Contrappunti dylaniani in studi maggiori

coverA fine ottobre 2018 si tenne, all’Università Roma Tre di Roma, il convegno internazionale Bob Dylan and the Arts (Songs, Film, Painting and Sculpture in Dylan’s Universe), curato da Maria Anita Stefanelli (cattedratica all’università stessa) e Fabio Fantuzzi. Per tre giorni, nell’Aula Magna dell’ateneo, un corposo numero di accademici, artisti e musicisti offrì il proprio sapere per portare alla luce qualcosa delle mille angolazioni del premio Nobel per la Letteratura 2016 nonché uno degli artisti contemporanei più influenti e complessi.

Oggi di quell’evento, il primo di tale portata nel nostro Paese, abbiamo finalmente gli atti, pubblicati da Edizioni di Storia e Letteratura (260 pagg, 18 euro), casa editrice nata agli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso “per risollevare erudizione e filologia” come recita l’introduzione del volume firmata dalla professoressa Stefanelli.

Quattro dei relatori del convegno hanno accettato di rispondere ad alcune domande relative al proprio intervento e di partecipare a una sorta di tavola rotonda. Sono, nell’ordine che potrete trovare nel volume, Renato Giovannoli (docente di filosofia, ricercatore, semiologo), Mario Gerolamo Mossa (dottorando di ricerca in Studi italianistici all’Università di Pisa), Alessandro Carrera (professore alla University of Houston, saggista, traduttore in italiano di Bob Dylan) e Fabio Fantuzzi (docente di Lettere, Americanista all’Università Roma Tre).

 

giovannoli1RENATO GIOVANNOLI

In un passo del suo intervento individua un punto in cui Dylan riesce a fare dell’umorismo pescando dalla Bibbia senza risultare blasfemo, una citazione scherzosa di un passo del Vangelo di Giovanni colta in un verso di Someday Baby. Pensa che tale modo utilizzare come ipotesto un passo delle Sacre Scrittura riceva un’accoglienza comune in Europa e negli Usa o la società americana dei credenti ha maggiori resistenze ad apprezzare questo profilo della tavolozza espressiva dylaniana?

«Penso che in Europa nessuno si sarà accorto di quella citazione e che anche in America, dove la Bibbia è assai più conosciuta, se ne saranno accorti in pochi. Il fatto è che quella citazione scherzosa è un indizio lasciato cadere ai fini di una sorta di gioco enigmistico rivolto a chi ha orecchi per intendere. Qui Dylan si ricollega, non so quanto consapevolmente, a tradizioni medievali come quella della Coena Cypriani, i cui enigmi biblici avevano un fine ludico-didattico, o quella dei Carmina Burana, in cui non mancavano citazioni più o meno irriverenti della Bibbia.»

«La sua domanda presuppone l’idea che il puritanesimo americano dovrebbe essere meno aperto della cultura laica europea a questo uso letterario della Bibbia. Non ne sono così sicuro. È proprio il rapporto consuetudinario che glidylan cross americani hanno con la Bibbia ad averla fatta penetrare nel linguaggio comune e anche nella cultura pop. Per fare solo due esempi, lo “straniero in terra straniera” (Esodo 22, 2) del titolo di un famoso romanzo di fantascienza di Robert Heinlein non è Mosè, ma un marziano che predica il libero amore, e nel titolo di un romanzo di Mike Spillane non è Dio a dire “La vendetta è mia” (Deuteronomio 32, 35), ma l’investigatore hard boiled Mike Hammer. Detto per inciso, si tratta di due versetti che anche Dylan ha utilizzato con una certa libertà.»

 Scrive che Dylan dimostra uno stile biblico anche quando non intende esserlo. Cos’è, una benedizione, una maledizione, uno stampo da cui non può affrancarsi?

«Non è uno stampo, ma una cultura, un linguaggio e uno stile. Come dicevo, in America la stessa lingua quotidiana è ricca di reminiscenze bibliche. Ancora di più lo è la lingua della tradizione popolare poetico-musicale e naturalmente anche la lingua della grande letteratura americana. Da queste radici, grazie a un intenso rapporto personale con le Scritture, è infine sbocciato lo stile di Dylan. Considerando i risultati, direi dunque che è una benedizione.»

 Natura e ombre. Prendendo spunto da Dignity lei evidenzia la contrapposizione tra l’uomo saggio, “capace di contemplare il tutto e la sua perfezione in ogni più piccolo dettaglio della natura” e il giovane che si ostina “nella sua stoltezza” a guardare le “ombre che passano”, costituenti “una figura biblica dell’impermanenza, dell’inconsistenza, della ‘vanità’ delle realtà terrene, in particolare della vita umana”. Ipotizzando che l’autore abbia preso spunto anche da sé, individua un periodo in cui Dylan si è perduto a osservare le ombre indifferente a un filo d’erba?

jmp-ep2-bob-dylanArtboard-2-2Dylan parla sempre di sé e persino nelle sue canzoni imprecatorie come Like a Rolling Stone è a una parte di sé che si rivolge. Christopher Ricks nel suo saggio Dylan’s Vision of Sin ha utilizzato la nozione di “peccato” come chiave di lettura di tutta la produzione di Dylan. Ma il peccato Dylan lo ha sperimentato prima di tutto in se stesso. Persino nel suo periodo cristiano, quando parlava come un predicatore fondamentalista, era a se stesso che faceva la predica. Dylan sa che in ogni uomo ce ne sono due: l’uomo terrestre e l’uomo celeste, l’anima e lo spirito, in termini dylaniani il Giullare e il Ladro. Il Ladro è l’uomo celeste, perché in tutta umiltà sa che nulla è veramente suo, che ha rubato tutto dalla Tradizione (inclusa la melodia di Blowin’ in the Wind e di molte altre canzoni) o al Cielo. Il Giullare è l’uomo terrestre, che fa sfoggio di sé e che di fatto è preda della vanitas. Dylan è l’uno e l’altro, perché i due sono costretti a vivere insieme, anche se, certamente, l’uno o l’altro hanno prevalso in momenti diversi della sua vita. Ma è davvero difficile dire quando Dylan è stato più Giullare o più Ladro, e preferisco sospendere il giudizio.»

 

carrera3ALESSANDRO CARRERA

Come lei mette in rilievo, il rapporto tra Dylan e cultura afroamericana tocca sia il profilo professionale sia quello più intimamente famigliare. Dal suo intervento tuttavia si capisce che si tratta di un legame dai contorni ancora indefiniti, anche aldilà dell’empatia di Dylan. Prendendo a prestito un verso di One Too Many Mornings, pensa che al momento non ci resta che inquadrare il rapporto con un “you’re right from your side/ I’m right from mine”?

 «No, quando si tocca il problema della razza in America, non si può dire: “Tu hai il tuo punto di vista, io ho il mio”. Le discussioni sono aspre, le posizioni sono spesso inconciliabili, ma non si può pensare che il problema del razzismo in America si risolva tornando ognuno a casa sua con le sue idee. Dylan è stato, come tanti della sua generazione, un045aed2d239a9600d5fdee18a504a430 white kid travolto dal blues e dalla potenza dell’espressività nera. L’ha corteggiata, l’ha studiata, l’ha anche rubata, ma sempre con rispetto e sapendo che si stava avvicinando a quanto di più vero e originale l’America aveva da offrire: una forma d’arte autenticamente nuova, che non poteva esistere altrove.»

Masked and Anonimous non l’ha proprio convinta. Scrive che contiene il più penoso bacio della storia del cinema, quello tra Dylan e Angela Bassett, e racconta il momento in cui lei, nel 2003 al River Oaks Theatre a Houston, visse la scena: lo scoppio di risa del pubblico, sua moglie attonita nel vedere quel che lo schermo mostrava e lei che si augurava di scomparire nella sedia. D’accordo non è un attore, ma l’indossare una maschera non è da sempre una sua prerogativa?

«Ma quando Bob Dylan indossa una maschera, è sempre la maschera di Bob Dylan. E Bob Dylan è molte persone, ma alla fine è sempre lui. Quello che volevo dire è che Dylan non può diventare un altro personaggio, la maschera di Dylan è già un peso troppo grande.»

Una gran parte del canzoniere dylaniano può essere considerato come un lunghissimo racconto dell’incrocio sulle stesse strade tra bianchi, neri, ebrei e ispanici.  Che ci sia riuscito o no, lei sostiene che almeno ci ha provato e che bettylavettenon poteva fare più di così per offrirci una riflessione sulle differenze del genere umano. E chiude l’intervento con un altro bacio, questa volta vero. Improvviso e inaspettato anche per chi lo ricevette, la cantante soul e rhythm and blues Bettye LaVette, poco prima che Dylan salisse su un palco a esibirsi. Che quel bacio rubato abbia il potere di essere più illuminante di tanti versi?

«Io spero che nessuno pensi che quel bacio ricada sotto la casistica delle effusioni non richieste. Bettye LaVette, la cui interpretazione di Things Have Changed è magistrale, l’ha preso come un omaggio sincero. Perché veniva da Bob Dylan, non da qualche improbabile “Jack Fate”. Certo, a suo modo è un verso di Dylan. Dylan fa tutto “in poesia”.»

Mi permetta un fuoricampo. Ritengo che Bob Dylan & Like A Rolling Stone di Mario Gerolamo Mossa abbia aperto una falla perché quella canzone, per quanto un unicum nella storia della musica contemporanea, non è affatto un caso isolato. Nel senso che si porta per mano almeno una sorellina di nome Tangled Up In Blue. Penso a lei come al primario necessario per curarci la labirintite che ci viene ancora quando ci immergiamo nel testo. Un suo libro per svelare il dedalo di quei versi non potrebbe essere il suo prossimo regalo?

«Ma io ho già scritto molto su Tangled Up in Blue. Un capitolo della nuova versione di La voce di Bob Dylan (Feltrinelli, maggio 2021) gli è interamente dedicato, così come un capitolo di un altro mio libro, La ballata del Nobel (Sossella 81hgaLxyEdL2017). Certo, si potrebbe scrivere ancora. Si potrebbe perfino immaginare un romanzo in cui sette uomini (tante sono le strofe) si trovano per caso sul ponte di una nave che non può attraccare (magari perché a terra c’è un’epidemia, o per qualche altro motivo) e per ingannare il tempo decidono di raccontarsi a vicenda la storia d’amore più importante della loro vita. Beh, non tutti gli uomini lo farebbero, si sentirebbero troppo vulnerabili, ma per carità di finzione ammettiamo che lo facciano. Ogni storia raccontata è basata su una delle strofe della canzone. Alla fine, poniamo, scoprono che hanno amato tutti la stessa donna. E a quel punto magari cominciano a picchiarsi, ma questo già non sarebbe più un finale dylaniano.»

 

Mossa3MARIO GEROLAMO MOSSA

Il long piece of vomit per sintetizzare la creazione di Like A Rolling Stone non è diventato, salvo Tarantula, un archetipo compositivo per Dylan. Lei scrive che però è un ‘reservoir’, un “archivio mentale” per altre sue composizioni successive. A quali si riferisce?

«Gli studiosi dell’oralità hanno introdotto il concetto di “archivio mentale” per studiare, almeno da un punto di vista teorico, il rapporto tra memoria e composizione. Anche se una canzone popular non è mai una poesia orale “pura”, nel libro e nell’articolo ho ripreso questo concetto per sostenere che la genesi di un brano come Like a Rolling Stone non va intesa in modo troppo “deterministico” e anzi presuppone il principio che nessuna variante è mai accolta o cassata in modo definitivo. Se x è presente in A ma assente in B, non è detto che sarà assente anche in C, perché una soluzione annotata in vista della performance può anche non superare la prova della voce e motivare il recupero di alternative scartate in fasi precedenti.»

«Ad esempio, la lezione “make fun about”, inclusa nel dattiloscritto di Tulsa (T) e dunque probabilmente estratta dal long piece of vomit, non è trascritta nel manoscritto del Roger Smith Hotel (R), ma ricompare successivamente in tulsaentrambe le waltz version del 15 giugno 1965, per poi essere cassata di nuovo in tutte le incisioni del giorno successivo. Questi procedimenti dimostrano l’esistenza di un “archivio mentale” composto da lezioni che Dylan aveva attinto dal long piece of vomit (o da testi analoghi) e continuava a tenere presenti indipendentemente dall’evoluzione “lineare” del brano.»

«Non potendo leggere il piece, non sappiamo in che misura abbia influenzato altre canzoni, ma è quasi certo che sia stato rilevante per Tarantula e soprattutto per la prosa Alternatives to College, che presenta varianti in comune con T e notevoli affinità di contenuto con i lyrics ufficiali, tanto che Heylin ritiene, a mio avviso sbagliando, che questa prosa sia essa stessa il piece

Analizza l’importanza di Dont Look Back per lo studio della genesi di Like A Rolling Stone. Dal punto di vista filmico il titolo, insieme al successivo Eat the Document, forma una sorta di caos organizzato che mostra un giovane Dylan “naturale” nei suoi gesti e movimenti quotidiani. Ma per il solo fatto di sapere che c’era una telecamera puntata su di lui, pensa che quel Dylan fosse davvero un “Dylan naturale”? 

«Pennebaker riuscì ad adottare la tecnica del cinéma vérité in modo così radicale che, ancora oggi, molti spettatori non hanno dubbi sull’autenticità delle situazioni in cui Dylan si lasciò riprendere. Tuttavia, lo stesso Dylan dichiarò nel 1978 indexa Ron Rosenbaum che Dont Look Back era “dishonest” e “one-sided”, perché mostrava soltanto gli aspetti più nevrotico-aggressivi della sua personalità di quel periodo. Come dimostrano molte scene assenti nel montaggio finale, entrambi questi giudizi contengono una scintilla di verità. Quello stesso rancore autodistruttivo infatti porterà presto all’ideazione di Like a Rolling Stone, per cui è innegabile che Dylan, sincero o no, volesse anche provocare il suo pubblico. Il punto è che questo scopo fu raggiunto nel modo sbagliato e lui si ritrovò a impersonare una rockstar scostante e cinica che, senza ragioni apparenti, decretava la morte simbolica del folksinger impegnato e “puro”.»

Trovo interessante l’intreccio tra The Butcher Boy e Like A Rolling Stone relativo alle due protagoniste, la ragazza suicida e Miss Lonely. Dal punto di vista della pura tecnica compositiva, in che modo Dylan si appoggia alle folk song come quella da lei indicata?

«Butcher Boy, nota anche come Railroad Boy e She Died of Love, è una folk song irlandese inclusa nella Harry Smith’s Anthology e interpretata da Dylan e Baez in numerose occasioni. A prima vista, sembra una canzone lontanissima da Like a Rolling Stone e invece compare per ben due volte all’interno dei materiali preparatori (è citata al minuto 32:38 di Dont Look Back e viene annotata nell’angolo in alto a destra della seconda pagina di R).»QJ6AQVV7URBTPLX65MLUG2WYGI

«A mio avviso, i riferimenti a Butcher Boy vanno contestualizzati all’interno di un sistema di annotazioni relative a brani che narrano storie parallele o opposte a quella di Like a Rolling Stone (tra cui la Child Ballad Fause Knight Upon the Road e Pony Blues di Charlie Patton). Butcher Boy, in tal senso, racconta il suicidio di una ragazza tradita dal compagno e dunque incarna l’esempio negativo di una Miss Lonely incapace di reagire alle avversità della sorte e diventare una rolling stone

 

fantuzzi3FABIO FANTUZZI

Dylan prese lezioni dal pittore Norman Raeben per poter impadronirsi di nuovi solidi strumenti espressivi e arrivare a uno stile compositivo inedito per le sue canzoni. Ma ha continuato a dipingere. Cosa c’è invece della lezione di Raeben nei quadri di Dylan, soprattutto quelli che hanno avuto l’onore di avere delle esposizioni ufficiali?

»Si tratta di una domanda interessante, la cui risposta va necessariamente preceduta da una considerazione doverosa: Dylan studiò con Raeben per circa tre mesi ed era, lui per primo, conscio del fatto che un intervallo temporale così breve non fosse sufficiente per completare una formazione pittorica. Da qui la scelta di iniziare a esporre le opere soltanto a vent’anni di distanza, prendendosi il tempo per affinare i propri mezzi.»

«Ancor oggi, confrontando i suoi quadri con quelli di alcuni degli allievi migliori di Raeben, si nota a prima vista come le abilità tecniche di Dylan siano nettamente inferiori e, di conseguenza, i retaggi dei dettami di Raeben meno appariscenti. A un occhio attento però non sfuggono diversi elementi continuità, più o meno evidenti a seconda del tema dei diversi cicli e del medium adottato.»

«C’è, in primo luogo, un’evidente ricerca temporale che mira a una resa viva dell’istante, aspetto, quest’ultimo, tipico anche delle liriche. Soprattutto nelle prime due esposizioni e nell’ultima, che raccolgono diversi motivi tratti da viaggi, questa indagine si lega anche a un altro tratto tipico della pittura di Raeben (e, ancor prima di lui, degli artisti brazil seriesdell’Ashcan School), quello che Rebecca Zurier ha definito un approccio da mobile painter: un artista in perenne movimento, che coglie i paesaggi urbani e i dettagli della città e delle campagne alla stregua di un viandante, un esule profondamente legato a un ambiente, del quale, allo stesso tempo, non fa mai pienamente parte.»

«L’ultimo tratto, forse il più caratteristico, è il metodo del palinsesto raebeniano, che prevede una sovrapposizione di diversi strati di colore a partire da un ‘sottoquadro’ astratto, legame diretto con la percezione pura di ciò che la visione provoca nell’artista. Questo emerge in particolar modo nelle Brazil Series e, curiosamente, anche in Face Value, dove la tecnica a pastello (la più cara a Raeben) mostra più distintamente i debiti nei confronti del maestro.»

Al di là della forza meditativa che, come lei indica, la pittura gli regala, come si inseriscono i suoi disegni nel quadro generale dell’arte dylaniana? Ci offrono un nuovo spunto interpretativo o sono creazioni a se stanti che vivono di luce propria?

«Alcuni dei suoi cicli s’impongono come opere originali, ossia frutto di una poetica ben individuabile, a sua volta inestricabilmente connessa ai temi maggiori della sua produzione musicale. Si pensi, ad esempio, a soggetti come treni e rotaie. Ancor più rivelatrice in questo senso è la sua tendenza a ridipingere e reinterpretare plurime volte gli stessi soggetti, uso che richiama in maniera molto diretta la sua proverbiale abitudine di attualizzare le canzoni in ogni paintingperformance. Un altro aspetto degno di nota – quest’ultimo molto meno legato all’influsso raebeniano e dovuto a una attitudine più tipicamente sua – è la carica diegetica che troviamo nei suoi quadri, che sono opere nate prima di tutto per raccontare delle storie frutto dell’esperienza di un artista che, a sua volta, è prima di tutto uno storyteller.»

«Va poi segnalato che, sebbene non sia nella tecnica pittorica strictu sensu che vanno ricercati i tratti di maggiore interesse dei suoi dipinti, si nota una notevole evoluzione dalle prime mostre agli ultimi cicli, anche in termini di padronanza dei mezzi pittorici.»

Oggi Dylan ha cambiato approccio alla scrittura, così almeno si deduce da un paio di interventi dopo l’uscita di Rough and Rowdy Ways. Pur restando sul vago, ha fatto intravedere una maggiore lentezza e meditazione sulla composizione delle liriche. Ora, se è vero che non si può separare il Dylan pittore dal cantautore nel considerare i suoi disegni, come si è evoluta l’influenza pittorica nella scrittura lirica e musicale dei suoi ultimi album?

«Al contrario di diversi esperti, io non credo che Rough and Rowdy Ways abbia segnato un cambio netto in questo senso. La riflessione pittorica in Dylan è già presente dagli inizi; si sostanzia poi con le lezioni di Raeben negli anni Settanta, dando nuova linfa e consapevolezza anche alle sue tecniche di composizione; e, infine, si organizza in teoria della canzone e, più in generale, della creazione attraverso un lento processo, che diventa ancor più sentito a partire dagli Novanta.»

«È in quel periodo che le diverse sfaccettature della sua produzione (musica, scrittura e pittura, ma anche radio, e raebenquindi storia della musica) s’intrecciano in maniera più diretta, evidenziando punti di contatto e di dialogo che Dylan, fino ad allora molto restio a prestarsi alla divulgazione, comincia a esplicitare tanto nelle varie arti, quanto in interviste e discorsi pubblici, tra cui spicca quello del MusiCares. Le ricerche sull’American Songbook e sulla produzione di Sinatra, che influenzano questo suo ultimo lavoro, sono cospicue e ricche di spunti di interesse, ma i prodromi di questa teoria sulle dinamiche della canzone d’autore in salsa dylaniana sono in realtà da cercare già altrove.»

 

TAVOLA ROTONDA

43687652_2043129482410496_21114046342234112_nBob Dylan and the Arts è stato il primo convegno a più voci che ha proposto in Italia una visione il più possibile strutturata dell’arte polisemica di Bob Dylan. Negli Usa sono anni che si tengono incontri di tal natura e l’artista è materia di studio nelle Università. Noi abbiamo dovuto aspettare l’autunno del 2018. Istituzioni e centri culturali disattenti o Dylan, per quanti connazionali appassionati abbia, è ancora visto come uomo da palco, testate specializzate e poco altro?   

Giovannoli: «Da noi sussiste ancora una separazione troppo netta tra cultura “alta”, degna di essere studiata all’università, e cultura “bassa”, e possiamo rallegrarci del fatto che le cose stiano cambiando. Anche se mi pare che, tanto negli Stati Uniti, tanto in Italia, non siano sempre i migliori esempi della cultura pop ad assurgere agli onori della ricerca».

Carrera: «Ma non è che in America i convegni siano poi stati così tanti. Io ne ho contati tre, e il primo, al quale c’ero, è stato nel 2007. Ci sono vari corsi insegnati nei college e molte conferenze anche di professori prestigiosi, questo sì, e adesso che l’Archivio di Tulsa sta per essere aperto ci saranno sicuramente più occasioni. In Italia insegno corsi estivi su Dylan all’Università IULM. Nella mia università americana quando l’ho proposto hanno cambiato discorso. Al Dipartimento di Musica c’è chi ha scritto su di lui. A quello di Inglese, di un corso non se ne parla, anche se mi hanno dato un riconoscimento per le traduzioni. Quindi non saprei dire chi è più attento a Dylan o chi lo è meno».

Mossa: «Purtroppo, gli studiosi di Bob Dylan sono “accerchiati” da due pregiudizi opposti. Il primo riguarda lo scetticismo con cui le istituzioni accademiche (non solo italiane) tendono a giudicare tutti gli studi letterari dedicati alla canzone, e in particolare quelli incentrati sull’arte dylaniana, spesso considerata non degna di attenzione scientifica 43823283_2043130019077109_9130663896460296192_n(motivo per cui iniziative come Bob Dylan and the Arts sono oggi preziosissime). Il secondo pregiudizio è relativo alla fitta schiera di presunti “dylanologi” che, invece di incoraggiare questo tipo di studi, preferiscono eleggersi a strenui difensori della presunta “purezza” di artisti come Bob Dylan, la cui comparsa sulla scena – dal loro punto di vista – sembrerebbe finalizzata a liberare il mondo da questo terribile morbo chiamato ricerca universitaria. Credo che le mie parole lascino intendere quale sia il pregiudizio più grave e insensato».

Fantuzzi: «Mi sono interrogato molto su questo fatto, che mi ha stupito almeno quanto scoprire di essere stato il primo americanista italiano a dedicare una tesi dottorale a Dylan. Credo che l’origine della ritrosità dell’accademia nei confronti della popular music e, più in generale, della letteratura per musica tout court, sia da ricercare nel paradosso, tutto italiano, della teoria della separazione tra musica e poesia (secondo cui le due arti si sarebbero separate nettamente già a partire dalla letteratura delle origini). In parte suggerita – sebbene in maniera molto meno categorica – già da Dante, questa idea si poi è protratta nei secoli ed è stata difesa, anche in tempi relativamente recenti, da diversi studiosi, tra cui alcuni di alto livello. Alla tradizionale divisione tra la cosiddetta letteratura alta e quella popolare, in Italia se ne è così aggiunta anche una seconda tra musica e poesia; una cosa abbastanza paradossale, se si pensa che la notazione musicale, il melodramma e la lirica sono stati inventati nello Stivale. A ogni modo, le ultime ricerche, come ad esempio quella sulla carta ravennate, tendono a smentire questo filone di studi anche per quanto la letteratura tardo medievale. Chissà che non si riesca finalmente a superare questa impasse.«

01Siete voci specializzate nell’approccio a Dylan. Godete, per via della vostra formazione e cultura, di un osservatorio privilegiato per scendere in profondità e portare alla luce almeno brandelli del mistero dylaniano. Allargando lo sguardo all’estero, a vostro parere esiste già una scuola tradizionale, se non addirittura classica, nell’approccio dello studio  di questa “nuova” materia?

Giovannoli: «Il carattere polisemico dell’arte di Dylan impedisce che possa costituirsi una scuola principale di esegesi dylaniana. Ma certamente autori come Ricks e Michael Gray, per fare solo due nomi, hanno fatto scuola.»  

Carrera: «Non c’è un approccio classico a Dylan, e per fortuna, perché, insomma, è ancora vivo e produce ancora, la parabola non è conclusa. Ci sono classicisti che si occupano di lui, è vero, come ci sono anglisti e musicologi, o storici, o studiosi indipendenti che sono nati come critici rock e poi sono cresciuti come critici della cultura in senso lato, come Greil Marcus. E adesso ci sono giovani studiosi agguerriti che faranno fare un salto in avanti alla dylanologia. Ma non c’è una scuola dominante, e io spero che se deve arrivare arrivi il più tardi possibile.»

Mossa: «Esiste, come accennavo prima, la cosiddetta “dylanologia”, a suo modo un unicum tra le “ossessioni collettive” per esponenti storici della popular music novecentesca. La proverbiale ambiguità dylaniana, infatti, ha sempre originato dietrologie e speculazioni di ogni tipo, mirate spesso alla rivelazione di presunte verità assolute che Dylan avrebbe marcus“nascosto” nelle sue canzoni. Accanto a questi fanatismi, bisogna ricordare però anche una dylanologia più “moderata” che, pur non rinunciando a prese di posizione immotivate, ha contribuito a definire e legittimare socialmente la figura del singer-songwriter. L’eredità migliore di questi contributi è stata educare generazioni di esegeti dylaniani alla ricerca di fonti letterarie e musicali. Ha poi avuto notevole successo, sul modello di Greil Marcus, il giornalismo specializzato, disinteressato alle analisi formali e in ideale continuità con le ricerche culturali dei Popular Music Studies

Fantuzzi: «Non so se la parola “scuola” sia la più adatta in questo contesto perché in ambito accademico rimanda a una continuità di ricerca e di approcci critici tra studiosi di diverse generazioni. Ci sono già numerosi testi divenuti capisaldi per la dylanologia, che affrontano un’ampia rosa di tematiche con approcci differenti e specifici. Credo sia legittimo pensare che la creazione del TU Center for Bob Dylan Studies possa in futuro favorire anche la diffusione di scuole critiche in senso stretto, anche a livello accademico.»

04Quale filone non è stato ancora adeguatamente approfondito della parabola artistica di Dylan?

Giovannoli: «Dylan e l’arte culinaria? Dylan e l’abbigliamento? Sto scherzando… Se sfoglio l’imponente bibliografie dylaniana, direi che non ce n’è nessuno. Però Dylan è un autore non solo inesauribile ma anche sfuggente, e resterà sempre l’impressione che qualcosa di importante, forse l’essenziale, non sia ancora stato detto.»

Carrera: «Tanti. Lo studio della sua vocalità è ancora agli inizi, anche se le basi erano state gettate da un musicologo Wilfrid Mellersinglese, Wilfrid Mellers, parecchi anni fa.»

Mossa: S«ono troppo di parte se rispondo “filologia?” Se non altro perché abbiamo a disposizione un intero archivio pieno di materiali straordinari che non sono stati ancora studiati. Ma sono anche convinto che ogni ricerca dedicata a figure così “inesauribili” non dovrebbe mai cedere alla tentazione (in senso lato “dylanologica”) di proporsi come totalmente esaustiva. Per questo, sono dell’idea che i risultati migliori possano provenire soprattutto da progetti comparatistici e interdisciplinari.

Fantuzzi: «Un argomento di cui, a mio avviso, si è scritto molto ma detto relativamente poco è il tempo, un aspetto tra l’altro cruciale nella produzione di Dylan. A parte qualche considerazione di Mellers e di Carrera, e più di recente del sottoscritto, non c’è molto altro a questo riguardo. In effetti, ho al momento in cantiere un tomo proprio su questo. Ma immagino che ogni dylanista potrebbe dare una risposta diversa e altrettanto valida a questo quesito. È il bello della produzione di Dylan: mette tutti in disaccordo!»

RARWAlla luce di quel viaggio errante nel tempo e nello spazio di Rough and Rowdy Ways che artista è oggi Dylan?

Giovannoli: «Personalmente sono stato deluso da Rough and Rowdy Ways, che abbiamo atteso per quasi otto anni. Ho trovato i testi interessanti – un aggettivo che, come vede, non esprime entusiasmo – e in ogni caso mi ha deluso la musica, troppo spesso banale e ripetitiva. In generale mi è sembrato che mancasse in questo album quello straordinario impasto di musica e parole di cui è fatto il grande Dylan. Posso dire una cattiveria? Forse, dopo essere stato gratificato del premio Nobel, Dylan si sente un poeta laureato e ritiene di poter ormai recitare, e diciamo pure salmodiare, le sue poesie, lasciando alla musica un ruolo di accompagnamento. Aggiungo che, dal mio punto di vista, attendevo Dylan al varco per verificare lo stato “spirituale” della sua arte e anche in questa prospettiva, dopo Modern Times e Tempest, due album ricchissimi di contenuti biblici e religiosi, Rough and Rowdy Ways è risultato piuttosto povero. Ma devo ammettere che non l’ho ancora studiato con attenzione e non escludo che sottoposto a un ascolto e a un’analisi più attenti potrebbe riservare delle sorprese.»

Carrera: «Spesso si divide la creatività di un artista in tre stadi: la giovinezza, la maturità, la vecchiaia. A proposito di Beethoven, si è detto che quando arriva a comporre le ultime sonate e gli ultimi quartetti ormai non sta più pensando al mondo ma solo all’eternità. Dylan sembrava aver raggiunto il suo terzo stile con Time Out of Mind del 1997. Aveva 56 anni, ma d’altra parte Beethoven ne aveva 57 quando è morto, e vari artisti rock degli anni Sessanta si ritenevano già vecchi a trent’anni. Invece cos’è successo? Che Dylan dopo Time Out of Mind è entrato in una specie di quarto stile. Sembra che per lui il tempo si estenda come un elastico che non riesce mai a spezzarsi.»

«Ha prodotto Love and Theft, Modern Times, Together through Life, Tempest, Rough and Rowdy Ways, più il disco di Rolling Thunder Revue di Martin Scorsesecanzoni natalizie, i dischi dedicati al repertorio della canzone americana classica, l’infinita Bootleg Series accompagnata da ripescaggi d’archivio. Non è vero che sono sessant’anni che canta. Ormai sono secoli. Se in Rough and Rowdy Ways dice di avere passato il Rubicone forse è perché era lì anche lui fra i soldati di Cesare e si ricorda benissimo di quanto fosse fredda l’acqua il 10 gennaio del 49 a.C. Questa elasticità del tempo funziona in due modi. Può anche darsi che il Dylan degli ultimi venticinque anni sia un’altra incarnazione, un altro avatar di un Dylan che una volta c’è stato e che poi è passato su un altro piano cosmico. Magari bisogna prenderlo sul serio quando dice nel film Rolling Thunder Revue di Martin Scorsese che lui di quella tournée non ricorda niente, è successa così tanto tempo fa che lui non era neanche nato (non sto delirando, sto scherzando).»

Mossa: »Dylan è oggi uno dei pochissimi autori contemporanei che, al pari di figure come Picasso, Borges o Ferlinghetti, hanno avuto il privilegio di invecchiare fino al punto di sentirsi “postumi”, “sopravvissuti a se stessi”.  In termini artistici, questo comporta la nascita, come dice Alessandro, di un “quarto stile”, uno stile cioè successivo al terzo, che normalmente identifica, almeno nei grandi, lo “stile della vecchiaia”. È appunto lo stile di chi può cantare il mondo avendo un punto di vista privilegiato, quasi fuori dal tempo. Questa nuova fase, che ha iniziato a delinearsi dopo il Nobel, non è percepibile solo nelle dichiarazioni di poetica incluse in Rough and Rowdy Ways, ma anche nelle esecuzioni degli ultimi cinque anni, che rivelano intenti di astrazione e teatralizzazione del tutto insoliti anche per il Dylan post-Duemila. Nel mio libro ho analizzato, in tale prospettiva, la versione di Like a Rolling Stone suonata a Sugar Land il 14 ottobre 2018. »

dylan cross1Fantuzzi: «Quello che è sempre stato: un artista che si muove sul sottile e ripido crinale tra tradizione orale e tradizione scritta in maniera originale e autorevole, sempre alla ricerca di un’altra opera che, come diceva Derrida, in fondo non è che l’ennesima sostituzione eretica del testo sacro e, assieme, del suo commento.»


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