Quando entrava la maglia

Durava un istante. Era il big bang che gli accendeva lo spirito e accelerava il tamburo del cuore. Paragonabile solo al gol della sua squadra. Ma quella era gioia luminescente, la guarigione che arriva dal volare libero su un raggio di sole. Anche questa era luce, il bambino restava col sedere ben calcato sul cuscinetto appoggiato sui duri gradoni dei Popolari, secondo anello dello Stadio San Siro in Milano e il busto reclinato in avanti. Gli occhi proiettati e fissi su una precisa porzione di campo. Dove un paio di carabinieri, la terna arbitrale e le squadre avrebbero fatto il loro ingresso.

Questa è una storia che corre all’indietro. Copre tutta la prima metà degli anni 70 e qualche fetta di tempo successiva. Ma dire storia è improprio. La storia la avrebbero scritta i suoi eroi dal primo all’ultimo fischio dell’arbitro. No, questa riguarda più l’immergersi nella fontana di un’emozione

Perché dei suoi eroi il bambino ne parlava con amici e compagni di scuola tutta la settimana. E ne discuteva col padre, li cercava sul giornale, in televisione. Scambiava le figurine, ma quelle doppie dei calciatori con la sua maglia no, quelle no. Le incollava su un foglio a parte dell’album. Le triple, quadruple invece pure.

Il momento in cui i suoi giocatori, dopo aver salito l’ultimo gradino della scaletta, apparivano nel cielo dello stadio, non era storia perché il linguaggio umano non conteneva le parole esatte che, pur messe insieme, riuscissero a rivelare cosa quell’istante svelasse.

L’entrata era nello spicchio dell’incrocio tra i posti laterali e la curva Nord, quella degli avversari in alto e dei nostri, la Fossa dei Leoni, sotto. I giocatori apparivano in maglietta, senza che la tuta la coprisse. D’inverno le maniche erano lunghe e coprivano le braccia senza dover indossare quel cazzotto in un occhio che sono le sottomaglie. E neanche tenevano per mano dei bambini.

Qualche volta facevano una breve sosta proprio sulla prima erba del campo dove rompevano le righe. Due chiacchiere, due risate anche per stemperare l’ansia della partita. Poi la fila unica si ricomponeva nella corsa verso il centrocampo dietro all’arbitro che teneva il pallone in mano e al capitano che correva col gagliardetto in mano da scambiare col collega avversario una volta rotte le righe.

Questo era il dopo. Poco, ma sempre dopo. Il tempo si fermava e il mondo diventava l’universo intero qualche istante prima. Perché il bambino vedeva che quelli là sotto, per quanto piccoli li individuasse (ma con un po’ di abitudine la distanza secondo anello-campo si riduceva di volta in volta), erano gli eroi in carne e ossa. Proprio quelli, non la proiezione della televisione o le immagini dei giornali.

E indossavano la vera maglia. La maglia. La madre delle maglie che lui poteva acquistare in un negozio di articoli sportivi. Che non erano mai esattamente uguali a quella. Quasi. Era quella lì, quella che lo bloccava davanti allo schermo e sulle pagine dei giornali. Non importa se a colori o in bianco e nero. «Eccoli!», esclamava lui appena li vedeva spuntare. Con i colori che proteggono dai pensieri brutti, dal pericolo, dalla pioggia e gli uragani, dal freddo e dalla neve e svelano un mondo fatto di buoni sapori nell’aria. Strisce strette, girocollo, collo a V o colletto nero. Pantaloncini bianchi, calzettoni neri col risvolto dell’altro colore.

Quello era il lampo. La rivelazione dell’esistente. L’annuncio dell’immacolata vita. L’offerta dello splendore che si adagia nell’intero campo visivo. Il segno che è scoccato il tempo dei fatti che spengono le parole.

A dispetto della distanza era lui il più vicino ai suoi. Erano lì per lui e non attendavano altro che dimostrargli cosa sapevano fare. Non far passare l’avversario e dell’avversario la porta fare tiro a segno facendoci di tanto in tanto entrare il pallone. Una, due, tre volte… Be’, mica accadeva sempre così. Ma che importa, intanto vicino agli eroi c’era lui.

Quello con la fascia bianca sulla manica sinistra e il lungo numero dieci sulla schiena, be’, lui era il “più eroe”. In tanti gli dicevano che tutto il gioco nasceva da lui, dalla sua testa prima che dai piedi. Le prime volte il bambino non capiva ’sta cosa, ma si fidava degli adulti, gli adulti ne hanno visto di calcio, sanno quel che dicono. Il bambino la ripeteva a scuola. Tutto il gioco nasce da lui. Ve lo dico io, fidatevi. Io lo so bene. I piedi, la testa. Nasce da lui.

Eccoli lì, esistono. Esistono eccome. E quando si posizionavano a centrocampo per il saluto e poi in due file per la foto, quelli in piedi e quelli accovacciati, il bambino usava il dito puntato per identificarli uno a uno. Ci sono tutti. Iniziamo. Un’altra storia.


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