Canto della pianura di Kent Haruf (pubblicato da noi da NNE) è un romanzo che potrebbe a ragione essere messo al centro di un seminario sulla scrittura letteraria. Le frasi scorrono con una semplicità esemplare, ma sono acqua di sorgente. Una sorgente che parte limpida e fresca e arriva al mare minata dall’esperienza della sua strada che ne cambia colore e sapore.
Secondo titolo della Trilogia della pianura (che incomincia con Benedizione e si chiude con Crepuscolo), il romanzo è uno spaccato minimalista di esistenze elementari racchiuse nella vita semplice di Holt, cittadina del Colorado.
Con Seba Pezzani, il Virgilio di questa cavalcata sulla letteratura americana contemporanea giunta al sesto episodio, la nostra camminata dentro un libro bellissimo in cui il lettore, seduto nel portico di una delle tradizionali case della provincia americana, vede scorrere vite che, nella loro esile linearità, vengono alimentate da una elettricità molto cupa.
Che cosa ti colpì di questo romanzo per volerne parlare oggi?
La semplicità. In realtà, era da un po’ che mi trovavo alle prese con un dilemma frequente: provare a leggere un best seller (sempre che si possa così definire un romanzo di Kent Haruf) oppure scansarlo? Un amico libraio ha insistito tanto nel decantarne le qualità che per poco davvero non l’ho scansato. Poi mi sono detto che dovevo provarci: in fondo, il relativo successo dell’autore era postumo. Così acquistai una copia usata su Amazon e la feci mandare a casa di Joe Lansdale in Texas, in vista della settimana che vi avrei trascorso per scrivere il mio libro Joe Lansdale. In fondo è una palude. La cosa buffa è che quel libro inizialmente non si trovava: semplicemente, Joe non aveva capito che era mio e lo aveva messo nelle enormi pile di libri che riceve quotidianamente. Non mi sono pentito minimamente di aver contravvenuto alla mia regola del “niente best seller”.

Al di là di un paio di episodi non edificanti il romanzo è costellato da personaggi e azioni positive, eppure, almeno questa è la mia sensazione, la lettura è permeata da un costante spirito nero che accompagna il lettore per tutto il percorso. È successo anche a te?
Be’, sì, non si può certo dire che sia una lettura solare. Ma, se ci si pensa bene, la grande letteratura americana (forse la grande letteratura più in generale) parte quasi sempre dall’assunto che nessuno uscirà vivo di qui. C’è un pessimismo che permea ogni pagina, anche nei momenti più apparentemente sereni, che peraltro non sono numerosi.
Intanto il luogo, Holt nel Colorado. Terra di campi, case basse con le verande sul portico, estati torride e inverni ventosi. Che America vive a Holt?
L’America vera, a mio modo di vedere. Ho incontrato diversi lettori che sono convinti che sia un’America finta. Non sono per niente d’accordo: Holt è il prototipo della cittadina sonnolenta di provincia, con i suoi ritmi blandi e le sue piccole tragedie. Qualcuno addirittura mi ha detto che i romanzi di Kent Haruf sono vuoti. Anche in questo caso non sono per niente d’accordo. Sono semplici, minimalisti, ma non certo vuoti. Dentro c’è la vita vera.
E, più in generale, che America è il Colorado?
Uno stato bellissimo dal punto di vista naturalistico, con le Montagne Rocciose a fare da padrone assolute. Uno stato progressista. Non scordiamoci che è stato il primo, se non sbaglio, a liberalizzare la vendita e il consumo di marijuana. Ci sono splendidi altipiani dove si ha la sensazione di essere al livello del mare e dove in realtà si sfiorano i 2.000 metri di altitudine. È uno stato scarsamente popolato, dove si può vivere isolati nella natura.
L’altro centro d’azione del libro è Denver. La grande città opposta alla piccola Holt. Un altro mondo, dove si va per espiare il male che si porta dentro (Ella) o in cui il male si genera da sé (il ragazzo-bullo di Victoria). Troppo manicheo vederla così?
No. Se non sfocia nel banale, il manicheismo io lo approvo quasi sempre. Sono stanco dei moderni ribaltamenti di concetti che dovrebbero essere assodati. Sono stanco di sentir usare la parola “buonista” per tacciare i buoni di qualcosa che non hanno fatto. Come si fa a prendersela con qualcuno solo perché ha fatto una buona azione? Sono stanco di sentir parlare di “politically correct” e non di “giusto”. Io credo che Kent Haruf rappresenti bene i valori contrapposti della sua (come di qualsiasi altra) società.

Prese singolarmente, le vite dei personaggi si distinguono per la loro ordinarietà. Non c’è un eroe, il cattivo non è esattamente uno dietro il quale sguinzagliare un investigatore, non si ha traccia di particolari talenti o estrosità. Vite comuni di gente normale. Eppure, nel complesso della loro presenza, il lettore sente che si tratta di vite in qualche modo vissute nel significato più intimo della loro esistenza. Non trovi una qualche somiglianza con il mondo di Raymond Carver?
Conosco poco Carver, francamente. Le vite descritte da Haruf sono il trionfo dell’ordinario. Però, attraverso le situazioni di conflitto in cui i personaggi vengono a trovarsi persino in una cittadina dove il tempo pare scorrere sempre uguale a se stesso, senza scossoni, vengono a crearsi scontri tettonici umani che rendono più avvincente la storia. Se ci si pensa bene, la vita reale si svolge spesso così.
Ci vuole una gran penna per veicolare il contrario di quello che si sta scrivendo, non trovi?
Kent Haruf è una gran penna. Io lo trovo straordinario nella semplicità.
In generale, che mi dici della scrittura di Ken Haruf?
La trovo splendida e, soprattutto, adeguatissima alle situazioni che racconta.
Tra i personaggi, i due fratelli Harold e Raymond McPheron dimostrano, nella loro semplicità di contadini e allevatori, una grandezza letteraria totale. Due adulti che, isolati dal centro della vita della cittadina e coscienti della propria limitatezza, hanno in sé una cultura dell’etica e del bisogno altrui che non s’impara solo sui libri o nei banchi di scuola. Che effetto ti hanno fatto?
Ripeto, trovo i personaggi di Haruf estremamente credibili nella loro semplicità, addirittura nella loro banalità. Sappiamo bene che non serve pescare in un ambiente accademico per individuare persone di grande spessore umano e saggezza quasi letteraria.
Negli States vive un po’ il mito dell’uomo onesto di bassa estrazione, poca o niente cultura, ma che riesce a dare un senso al proprio vivere con il proprio lavoro e un’esistenza proba. Facile pensare a Forrest Gump. I due fratelli del romanzo incarnano il vero spirito americano o qualcosa di più universale?
Ho sempre pensato che la grande letteratura di provincia americana partisse avvantaggiata rispetto a quella di qualsiasi altro paese “occidentale” e pure rispetto a quella dei paese di altre latitudini. Gli USA sono certamente un paese dell’Occidente, ma hanno pure vaste sacche di arretratezza e zone in cui gli individui conducono esistenze che uno si aspetterebbe magari in lontane campagne cinesi piuttosto che in certe aree remote africane. Questo aspetto primitivo della società americana, che emerge principalmente lontano dai grandi centri urbani, consente ai narratori statunitensi di partire da un mondo umanamente basilare in cui le emozioni primarie vengono a galla con assoluto nitore. Lo trovo un enorme vantaggio. Per questo, figure come quelle dei due fratelli o di Forrest Gump difficilmente le troveresti altrove: vengono da una società, quella americana, in costante bilico tra modernità e arretratezza.
Un personaggio enigmatico è Ella, madre di Ike e Bobby, e moglie di Tom Guthrie. Disillusa, depressa, chiusa nel mondo della sua stanza, supportata da un senso di fallimento che la convince a lasciare famiglia e luogo. Il lettore non ha ragione di non crederle, ma allo stesso tempo non gli viene fornito un minimo motivo per comprenderla. Come la inquadri?
Be’, in un romanzo non possono solo esserci figure simpatiche e solari. La disillusione e la depressione sono temi universali, soprattutto se declinati al femminile, e mi pare che arricchiscano la narrazione. Mi viene in mente un

personaggio per certi versi analogo: Ruth Popper (uno dei personaggi del film L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, ndr), moglie insoddisfatta del fedifrago insegnante di educazione fisica che decide di rendergli pan per focaccia seducendo un giovane allievo del marito e finendo solo per appesantirsi la coscienza.
L’intero panorama dei personaggi femminili è complesso. Non c’è una donna che assomigli a un’altra per pensiero e azione in un ventaglio generazionale piuttosto ampio. Eppure le differenze non sembrano venire dalla loro età. Quale di questi personaggi ti colpì maggiormente?
Non ce n’è uno in particolare, anche se proprio Ella mi sembra interessante.
Il romanzo è diviso in capitoli dedicati singolarmente al personaggio di turno. Che cosa dà e che cosa toglie questa divisione narrativa così schematica?
È un vezzo che vedo usare sempre più spesso. Secondo alcuni è una banalizzazione. Io non lo trovo né buono né cattivo. È una scelta.
Canto della pianura è una parte della Trilogia della pianura di Haruf. Gode di una vita a sé, fuori dall’incastro con gli altri due volumi. Ma che ruolo gioca nel progetto complessivo dell’autore?
Francamente non ne ho idea, perché gli altri due capitoli non li ho letti. Ho letto, invece, La strada di casa che mi è piaciuto assai.