Questa non è un’intervista. Come recita il titolo nella sua forma che più referenziale non si può, questa è una conversazione. Tra il sottoscritto e Massimo Paladino, scrittore, critico e autore di una serie di volumi su alcuni grandi nomi della storia del rock. Un paria. Avete letto bene. Un paria nell’ambito del giornalismo musicale di questo Paese. Colto, curioso come un gatto, dotato di una penna a cui non fa difetto inchiostro da sembrare un pennello. Uno che ha tante cose da raccontare e, come cantava il Maestro di Pavana, “a culo tutto il resto”.
Una conversazione intorno allo stato di salute del giornalismo musicale in Italia? Perché? Perché tutto va ma non va, non va, non va, non va. E questa citazione risolvetevela da voi.

Max, mi delinei la tua idea perfetta di critico musicale. Ti do degli spunti: studi, etica, personalità. Il resto metticelo tu.
«La conoscenza della materia è senza dubbio fondamentale. Troppi se ne vedono di critici in giro che pensano il rock, la classica o chi per loro come campi in cui i giochi sono fatti, dove i Grandi sono Grandi e il resto degli artisti occupa posizioni più o meno subalterne. È una visione della critica francamente del cacchio. Il compito principale del critico è di rimescolare continuamente le carte in tavola: rispolverare nomi dimenticati, ridimensionarne alcuni noti, riproporre gerarchie di valore. E non deve farlo per puro vezzo snobistico, ma perché la storia, per parafrasare il sommo Bardo Will, è “rumore e furia che non significa nulla”. Lo stesso dicasi della storiografia, che se non impara a scavare nel passato come in una miniera in perenne divenire, è destinata a diventare una fabbrichetta di recensioncine, marchettine pro domo loro, cioè delle case discografiche, degli artisti, dei distributori, dei promotori, degli amici degli amici. Critico inoltre è colui che sa essere al contempo critico e creativo. Se fosse cinema si tratterebbe di imparare a stare al contempo aldilà e aldiqua della macchina da presa; solo così si può essere critici e artisti allo stesso momento. Una critica d’arte che non sia essa stessa arte o che non tenda o aspiri a essere tale, non vedo che cosa abbia a che fare con la critica. C’è troppa di gente in giro che pensa che la critica sia una attività velleitaria e che un critico buono sia un buon facitore di recensioncine. Niente. Nisba. Zero. Siete fuori strada amici critici, o supposti e autosupposti tali. Non è la recensione che fa il critico e di sicuro non è il vezzo di parlare di se stessi attraverso la recensione. Il Cul(t)o dell’Artista Critico non passa dall’ano delle 1.400 battute spazi inclusi delle recensioni del magazinaccio musical-modiaolo-nostalgico. Dove passi, non si sa. Quando passa, si vedrà.»
E com’è invece oggi?
«È pieno di gente che adora santini, che non mette in discussione certezze, che non cerca l’ignoto per portarlo a galla. Il rock è pieno di nomi da idolatrare, ma è anche pieno di critici idioti pronti al Cul(t)o. E il lettore di musica, per troppo tempo, ha scambiato la critica musicale per i consigli per gli acquisti. A quelli ci pensa Maurizio Costanzo. La critica musicale di oggi è piena di Maurizi Costanzi, con l’aggravante che più “parlano” chiaro e peggio si fanno intendere, facendo così un baffo versino al summenzionato Divin Senzacollo.»
Parli del nostro Paese o la tua è una considerazione generale?
«L’uno e l’altro. Ogni mondo è paese nell’immonda fiera delle banalità che è la globalizzazione dei gusti e dei disgusti. Prima c’era il conformismo sociale, di casta, adesso c’è il conformismo diffuso e parcellizzato del mondo web unificato. E a ’ste menate non si sottrae nemmeno il critico musicale, anzi, ci sguazza perché è ben felice di trovare altri conformisti colti come lui che si spacciano per critici e che proprio come lui non scavano nella storia della musica. E non lo fanno per un equivoco: hanno scambiato la Storia dei vari tomi di Storia del Rock o Pop o quel che ti pare, scritti da Tizio, Caio o Sempronio, per le Tavole di Mosè. Ebbene, caro critico, quando imparerai che sei tu il Mosè di te stesso e che ogni Tavola ereditata va tradita per essere riconfermata, allora sarà fatta. Allora, mica adesso.»

Qual è stato il migliore?
«Oscar Wilde.»
Wilde però non risparmiò la categoria affermando che il critico è colui che trova piacere sempre e solo nel letto altrui. Comunque va bene, anche Harold Bloom lo celebrò come critico. Ora, è mai esistito nell’ambito della musica rock un Harold Bloom? Non so, Greil Marcus, Dave Marsh, Robert Christgau, Lester Bangs… o siamo lontani?

«Riprendo la tua frase: Wilde però non risparmiò la categoria affermando che il critico è colui che trova piacere sempre e solo nel letto altrui. Bingo. Qui Wilde fa un doppio salto mortale e un triplo salto carpiato con doppio avvitamento tutto in una volta. Una frase come questa sta a indicare che il critico è colui che riesce a essere al contempo artista e critico, anche critico di se stesso e del proprio ruolo. Avercene di Wilde! Poi, tornando alla
domanda sull’Harold Bloom della musica: sì, siamo ben lontano da averne uno nella critica rock. Lester Bangs è forse quello che più gli si avvicina, se non altro perché riesce con naturalezza a essere scrittore tout court, critico musicale, gonzo giornalista e cazzone all’occorrenza. Apprezzo molto chi riesce, e Lester lo sapeva fare, alla grande, a surfare con naturalezza la cresta di quell’onda che funge da sottile linea rossa fra stili e registri scrittori totalmente differenti, come quelli testé citati.»
E il peggiore?
«Di critici musicali pessimi ce ne sono tanti e tanti sono scambiati anche per idoli. Alcuni nomi? Paolo Carù, alcuni fuffologi del Buscadero e del Mucchio, un sacco di parolai espansi di Blow Up, quasi tutti i webzinari. La lista è lunga davvero. Va detto anche che ci sono critici che fanno i critici. Pochi, ma ci sono.»
A proposito di Carù, verso cui non ho nulla di personale non avendo mai avuto l’occasione di incontrarlo. Dirige quella che, nel bene o nel male, è la rivista rock oggi più storica. Direttore, non stagista alle prime armi. Eppure leggi i suoi pezzi e ti accorgi di una povertà lessicale imbarazzante. Cinque volte nella medesima recensione l’attributo “bello”, contrapposto a una serie di “brutto”. Che racconto di un disco si può fare se non si è sorretti da un italiano un po’ più che basico?
«Bello e brutto dovrebbero essere gli ultimi aggettivi utilizzati in una recensione, per il semplice fatto che bellezza e bruttezza sono parametri estetici che hanno le loro coordinate nel gusto personale e nell’evoluzione dello stile/genere del disco recensito. Ragione per cui se tu mi dici “il pezzo è bello”, io posso solo capire che è una canzone che asseconda i tuoi gusti musicali, di cui però, a me lettore importa niente. Quel che invece mi importa, da lettore, è capire se quel pezzo è una ballata e, nel caso lo sia, se è nello stile di Tizio, Caio o Sempronio. Poi mi devi dire se può essere una variante significativa del canone di ballad menzionato o se ne è semplicemente una replica fotocopia. Insomma, questo deve fare un critico. Invece il critico tende a costruirsi un pubblico che sa qual è il suo gusto, e lo imbottisce di “è bello, è brutto”. Risultato: un sacco di ascoltatori, magari nient’affatto medi in quanto a numero di dischi posseduti/ascoltati, ma mediocri dal lato critico, che poi è la ragione per cui uno compra una rivista di musica. Se volesse solo avere dei consigli per gli acquisti, basterebbe mettere un voto vicino a ogni disco e sarebbe fatta. Ma così non è, o meglio, non dovrebbe essere.»
Ma ha senso scrivere che all’articolista il disco X dell’artista Y non è piaciuto? Il ridurre il giudizio al puro piacere personale, bello o brutto, appunto. Mi domando: che titolo hai per utilizzare categorie di giudizio così universali come la bellezza o la bruttezza? Gli elementi di valutazione dovrebbero essere ben altri, non fosse altro per rispetto della fatica dell’artista e del denaro e del tempo dei lettori non trovi?
«Infatti non è compito del recensore dire se il disco secondo il suo divin gusto manca di questo o quello. È un difetto tipico di tanti critici, nostrani in primis. Tipo Claudio Sorge, per altri versi ottimo, che nei dischi ci schiaffava frasi come “sarebbe stato meglio con più chitarre”, o altri suoi colleghi. Amico critico, chi se ne fotte di come avresti prodotto tu il disco che recensisci. La vanità ti fa delirare, la penna in mano t’ha fatto smaniare. Un buon critico sa essere presente nel testo pur dando l’impressione di essere invisibile. Quando va troppo di Io qua e Io là, o è parodia, e gliela si perdona, o è demenza senile anticipata, e allora c’è il ricovero coatto.»
Non hai mai avuto il dubbio che alle grandi firme che abbiamo letto per anni e anni mancassero e manchino delle parole giuste perché insufficiente era/è la loro preparazione per svolgere questo ruolo?
«La questione della preparazione: sì, esiste. Mancano, ad esempio, libri di storia del rock che annodino fili, genealogie, che tentino di mappare geografie e scene che non siano le solite, che azzardino discorsi complessi su evoluzioni, involuzioni, mutazioni di generi e stili eccetera. Ma soprattutto manca la voglia di scoprire. Capiamoci: i critici ascoltano tanta musica, spesso anche troppa. Però, e accade di frequente, sono mentalmente pigri. Se hanno un gruppo o un disco fra le mani senza distribuzione ufficiale o apparentemente senza storia lo tralasciano, se gli capitano poi dischi che mescolano troppo le carte in tavola si straniscono. Il critico è l’ascoltatore onnivoro per eccellenza, ma deve anche possedere un bel mazzo di carte da gioco, a livello di preparazione culturale, per poter comprendere e decifrare a pieno quanto gli passa davanti agli occhi. Bisogna esser ciechi come gli antichi cantori greci, dei ciechi vedenti insomma; se non hai qualcosa in te che ti dice “non accontentarti di farti piacere qualcosa solo perché assomiglia a qualcosa che ti è già piaciuto”, allora navighi a vista, caro critico.»
Hai ragione, la pecca che sottolinei non fa una piega. Ma io intendo anche qualcosa di diverso. Ti faccio un esempio attuale. È uscito Letter To You, il nuovo disco di Bruce Springsteen. Ho letto in più recensioni un rimando di alcune track alle sonorità di Darkness On The Edge Of Town senza altre aggiunte. Il riferimento storico è corretto. Ma questo lo può capire chi conosce quel disco e scrivendo così tu critico fai fare al lettore lo sforzo di inquadrare musicalmente il nuovo disco senza essere stato in grado di usare le parole appropriate per descriverlo. E chi quel disco non lo conosce che fa? Ne sa quanto prima, cioè zero. E quindi il tuo lavoro non lo hai svolto bene. Se sei un giornalista vero devi far capire in una riga al lettore ignaro che tipo di suono c’è nel disco di riferimento. Il fatto che tu non lo faccia mi fa sorgere il pesante dubbio che tu non disponga delle parole per farlo, forse perché non sai parlare di musica ma al massimo sulla musica. Non so se rendo l’idea.
«Annodare fili, genealogie che tentino di mappare geografie e scene che non siano le solite, che azzardino discorsi complessi su evoluzioni, involuzioni, mutazioni di generi e stili non è una cosa semplice. È un’arte. E come tale ha bisogno di essere appresa, affinata, limando i ferri del mestiere, e ancor prima acquisendoli. Il critico ha l’obbligo di saper comunicare. Capiamoci: comunicare non il vaniloquio giornalistoide tipico dei magazine musicali più gettonati. Deve veicolare contenuti tramite la parola. Se quei contenuti latitano, o se la conoscenza di base della storia della musica, delle sue dinamiche interne e delle sue linee di intersezione con materie come la sociologia, la psicologia, l’economia e quant’altro, viene a mancare, allora la recensione, la monografia, l’approfondimento dal taglio x e y, diventano puri pezzi di costume o poco altro. Scrivere di musica significa studiare, e anche un sacco, e non solo ed esclusivamente musica. Già li vedi in faccia i colleghi critici che dicono: “Ma questo chi si crede di essere, che ego grande che ha, ma che si pensa che la musica rock o pop siano una cosa seria?”. Ebbene, la risposta a costoro è una e soltanto una: non bisogna parlare seriosamente di questo e di quello, ma bisogna parlarne seriamente, utilizzando, là dove possibile, quel vecchio motto dei caffettisti milanesi di fine ’700: “Con ogni stile che non annoi”. Dunque, la critica è sostanza, ma è anche forma di quella sostanza, forma letteraria, ancor prima che giornal-gazzettistica. Fa della forma una lama affilata e affilerà pure il contenuto che veicola, a patto che quel contenuto ci sia, ché sennò la critica musicale diventa un mero esercizio di ghostbusting atto a coglionar il lettore neofita e speranzoso di apprendere dalle parole del critico di turno cose che, ahilui, manco il critico sa bene. Perché, ricordate cari lettori e cari critici, parlare autorevolmente di una cosa non è sinonimo di padroneggiarne i segreti. La gente dice “ma sta scritto qui”, intendendo che se l’ha scritto tizio, perdi più su una testata autorevole, allora per forza di cose è vero. Non è così. Spesso non è così. Diffidate gente, diffidate. Senza però diventare degli stronzi cinici.»
Eppure, non so se è capitato anche a te, ma quando conversi con critici di classica ti trovi davanti a un mondo diverso. Io penso che non ci sia alcuna differenza di valore in rerum natura tra musica classica, folk,

jazz, blues, elettronica e via col catalogo. Eppure Gaetano Santangelo ti parla di un contrappunto non perfetto in un’incisione, quando ascolti Ricciarda Belgiojoso, Gaia Varon, Luca Ciammarughi o Gabriele Formenti ti accorgi che forse bisognerebbe scomodare la musicologia più che la critica. Eppure si tratta anche per costoro di diffusione di massa del loro sapere. Di cosa soffre il rock perché vada oltre le solite firme che pensano di abitare il Parnaso solo perché si ricordano a memoria la discografia di Frank Zappa o snocciolano formazioni di band più o meno conosciute?
«C’è anche il rovescio della medaglia della malattia che descrivi ossia quei critici che riducono qualsiasi spunto musicologico a mera boutade e lo evirano a prescindere dalla recensione o quel che è. L’antidoto alla malattia che citi, quel fare i critici guardandosi la punta delle scarpe, e inorgogliendosi di come splendono, è semplice: bisogna fare critica. Bisogna recensire i dischi con una voce (critica) che appaia invisibile e invece non lo sia. È un’arte difficile, che richiede un ego della misura giusta, altrimenti si rischia di cacar fuori notizie dalla penna e di riversarle sul foglio e di

spacciarle per recensione. E comunque, rimango dell’idea che il critico debba ascoltare musica a 360° ed essere informato adeguatamente anche sui generi che gli sono meno congeniali. Quei critici “monogenere” sono anche e soprattutto “monouso” e come tutti i fazzoletti monouso ti ci puoi solo soffiare il naso o pulire le terga.»
La conoscenza della tecnica musicale, la capacità di sapere suonare uno strumento, saper leggere una partitura dovrebbero essere una condicio sine qua non, un aiuto a fare questo mestiere con competenza o un elemento del tutto inutile?
«In alcuni casi è indispensabile, in altri no. Se vuoi scrivere di Brahms, che era uno che innovava “fra le note”, devi conoscere le note. Se vuoi scrivere di Captain Beefheart, che era un moderno primitivo, un istintivo, puoi adottare quella che in estetica si chiama Critica della pura visibilità, analizzi il suo stile come cantante, come musicista, vedi com’è variato nel tempo e lo metti in rapporto a esperienze analoghe e non, a lui precedenti e coeve, poi ne trai le debite conclusioni. Insomma, la critica si fa come si fa la guerra secondo Napoleone, senza piano o tattiche prestabilite, con pragmatismo, adattandosi ai casi.»
Quanto ha inciso Internet sull’educazione musicale di chi scrive di rock e pop?
«Ha inciso. Ha inciso anche il fatto che ne 1981 uscivano 8.000 dischi all’anno e oggi ne escono 8.000 all’ora. Oggi è più facile registrare un disco in modo professionale e la media della qualità dei dischi ascoltati è buona. Ma i picchi sono sempre meno. Perché ci vuole del tempo per maturare uno stile, per vagliarlo, sondarlo, trombarlo, annientarlo e farlo risorgere in maniera giusta. Oggi i tempi sono quelli della rete, tutto è più facile e veloce e non sempre questo è un bene per chi fa musica, specie quella elettronica, che può essere “prodotta” in quantità industriali in lassi di tempo brevissimi. Torniamo alla questione critica/internet: Youtube aiuta l’aspirante critico odierno a conoscere alla velocità della luce nomi e dischi di artisti che 30-40 anni fa o avevi il disco o rimanevano per l’appunto dei nomi. In più, la pratica del downloading/streaming ti permette di agguantare in un nano secondo intere discografie, dischi rari che decenni fa ci sputavi l’anima per recuperarli in vinile. Non demonizzo Internet. È uno strumento che ha un suo perché nelle mani di un critico. Ma se rimane solo un mezzo per sbocconcellare/affastellare nomi più o meno noti della storia della musica allora a risentirne è l’approfondimento, che non potrà mai venire surrogato dalla quantità di informazioni ingurgitate dall’ascoltatore, dal critico o da chi per essi.»
Ma proprio oggi, sommersi più che immersi nell’era digitale, dove ogni composizione praticamente è a portata di mano, serve ancora un critico musicale?
«Serve nella misura in cui fa il critico musicale. Ribadisco: il critico musicale non è un tizio che ti dice “compra questo disco perché è bello, non comprare quest’altro perché è brutto”. Il critico musicale dovrebbe avere una conoscenza a vasto raggio di epoche, gruppi e stili, e in questa griglia mentale dovrebbe ragionare per l’appunto come un critico, individuando parentele, somiglianze, ascendenze di questo con quell’artista, passato o presente, di questo con quello stile, di ieri e di oggi. Non lo fa? Mal gliene incolga. Sarà destinato a rimanere un dilettante che parla a dei dilettanti di musica. Niente di male, in questo. Ma la critica è un’altra cosa. Basterebbe un po’ più di coraggio da parte dei giornalisti e dei direttori di rivista. Coraggio che oggi manca, perché tutti si fiondano su un passato rassicurante e che vende piuttosto che cercare i classici di oggi qui e ora. Questo è quanto.»