personaggio. Ovviamente, non sappiamo come fosse realmente Andrew Kohe nella vita, ma so che John Smolens ha fatto il possibile per ricostruirne un’immagine aderente a ciò che le cronache e i documenti del tempo hanno fatto emergere. In fondo, un bravo autore di romanzi storici ha pure il compito di restituire quel minimo di dignità umana che ciascun individuo (in proporzioni diverse) non manca mai di avere. Una dignità che hanno anche personaggi che si distinguono per nefandezze indicibili.
“Che cos’è un criminale? Kohe chiede a un certo punto a Jed, il dodicenne che, nelle more dell’anno scolastico, l’uomo tiene a lavorare nella sua fattoria. E il ragazzino, dopo la strage, non è “sicuro di conoscere tutto ciò che aveva reso quell’uomo com’era”. Le difficoltà economiche? Il non aver potuto avere figli? Lo stato di salute della moglie? Ma è sicuro di una cosa: avrebbe fatto meglio a morire da solo invece di scegliere di far male a Bath. A prima vista una conclusione elementare. Ma, a mio parere, solo a prima vista. Che ne pensi?
Ogni storia che viene raccontata e ogni scelta stilistica per raccontarla si prestano a interpretazioni duplici. Sono certo che qualcuno possa trovare semplicistica la ricostruzione dei fatti e il tono con cui Smolens l’ha fatta. La vicenda non si presta a grandi interpretazioni: una mattina Andrew Kohe si è fatto esplodere dentro una scuola insieme a decine di innocenti. Capirne le ragioni profonde, il disagio e la rabbia covati per arrivare a una scelta così estrema e drammatica rasenta sempre quel confine di arbitrio postumo che qualche lettore può trovare indigesto. Ma la bonomia di Smolens è per l’umanità in generale, con le sue ataviche contraddizioni. Kohe è un uomo come tutti e, come tutti, va in qualche modo capito. La condanna della sua atrocità è chiara in tutto il libro. Liquidarla come il gesto sconsiderato di un folle non avrebbe reso giustizia alla letteratura che Smolens cerca di fare.
Su una staccionata della fattoria dei Kohe fu trovata una scritta: criminali non si nasce, si diventa. Che cosa ci vedi, una semplice prova che egli fu del tutto in grado di intendere e di volere o la volontà con un supremo gesto dentro cui immolare se stesso e la moglie Nellie di trasmettere un ricordo delle generazioni future?
Non saprei, sinceramente. In quelle parole – il cartello pare ci fosse veramente, in base alle ricostruzioni storiche condotte – trovo, piuttosto, la volontà dell’autore di esprimere un suo pensiero. Credo che si evinca che Smolens considera malata l’umanità e che sia sostanzialmente d’accordo sul fatto che di bambini cattivi non ne nascano e che sia il mondo e, in misura minore, il libero arbitrio a fare di noi ciò che siamo.
Il giorno dei giorni non si limita a essere un romanzo su un massacro. Nell’intreccio tra personaggi realmente esistiti e altri di pura fantasia, il racconto ci svela una storia di formazione alla vita di giovani che crescono in una comunità rurale il cui tempo è scandito come un metronomo. Che cosa pensi di questa venatura parallela a quella della strage?
Ogni romanzo storico che si rispetti non può essere la semplice riproposizione di un evento realmente accaduto. Per fare quel tipo di ricostruzione, la ricerca storica è decisamente meglio equipaggiata. Credo che il romanzo di formazione all’interno del romanzo storico di Smolens forse sia ancor più importante della cornice storica che lo avviluppa. Comunque, almeno, sullo stesso piano. E mi pare che i ragazzini protagonisti siano perfettamente riusciti.
Dal punto di vista letterario, la storia è pervasa da leggerezza di toni e dialoghi semplici. Anche nella parte post strage Smolens evita di puntare il faro sul dettaglio dell’orrore. Alla spettacolarità sinistra del racconto preferisce l’osservazione a distanza e sottolineare come i media di lì a poco si sarebbero diretti in massa verso l’impresa di Charles Lindberg lasciando ai cittadini di Bath il compito di portarsi appresso il fardello di tutto quel sangue. Una scelta che ha pagato?
A me pare di sì. L’orrore è nei fatti. Inutile calcare la mano. Molto meglio mantenere una certa leggerezza. Almeno in questo tipo di romanzo.
Come traduttore, come hai trovato la sua scrittura in inglese?
Lo stile di John non è facilissimo, ma tradurre Il giorno dei giorni è stato più complicato che tradurre il precedente Margine di fuoco. Difficile spiegarti perché. Forse, c’è un uso superiore di uno slang vecchio.
Nel testo ci sono alcuni termini in italiano, cosa che sottolinei nelle note a piè di pagina. Smolens scrive, tra l’altro, di zuppe, pasta e fagioli, guance. Scelta curiosa visto che non c’è un personaggio italiano o di radici italiane e queste parole non sono proprio internazionali, non trovi?
Torna tutto alla passione di John Smolens per il nostro paese. Peraltro, nonostante abiti nell’Upper Peninsula del Michigan, la zona remota in cui si svolgono tutte le sue storie, pare che ci sia una comunità di origine italiana abbastanza numerosa.
I fatti si conoscono, ma addentrarsi nella parte finale del romanzo è sempre gesto sconveniente per un futuro lettore. Mi limito a chiederti che cosa ne pensi della riflessione sulla morte a cui si lascia trasportare Bea.
Be’, il libro si apre con Bea, vecchia, in un letto d’ospedale e, dunque, si capisce subito che i suoi giorni sono contati. La riflessione è un’anticipazione del tono della storia, che si sa dal principio che non avrà un finale roseo. La si può interpretare come l’accettazione dell’ineluttabile che accomuna il nostro destino di esseri umani.
A proposito di Bea. È lei la narratrice della storia. La racconta ormai alla fine dei suoi giorni in un ospedale. Che cosa aggiunge al libro una scelta del genere?
Direi poco o nulla. Il libro sarebbe potuto iniziare dalla scena dei due bambini prima del fattaccio. Non sarebbe cambiato nulla.

Il romanzo è ambientato negli anni Venti del secolo scorso. Un decennio davvero spartiacque per la storia americana in cui successe di tutto. Grandi conquiste come il motore a scoppio e l’elettricità, esperimenti educativi come la scuola unica dove studenti di diversa età e classe condividevano la stessa stanza e gli stessi insegnanti. In musica esplose l’“età del jazz” (anche) per mettersi alle spalle le scorie della Grande Guerra. E poi il proibizionismo, Al Capone, l’isolamento per via della non adesione alla Società delle Nazioni. E poi lo tsunami di Wall Street 1929 con la conseguente Grande Depressione in cui si sfiorò una nuova guerra civile. Fu quello il momento in cui si scrisse il prologo della storia americana del Novecento fino a oggi?
Io credo di sì. È quasi impossibile pensare all’America di oggi senza quegli anni e senza la Grande Depressione, un momento tragico, che però ha saputo dare impulso a un paese in fase di stagnazione, con grandi innovazioni e voglia di vivere. Ci sono alcune fasi della storia di ogni paese che restano punti di svolta. Direi che per gli USA potrei indicare la Guerra Civile, la Grande Depressione, la Seconda guerra mondiale, la Guerra del Vietnam e l’11 settembre. Tristemente, quattro di questi cinque momenti sono conflitti.
Bath è una cittadina del Michigan e Il giorno dei giorni non è il primo suo romanzo ambientato in questo stato. Che ci dici del Michigan?
Non sono mai stato nell’Upper Peninsula, una zona vergine di laghi e boschi di conifere. La zona in cui John ambienta praticamente tutte le sue storie. Ho visto splendide foto. Sono stato in altre zone del Michigan, soprattutto intorno a Detroit che, paradossalmente, non ho visitato. Ho visto Jackson, Lansing, Flint, per giunta proprio durante la crisi del 2008, e devo dire che non sono luoghi ridenti. Ann Arbour è decisamente meglio e pure le campagne sono pittoresche.
L’edizione italiana si chiude con una tua sentita nota. Scrivi che Smolens è l’autore perfetto per un traduttore e il legame che negli anni è sorto tra voi è collaudato anche dalla vostra comune natura di chitarristi. Ti va di raccontarci qualcosa di lui?
John è un uomo estremamente garbato, un gentleman direbbero gli inglesi. Ti accoglie sempre con un sorriso rassicurante, risponde garbatamente a tutte le richieste di chiarimento su alcuni passi complessi o su eventuali situazioni ambigue. Lo fa con delicatezza, ma pure con l’intelligenza di chi sa che la sua scrittura ne uscirà meglio nella lingua in cui viene tradotta. È da sempre appassionato di musica e hockey su ghiaccio (che ha pure giocato a un discreto livello). Io sono appassionato di musica, mentre non so nulla di hockey. È americanissimo, ma, al tempo stesso, dispone della cultura e dell’apertura mentale necessarie per dare agli USA la giusta collocazione all’interno del mondo e per non metterli su una vetta inarrivabile.
Indeed, a great friendship has developed as Seba and I have worked together on my books. No one knows a book better than a translator. It is a remarkable talent, to be able to translate a book into another language. I am pleased that he notes that while this novel depicts a very dark chapter in American history, it also portrays how children grow up and mature despite such horrific events. Molto grazie, mio amico. Sei molto generoso e gentile….
I totally agree.
John, YOU are generous and kind…