Secondo appuntamento con un libro della letteratura americana contemporanea con Seba Pezzani. Romanzo e scrittore davvero speciali. Il testo, In fondo alla palude, in Italia pubblicato da Einaudi, è uno dei libri più duri scritti da Joe R. Lansdale, autore di grandezza celebrata in tutto il mondo. E, di certo, non solo per via delle classifiche di vendita.
Un passo indietro. Seba Pezzani non ha soltanto tradotto tanti testi di Lansdale, ma ne è autentico amico da anni. E con lui ha scritto un libro che caldeggio per chi vuole conoscere o approfondire la conoscenza dello scrittore texano. S’intitola Joe Lansdale. In fondo è una palude, uscito nel 2018 per Giulio Perrone. Un caldo dialogo lungo quasi mezzo secolo attorno alle pagine dei libri del papà di Hap & Leonard, alla sua terra e la sua storia personale.
Ora, preparatevi a entrare nella palude umana scritta da Lansdale. E ad andarci a fondo.
Seba, perché hai scelto di parlare di questo libro?
Semplice: perché è uno dei miei romanzi preferiti di Joe R. Lansdale e, forse, dell’intero panorama letterario contemporaneo americano.
È un romanzo in cui incombono la morte, la crudeltà umana, gli effetti della Depressione del 1929 e il senso della fine. Eppure riesce a esprimere una dolcezza infinita. Io ritengo riposi in questo la poeticità che qui Lansdale riesce a esprimere. Cosa ne pensi?

Non posso che essere d’accordo con te. Conoscendo Joe di persona, so bene che tipo di uomo sia: tutto d’un pezzo, all’antica nel senso migliore del termine, dolce, compassionevole, sempre pronto a una parola o a un gesto d’affetto e solidarietà per chi è meno fortunato di lui. La Grande Depressione Joe non l’ha conosciuta, ovviamente. I suoi genitori, invece, che l’hanno avuto in età avanzata, gliene hanno parlato in abbondanza e qui i ricordi si sono sedimentati in lui, creando un tesoro di memorie e atmosfere da cui ha attinto abbondantemente e attinge tuttora. Sappiamo bene quanto forti e, talvolta, apertamente grafiche siano certe sue descrizioni. Se non ci fosse quella vena poetica, probabilmente oggi non staremmo nemmeno a parlare del romanzo e dell’autore. Di scrittori che rappresentano la violenza della società americana in modo talmente crudo da sfiorare l’eccesso ce ne sono fin troppi e, francamente, ne faccio pure a meno.

La presenza di due bambini, uno dei quali, Harry, torna con la memoria a settant’anni prima per svolgere il suo racconto, connota da subito la narrazione. Non è un episodio isolato nella letteratura dell’autore, mi viene in mente Echi perduti, il cui protagonista peraltro porta lo stesso nome. Che cosa rappresenta, secondo te, l’infanzia per l’autore?
Tutto, sul piano letterario. Come hai notato tu stesso, la maggior parte dei libri di Lansdale, tranne ovviamente quelli della serie di Hap & Leonard (nei quali, peraltro, ogni tanto i protagonisti rivisitano la giovinezza col pensiero), sono romanzi di formazione, nel solco della continuità rispetto a capolavori come Il buio oltre la siepe di Harper Lee, da lui spesso citato, se non addirittura preso a omaggio, come nel caso de La sottile linea scura, un seguito ideale di In fondo alla palude. Il momento del passaggio tra l’infanzia e la vita adulta appresentato dai primi vagiti dell’adolescenza esercita da sempre un fascino irresistibile per molti autori di stampo classico. A me lo “stampo classico” piace un sacco. A Lansdale pure.
In questo, come in altri testi, Lansdale spesso ci apre le strade del Texas orientale. Anche in una recente intervista che mi ha concesso per il mio giornale, My Urby, lo ha citato ammettendo indirettamente che si tratta di un marchio impresso a fuoco sulla pelle. Che cos’ha questa specifica terra del Texas che ormai io vedo come uno Stato nello Stato all’interno della Repubblica Federale?
È il suo mondo. Si sente spesso dire che un autore dovrebbe sempre parlare di ciò che conosce perché solo così riuscirà a dare il meglio di sé. Il Texas orientale è uno stato mentale, dice sempre Joe. Di certo, è geograficamente e culturalmente più vicino alla confinante Louisiana e al Sud più in generale di quanto non sia al resto del Texas: Joe non si stanca di sottolineare che dalle sue parti non ci sono cactus, praterie e mandriani, bensì paludi, foreste impenetrabili, sgangherati cantanti country & western e pure blues. New Orleans è a “sole” sei ore di macchina. I suoi romanzi Joe li ambienta tutti in quel lembo di Texas e, proprio di recente, gli ho sentito dire una cosa che trovo autentica: “Finire per scrivere del Texas orientale anche se stessi descrivendo una scena in cui i miei personaggi sono su Marte o nell’antica Roma”. E lo ha pure fatto!
Ti ha mai parlato Lansdale di questo romanzo?
Oh, sì. Joe è perfettamente conscio del ruolo di questo romanzo nella sua carriera di scrittore e di quanto sia speciale. Ovviamente, gli stanno a cuore altre sue creazioni, ma sa bene che questo è un romanzo che lo ha in qualche modo fatto entrare di diritto tra i grandi narratori contemporanei e che gli è valso la scomoda (e non amatissima) etichetta di “Stephen King del Texas orientale”. Inoltre, è forse il suo libro che ha venduto di più ed è stato adottato da diverse scuole.
Oh caspita, le etichette… con che facilità vengono appiccicate. Togliersele è quasi impossibile e possono condizionare non poco la creatività di un autore se s’inchiodano nella testa. Come ha reagito Lansdale all’accostamento con King?
Da un lato, la lusinga di essere accostato a un autore del calibro e della popolarità di King non può non averla avvertita. Dall’altro, l’idea che qualcuno ancor oggi lo accosti a qualcun altro un po’ lo stizzisce, anche perché i due sono diversissimi. Di recente, l’ho sentito commentare dicendo qualcosa tipo, “Forse è King il Lansdale del Maine…”.
Tornando al romanzo. Qui sono assenti tanto lo humour quanto il sarcasmo tipicamente lansdaliani che così tanto ci fanno amare le sue storie. Siamo pervasi da un’atmosfera rarefatta che ci conduce verso l’abisso. Un caso così raro da non poter ritenere In fondo alla palude un tipico esempio della letteratura di Lansdale?
Non sono del tutto d’accordo con te. Certo, si tratta di un romanzo dalle tematiche talmente universali e dalle tmosfere talmente cupe da far impallidire il minimo sorriso, ma credo che nemmeno qui manchi qualche scenetta esilarante o, comunque, in grado di stemperare la tensione.
Intendevo che, proprio perché colpisce tematiche universali, immagino l’autore sprofondato nella storia senza quella leggerezza d’animo che invece, sempre supposizione mia, lo pervade quando scrive altre storie. Immagino Lansdale sghignazzare in certi passaggi di gran parte dei suoi libri, il che si riflette poi in noi lettori.
Sinceramente, non ho avvertito questa sensazione leggendo In fondo alla palude. Va detto, però, che il libro l’ho riletto pochi anni fa in inglese, dopo aver letto la traduzione non bellissima in italiano e non essermi goduto appieno l’esperienza nella prima occasione. E, dunque, quando ho apprezzato appieno questo romanzo, Joe lo conoscevo già talmente bene da non percepire certe sfumature.
Come traduttore di tanti libri di Lansdale, che cosa pensi della sua scrittura? Quali le sue particolarità?
Il linguaggio della strada, talmente poco letterario da diventare fortemente letterario. In tanti ci hanno provato, in pochissimi sono riusciti nell’impresa. Joe scrive esattamente come parla. Leggendo certi suoi dialoghi, mi pare proprio di sentire la sua forte cadenza del Texas orientale. Sarà perché lo conosco davvero bene, ma non ho mai avuto difficoltà a capire il suo accento stretto che so che, per molti interpreti, può essere un incubo. In varie occasioni, Joe mi ha confessato di essersi sentito a disagio nel corso di incontri pubblici in Italia per via delle difficoltà dell’interprete di turno. Una volta, addirittura, al Festival della Letteratura a Mantova, la sua casa editrice chiese espressamente che fossi io a tradurlo, dato che lo stavo seguendo in un tour italiano, e la direzione del festival non glielo consentì. L’interprete ufficiale non fu un disastro, ma certo non fornì una prestazione eccelsa, diciamo.
A latere c’è la parabola del cane Toby, malandato, sempre in procinto di essere ucciso per alleviare le sue sofferenze. Eppure continua a vivere facendo la felicità dei due bambini e riuscendo addirittura a continuare a essere utile alla famiglia come segugio. Un essere indifeso che arriva alla sua più naturale fine. Possiamo vedere in Toby una metafora tra le righe?
Può essere, ma, conoscendo Joe, mi pare piuttosto che la sua passione viscerale per gli animali e, soprattutto, per i cani gli impedisca di fargli fare una brutta fine. È pur vero che in altre occasioni succede, ma già me lo vedo con la faccia riste e vedo pure l’espressione accigliatissima di sua moglie Karen di fronte a una sua pagina in cui un cane venga maltrattato o che so.
Il romanzo a un certo punto sembra fermarsi e diventa una sorta di manuale del buon investigatore. Jacob, il padre di Harry, sceriffo nonché barbiere del paese, esprime tutta una serie di possibilità, intrecci, nodi e soluzioni sui casi delle morti delle povere donne. A me è sembrato che qui Lansdale proponga un gioco ai lettori: questo è il canovaccio che ha davanti a sé Jacob, ora provate a far vostri questi ragionamenti e vediamo che detective siete.
Bisognerebbe chiedere a lui. Io non me ne sono accorto, ma non sono certamente un lettore perspicace.
Ho trovato incantevole la figura di Miss Maggie. Il suo racconto a Harry del Travelin’ Man mi ha fatto ritornare al patto di Robert Johnson al crocevia col Diavolo. Il violino al posto della chitarra ma la citazione della leggenda ci sta tutta. Tu, da amante del Delta Blues, come l’hai percepita?
Esattamente come l’hai percepita tu. È l’ennesimo omaggio a un topos ormai classico della cultura sudista afroamericana, all’interno di una storia che è zeppa di omaggi e che si pone di per sé come un omaggio a quell’universo enorme e variegato che è il racconto orale del Dixie.
La mano con cui Lansdale affronta il razzismo in quel particolare periodo della vita negli States la trovo tragicamente perfetta. Passami il luogo comune, veramente più efficace di tanti libri di Storia. Grazie anche alla tua frequentazione con l’autore, quanto questo tema s’inserisce nella sensibilità di Lansdale?
Tantissimo. Lo ha nell’anima. Ti racconto solo un piccolo episodio. Quando andai a trovarlo a Nacogdoches e passai una settimana a casa sua, tre anni fa, per scrivere il mio libro Joe Lansdale. In fondo è una palude, Joe mi portò a Gladewater, la cittadina in cui era cresciuto con la sua famiglia, a un’oretta di macchina dalla sua attuale residenza. Passammo davanti al vecchio cinematografo e mi raccontò che da ragazzino vedeva i neri entrare da un ingresso laterale e salire in galleria, mentre i bianchi naturalmente trovavano posto in platea e utilizzavano l’ingresso principale. Una volta, passandoci davanti a piedi con sua madre, le aveva chiesto: “Mamma, perché i neri entrano da un ingresso diverso?” e sua madre gli aveva risposto: “Figliolo, è difficile per me spiegartelo in questo momento, ma sappi che non è giusto e che non sarà sempre così”.
A proposito di Nacogdoches, spiegami un po’ di che paese si tratta. Per chi ama questo autore si tratta infatti di una sorta di sancta sanctorum come Duluth per i fan di Dylan, Freehold per quelli di Springsteen o Memphis per quelli di Presley.
Be’, è una cittadina universitaria alquanto remota rispetto ai grossi centri come Dallas e Houston (entrambi a circa tre ore di macchina). Però, se non ricordo male, è stata la prima capitale del Texas e Sam Houston per un po’ ci aveva stabilito la sua residenza. È una bella cittadina, con un centro storico piuttosto antico per gli standard americani: edifici in mattoni rossi e strade a misura d’uomo. I dintorni sono verdissimi, ma, come tutte le cittadine americane, è una sorta di non-luogo. Puoi tranquillamente fare a cambio con un’altra città di dimensioni singole. La natura e il clima, invece, sono particolari: tanto verde, tanta acqua, tanta umidità.