Giusto è in macchina. Una Citröen D-Special, rossa con il tetto bianco. La guida da cinquant’anni. E la sta guidando anche in questo momento. Piove. Piove tanto. Avesse tirato giù il finestrino, appena uscito dal box di casa, avrebbe sentito i grilli e le rane.
Giusto è in macchina perché ha deciso che deve arrivare al più presto da Gianfranco. Gianfranco è suo fratello, di un anno più vecchio, e ha appena avuto un infarto. Lo ha superato, è ritornato a casa, ma Giusto è ben conscio che con il cuore non si scherza. Soprattutto quando il giorno che conta si avvicina.
Non si vedono da almeno dieci anni e i centocinquanta chilometri che li separano non sono stati accorciati né da una telefonata né da un messaggio inviato al cellulare. Solo informazioni diagonali o arrivate di rimbalzo. Ognuno sapeva che l’altro era in vita. Non era necessario sapere altro.
Giusto è stato informato ieri. È stato quasi una giornata intera sulla poltrona a pensarci. Un infarto non è una malattia. Un infarto è un tentativo di assassinio. Tante ore seduto prima per metabolizzare la notizia e poi per sciogliere il nodo. Come raggiungerlo? Il tempo fuori è brutto e minaccia di abbruttirsi ancora di più secondo le previsioni. Sempre più di raro Giusto si mette alla guida, ma prendere il treno è un groviglio ancora peggiore. Un aiuto non lo conosce. Non si ricorda l’ultima volta che si è fatto dare una mano.
Giusto ha preso le chiavi, il libretto, il giaccone e si è tuffato nella Citröen che negli anni d’oro veniva chiamata col nomignolo di “Squalo”.
Giusto è nella pancia dello Squalo. È appena uscito da un benzinaio dove ha fatto il pieno e si è accorto dell’orario. Due e trenta della mattina. Ne sta mandando parecchia giù il Signore. Non sa cosa dirà a suo fratello, non sa proprio cosa gli dirà. Racconterà dei suoi dieci anni passati? Cosa fare di quelli che rimangono? Cosa fare nell’immediato? E poi, potrà abbracciarlo? Si può abbracciare un infartuato?
Giusto non vede perché anticipare ora una risposta che verrà da sola. Per ora si preoccupa solo di guidare. Ottanta all’ora sulla corsia di destra. Quando si sente più sicuro arriva ai novanta, ma ha deciso di non toccare mai i cento. Di tanto in tanto qualcuno dietro gli suona per poi perdersi più avanti di lui. Non gli piacciono i clacson dei tir e non capisce perché i tir debbano suonargli visto che, anche senza traffico, dovrebbero tenere una velocità limitata. E, in ogni caso, la sua prudenza potrà mandare pure su tutte le furie i draghi dell’autostrada, ma lui non pigia di un centimetro in più il pedale dell’acceleratore.
Ha messo in conto che in un paio di ore dovrebbe arrivare a casa di Gianfranco. Dove troverà Giordana, la sorella più anziana di entrambi. Vivono insieme. Non si ricorda perché di punto in bianco le comunicazioni tra loro due si sono interrotte. Se va avanti da così tanto tempo si vede che non era niente di importante, i disaccordi profondi, se ci sono, riemergono a galla da soli per farsi risolvere il prima possibile. Ma si ricorda come la rottura non si sia presentata lieve. La scaccia. Ora deve guidare.
Giusto si ricorda bene anche un’altra cosa: Giordana non ha interferito una volta che fosse una sul loro rapporto. Non un consiglio per riappacificarsi, men che meno un riavvicinamento come cortesia a sé. Lui e la sorella non hanno mai smesso di sentirsi e, almeno all’inizio, anche di vedersi quando Giordana ancora viveva la sua vedovanza da sola. Di poche parole Giordana e di gesti essenziali. Vedetevela tra voi, io sarò sempre vostra sorella. Quella di famiglia che Giusto sente più vicina a sé. Una volta che si diventa adulti le cose si fanno o non si fanno, non si incitano a fare. A lui non ha mai chiesto passi indietro, probabile non lo abbia fatto neanche col fratello. Le spiegazioni, quelle, le ha semplicemente capite da sola. Capito che non c’era niente da capire.
Lui lo intende ora. Intende ora ciò che lo ha fatto spingere a uscire, la scintilla che ha acceso il suo motore. La voce di Giordana. È stata la sua voce a metterlo sulla macchina. Gianfranco, le ha detto, se l’è vista brutta brutta, ma sta superando il momento. Tutto in ordine, allora? No, il timbro aveva un colore sinistro. Il timbro, non le parole usate al telefono. Che gli si è incollato nel cervello così: Giusto/ un infarto/ hai capito? Un infarto/ potrà essercene un secondo magari a stretto giro di posta/ è tuo fratello/ un fratello non si lascia solo/ il cuore non concede tempo/ riflettici e poi fai quello che vuoi.
No, è vero. Il sangue non si lascia solo. Se esce lo si raccoglie e lo si rimette dentro perché continui a pompare vita. E, con davanti le gocce di pioggia che esplodono sul parabrezza e la notte ingiallita dai pochi lampioni accesi e imbiancata dalle luci di chi come lui è sulla strada, Giusto sente che gli occhi gli si stanno inumidendo. Per sopravvivenza non si rifugia nel passato. Troppo semplice, anzi, fin troppo comodo. Rivedersi giovani, uniti, belli, insieme magari a mamma e papà in vacanza a Salsomaggiore. Troppo facile, si dice. Tuo fratello devi sentirlo adesso, per come lo immagini mentre se Dio vuole è diretto verso gli ottanta.
Giusto elimina il passato. Fa ginnastica con gli occhi tenendoli aperti il più possibile come chi non può o non vuole al momento farsi aiutare da un fazzoletto, poi chiudendoli per un microsecondo e poi di nuovo spalancandoli. Canta. Sì, canta. Canta un’aria di una qualche opera di cui non ricorda le parole poi gli viene in mente E lucevan le stelle e allora canta quella. Poi gli Abba e Drupi. Poi gli viene in mente Tu di Umberto Tozzi allora vai con Tu dabadàn dabadàn dabadàn bam bam bam bam. Raccoglie i primi che si presentano. Canta per sentire una scarica e la scarica viene. Alle braccia, alle tempie, ai polpacci, alle ginocchia. Si sente più sicuro al volante. Un ragazzino. Questa è la sua voce ora.
La radio gli farebbe comodo, ma non l’ha mai voluta installare in macchina. Non che ora gli manchi un suono, ma è rimasto della scuola anteguerra, se guidi, guidi. E poi non gli piace far entrare il mondo esterno dentro. Se c’è qualcuno con te parli con quel qualcuno, non hai bisogno di uno che nove volte su dieci si rivela un imbecille. E se proprio ti manca la musica allora canti. Tu dabadàn…
E quando finisci il repertorio, con un emisfero del cervello resti attento alla guida e con l’altro pensi. O meglio, ti fai cogliere da idee e immagini che ti si arrampicano sopra. Quante volte sono stato a Roma? Chi vinse la classifica dei cannonieri nel campionato di calcio di serie A 1972/73? Ho mai mangiato una pizza a Chioggia? Robe così, per permettere ai chilometri di sgusciare sotto gli pneumatici come un’operazione aritmetica facile facile.
Giusto questa volta si dedica a Gianfranco. Un po’ per anticipare i tempi, un po’ perché così ha l’impressione che la loro storia insieme sia già ritornata a scriversi. E se capiterà gli parlerà pure, anche se ora Gianfranco sarà nel letto a casa sua agghindato in un sonno protettore. Di colpo il mondo gli si fa piccolissimo, il cuore gli si aggroviglia davanti all’immagine immaginata di suo fratello ora.
Lo pensa con furore, la sua risata, le sue tante parole, la copia del padre. Si emoziona guardando il cielo che non cambia aspetto perché è come se davanti avesse lo stesso fratello di sempre e, tra un respiro e l’altro che gli s’addobba sempre più di un corpo ispessito, gli viene da lanciare un grido. Acuto, di breve gittata. Ma grido vero. Resisti, non è ancora il tempo di voltarti e allontanarti perché le nostre ore sono finite.
Non so cosa sia successo, Franco, non me lo ricordo. So solo che ci siamo detti cose imperdonabili e che fare a gara a chi è più testardo non è mai stato un bello sport. Probabilmente dal niente è nato. E il niente succede tante e tante di quelle volte da rovinare tutto. Ma fuori dal niente c’è la vita. Ci sei tu e ci sono anch’io. C’è Giordana. È stato solo un avvertimento, uno spavento che ha detto che dobbiamo rimettere le cose a posto. Ecco, l’infarto è stato un arbitro che ci ha ammoniti tutti e due. Scaccia la paura, fratello. Si ricomincia.
Scaccia la paura, ha pensato Giusto. E ora che si permetteva perfino di piangere gli viene invece da ridere. Scaccia la paura te Giusto, mica lui. Più facile ridere. Lo fa. Scaccia te la paura sin da ora che sei al volante e lui non ti vede, si dice come a consolarsi. Sa bene che non trasformerà mai quei pensieri in parole davanti al fratello. Ha tutto il tempo per asciugarsi gli occhi e tenere la voce a cuccia.
Sa cosa deve fare, Giusto. Intanto smettere di battere contro il perché e il percome. È successo e basta. Delle volte capita di farsi male. Poi, se si è fortunati, si volta pagina. E allora la fortuna va ringraziata. Questo deve fare poi. Ringraziare. Non che sia abituato ad avere un colloquio diretto col Gran Giudice, ma questa volta gli va di ringraziarlo di avergli concesso una possibilità. Basta un grazie. Lo dice. Poi deve sbiancare il suo tempo. Questo lo aveva deciso già, ma ora se lo dice, tanto per non dover più tornare sull’argomento.
Starò con te, Franco. Non sono mica venuto per sapere solo come stai, per questo c’è il telefono. Sono venuto per restare il tempo che ci vuole. Per dare una mano a Giordana, fare la spesa, fare due passi in tua compagnia, cenare tutti e tre assieme, guardare la televisione. Ci andavi ancora a comprare il giornale in edicola come prima cosa della giornata? Identico a papà, il morbo dei fogli da toccare per la convinzione che col quotidiano in mano ti sembra di far parte del mondo e di averne cittadinanza. Andremo all’edicola insieme, ne compreremo tre alla volta, prenderemo le riviste e passeggeremo insieme. Tutti e tre. E vedrai che ci sembrerà di avere mamma e papà a fianco.
Guida come rinfrancato, Giusto. Per un momento è percorso dall’idea di fermarsi a una stazione di servizio per un caffè e una telefonata alla sorella. Si tiene la prima e scarta la seconda dopo aver guardato l’orologio. Devia alla prima uscita, parcheggia davanti all’entrata, ombrello, passo veloce ed entra. Caffè lungo accompagnato da un dolcetto alla mela. Anticipa la colazione per rafforzare il vigore da cui improvvisamente si sente preda. Una bottiglietta d’acqua e un sacchetto di caramelle alle erbe alla bisogna. Tra poco arriverà, ma l’ultimo tratto lo vuole fare rilassato. La pioggia non si è presa un attimo di requie, ma da dentro al locale sembra una presenza più lontana. È così su di giri Giusto che quasi gli verrebbe da scambiare qualche parola con la barista o i due clienti che scorge a consumare anche loro un caffè al bancone.
Il tempo di tirar su una treccia di salamini e una latta contenente una qualche torta abbellita nel disegno della confezione, paga velocemente e ritorna in macchina. Per un momento s’interroga se si ricorda la strada per arrivare alla casa del fratello. Fino al paese tutto liscio, l’uscita è quella, poi vediamo: il lunghissimo viale tra due campi di angurie, la prima a sinistra dopo il campo sportivo, l’altra strada lunga fino alla rotonda, supero i portici e poi a destra sulla via acciottolata fino al 14, la casetta monofamiliare. Se il cancello è aperto come me lo ricordo metto la macchina nel cortile se no troverò dove. Qualche secondo dopo il colpo di chiave si ritrova di nuovo in autostrada.
Giusto guida leggero. In termini di emotività ha già dato quel che doveva dare. Sente che le cose si metteranno a posto. Un atto di fede. Forse per la prima volta nella sua vita ha un’elementare percezione di cosa sia la fede. Lo deve dire a sua sorella perché sa che le strapperà un sorriso. Sarà solo una sua impressione, ma scorge un cielo abitato da mille stelle. Giusto pensa di sapere cosa valga nella vita, la vecchiaia non gli è simpatica per niente, ma gli ha insegnato per lo meno a separare il grano dalla crusca. Lo ha sempre saputo, ma ora lo sa ancora meglio: anche se non hai avuto un fratello per dieci anni, nessuno ti conosce bene come ti conosce lui.
Vede l’uscita per il paese. La prende. Si ferma al casello a pagare con moneta sonante, procede per la strada che si è ripassato. Procede lento, un quarto d’ora scarso, tutto come previsto. La memoria fotografica funziona. Quando vede il numero 14 si ferma. Il cancello è aperto. Entra sulla ghiaia. Spegne il motore. Solo il rumore della pioggia. Non è ancora mattina. Decide di chiamare Giordana. No, meglio un messaggio.
Sono fuori
Se non risponde in cinque minuti la chiamerà o suonerà direttamente il campanello. Giusto non ha bisogno di scegliere perché la risposta si materializza in meno di un minuto.
Arrivo
Giordana apre la porta qualche istante più tardi. È in vestaglia e si trova davanti Giusto che tiene qualcosa in mano. Non fa niente per nascondere la meraviglia. Lo abbraccia con trasporto e gli dà due forti baci sulla stessa guancia.
«Ho avuto paura di svegliarti» le dice.
«Dormo poco» risponde lei.
Entrano. Giusto le consegna i salami e il dolce. Giordana prende uno straccio a portata di mano e glielo passa sulla testa. «Non c’è bisogno» le dice il fratello. Che chiede di Gianfranco. Neanche il tempo di rispondere che la voce del fratello arriva fino all’ingresso.
«Giordana, c’è qualcuno?»
Giordana gli fa segno di procedere e Giusto si avvia verso la camera. Apre la porta. Il fratello ha acceso l’abat-jour e si è tirato su con la schiena sul cuscino. Si guardano a lungo. Nessuno dei due vuole leggere qualcosa nello sguardo dell’altro. Entra anche la sorella. Si mette accanto a Giusto e gli accarezza un braccio.
È Gianfranco a rompere il silenzio.
«Giusto.»
«Franco.»
«Come sei arrivato?»
«In macchina.»
«Che macchina hai?»
«La solita.»
«La Citröen?»
«Sì.»
«Ma sempre quella rossa o un’altra?»
«Quella rossa.»
«Ma esiste ancora?»
«Funziona.»