Lista numero 3. I film a cui sono più affezionato. Quelli che più mi hanno commosso o battuto in testa. Anche in questo caso a completare una formazione di calcio senza farne classifica di merito. Anche se in questo caso esprimo il mio gradimento assoluto. Amo (forse qualcosa di più) Woody Allen e, nonostante i suoi numerosi capolavori, la mia scelta va sul film che troverete sotto. Film apprezzato dalla critica (e questo conta relativamente), ma non in genere di quelli che si indicano nel citare la grandezza del cineasta di Brooklyn. A pari merito, quel gioiello di Pupi Avati su cui vi imbatterete. Soprattutto per la scena finale, pura filosofia e spiritualità in pellicola.
Insomma, questa è la mia squadra. Ne amo moltissimi altri, sia bene inteso. Ma i primi soggiornanti (non paganti e a pensione completa e illimitata nel tempo) del mio hotel sono questi. Sempre che prima o poi non ne sbuchi fuori uno nuovo.
BASTA CHE FUNZIONI (Woody Allen)
Che importa che tu abbia letto milioni di libri o sappia a stento parlare. Che importa che tu creda in una vita ultraterrena o sia convinto che fuori dal tempo concesso dalla biologia del genere umano ci sia il nulla. Non fa differenza che ti piacciano gli uomini o le donne né che tu ammetta la sola forza della ragione o sia un fautore delle carte, dei fondi di caffè o dei segni da leggere sul palmo delle mani. Basta che funzioni.
Se ti dà equilibrio, serenità, se ti fa vivere bene e in armonia con lo svolgersi delle tue giornate, quello è ciò che fa per te. Afferralo, fallo tuo, appiccicatelo addosso e vivi al meglio che puoi la tua vita, strizzandola come arancia matura da cui bere e mangiare (buccia compresa) in conciliazione con te stesso e il circostante nei giorni dei giorni dei giorni dei giorni. Enorme Woody Allen. Impareggiabile nel sarcasmo, nella comicità di situazioni e battute e nella profondità filosofica dei dialoghi. E, grandezza nella grandezza, nell’aver scritto l’inarrivabile personaggio di Boris Yellnikov (Larry David), il più soavemente cattivo della galassia alleniana.
PARIS, TEXAS (Wim Wenders)
La camminata di Travis (Harry Dean Stanton) proprio a principio del film basterebbe a chiudere la storia. La vita corrode. Al di là della capacità che abbiamo di comprenderla. Ci allontana dagli affetti e, per quanto il nostro cuore e la nostra testa siano pieni di amore, ci lancia come sasso lasciato da una fionda tesa, in un altrove che non abbiamo né voluto, né cercato. Ma a cui ci siamo inconsapevolmente abbandonati.
C’è tanto sangue secco al sole in questa meraviglia di Wim Wenders. Anche se in senso esclusivamente metaforico. Un mucchio d’amore inespresso nei non gesti e nelle non parole di un quattro quarti di loser. A volte è come se questo film dicesse, goditi la fortuna di non essere eterodiretto da forze che non ti appartengono, anche se escono dall’intimo di te. Una promessa rotta, una donna spezzata, una figlio che non smetterà di guardarti con occhi così: Travis, c’è sempre tempo e spazio per tornare a casa.
TUTTO SU MIA MADRE (Pedro Almodovar)
Per chi scrive il più alto esempio di amor filiale in pellicola. Quello, allora appena reciso, dell’autore verso sua madre. Il film ne è la trasposizione. Laddove il dolore e la sofferenza di Manuela (Cecilia Roth) per la morte del figlio segnano l’obbligo di un’esistenza piena di diavoli e spettri, la condanna gonfia d’amore la nuova vita che ne sboccia.
Il cinema come liberazione catartica dei sentimenti e dagli affanni più reconditi. Un circo di umanità varia (Huma, Agrado, Lola, Rosa) circonda la protagonista e le inietta un nuovo impulso che, giorno dopo giorno, scolorerà l’assioma per cui l’assenza è un assedio. Il cuore, quando sorretto dal sarcasmo e dalla genuinità, riesce ad arrivare a picchi impossibili al pensiero. Melodramma a livello zero, ma sono ancora incapace di resistere alla commozione ogni volta che lo rivedo.
UNA GITA SCOLASTICA (Pupi Avati)
Ce n’è ancora una in vita tra le alunne e gli alunni della III G del liceo a ricordare la gita insieme al professore d’italiano e alla professoressa di disegno attraverso l’Appennino. Ha 84 anni Laura e, ricongiunta al gruppo, quella gita potrà essere finalmente dimenticata. Come se mai accaduta. Eppure è accaduta, altroché. E di cose ne successero al termine di quell’anno scolastico 1914.
Invece questa è la vita. Se nessuno può tramandare il ricordo non c’è memoria e se non c’è memoria non c’è materia. Quindi niente è come se fosse successo. E così accadrà a quell’evento, fonte di speranze e delusioni, piaceri e dispiaceri, empatie e fraintendimenti. Potenza e limite dell’evocazione. Film che unisce in matrimonio filosofia e poesia. Lo definirei lirico esistenzialismo cristiano. Un giorno ci sarà, e per tutti, la Resurrezione dei corpi e delle anime, ora la riunione dei presenti di quella gita. Siete tutti di nuovo assieme nella nuova dimensione. Nessuno vi potrà mai più separare una volta che vi siete accolti. Cosa c’è di più attinente alla vita? Gioiello.
DESTINAZIONE PIOVAROLO (Domenico Paolella)
Signore e signori, ecco a voi l’italiano. Nell’interpretazione impeccabile di Totò la figura di un povero capostazione che dal primo dopoguerra agli anni del boom economico non si schioda dalla sua stazione, chiamata così, Piovarolo (salvo il cambio durante in ventennio), perché sita in località dove piove praticamente sempre.
Attorno a lui una pletora di italiche figure ben poco parenti dei geni che fecero dell’Italia terra di civiltà. Ci sono gli arruffoni, le banderuole, i “tengo famiglia”, i voltagabbana, i diplomatici 24h, gli “armiamoci e partite” e quelli che predicano per razzolare all’angolo opposto. Per non dimenticarci di ladri e bugiardi.
Un quadro boschiano (nel senso del pittore Hieronymus) sulla scia del Franza o Spagna purché se magna. Lui, il principe De Curtis è un impermeabile sul quale scorrono fino a terra le gocce della pioggia della sua galera lavorativa. Ma è un uomo di princìpi (attenti, mi raccomando, a spostare l’accento), capace di far ridere con le proprie e altrui miserie più che con le gag verbali.
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA (Sergio Leone)
Sarà perché contiene la battuta dell’intera storia del cinema a cui sono più affezionato («Cosa hai fatto in tutti questi anni?» «Sono andato a letto presto.»), sarà per la sua carica onirica o per la sua inimitabile fotografia o per tanti altri “sarà per…”, ma questo è il tipo di grande produzione che mi riconcilia con il mondo.
Noodles (Robert De Niro) non è solo il protagonista antieroe come l’intero film non è solo un film sulla malavita organizzata di New York dagli anni Venti ai Sessanta. Lui e la sua parabola presentata in continue analessi narrative sono il pennino per raccontare un’epifania che forse è accaduta come presentata o forse è solo un giro di fumo per avvolgere un sogno. Illusione, simulazione, bugia, falsa identità, morte apparente e rimorsi veri, amicizia tradita: i fantasmi di Noodles fanno paura. E allora scegliamo di credere o non credere. Sta solo a noi. Intanto prepariamoci, come Noodles, a sorridere nel modo più enigmatico possibile. Un sorriso da palingenesi come Monna Lisa fece davanti a Leonardo Da Vinci.
IL VEDOVO (Dino Risi)
Ancora oggi non so chi si siede al centro con gli altri due a fianco tra Dino Risi (regista), Alberto Sordi e Franca Valeri. Sta di fatto che questo film è una mela esattamente tagliata in due: una metà è la caduta di Alberto Nardi (Sordi, appunto), uomo dalle mille voglie di emergere e le poche capacità per farlo e l’altra la mano e il braccio offerti allo stesso uomo, vituperato da un ambiente evidentemente ostile, nonostante sia il consorte di Elvira (la Valeri) un’imprenditrice di talento, e allo stesso modo “risvegliato” dalla notizia della morte della moglie, poi ahilui rivelatasi il più acre giro del destino che potesse mai ricevere.
Il finale è puro “nero Risi” (nella scia de Il sorpasso), ma per tutta la storia quel megalomane d’impiastro di Nardi non riesce a non strapparmi qualcosa più di un sorriso di benevolenza. Una mano sulla spalla, come a dirgli: «Resisti, vedrai che un giorno tutto cambierà». E una Valeri così ordinariamente acida rientra alla perfezione nell’oscuro colore preferito del regista. Gemma dalla luce sinistra con sguardo kinghiano.
BARRY LYNDON (Stanley Kubrick)
Ammetto che la prima volta che lo vidi al cinema rimasi affascinato essenzialmente per la versione della Sarabanda dalla Suite n. 4 in re minore di Georg Friedrich Händel eseguita dalla National Philarmonic Orchestra. Poi veniva tutto il resto.
Le volte successive salì a galla questo resto: la storia, i costumi e le luci che sottolineano la forza drammatica, il destino di Barry (Ryan O’Neal), la colonna sonora completa, la sensibilità mostrata per la trasposizione del romanzo di Thackeray, il ’700 secondo l’occhio di Kubrick.
Barry Lyndon è un film così infiammante da togliere il respiro e la grandezza del regista si esprime soprattutto in due scene: il concerto incompiuto nel salone e il duello tra Redmond e Bully. Scene in cui sono concentrati tragico e grottesco, crudeltà e psicologia. La violenza del proprio destino nel passaggio di ruolo (Redmond) da provocatore a provocato. E, da quel momento, una vita che non potrà più essere la stessa.
Un film a quadri. Ognuno si prende la parte di tela che più lo acceca.
VITA DA BOHEME (Aki Kaurismaki)
Quando guardo un film di Aki Kaurismaki ci metto un po’ a capire che lui è fatto così, mica mi sta prendendo per il culo. Quando vidi per la prima volta questa dolcezza in pellicola lo cercai in sala per abbracciarlo. Non trovai né lui né l’eroico Matti Pallonpää, protagonista di tanti suoi film.
Qui c’è la consueta tristezza di sempre dei film del regista finlandese, ma la povertà d’assieme dell’ambientazione e della narrazione aumentano il profilo di involontario umorismo che sfocia in un sarcasmo puro. Ispirato, esattamente come l’opera di Giacomo Puccini, da un romanzo di Henri Murger, Kaurismaki spinge sul pedale della dignità con cui Marcel, Rodolfo e Schaunard (e Mimì) riescono a vestire le proprie esistenze a dispetto di una situazione economica tremenda. Ma è la consapevole autosoggezione al fatalismo a fare delle loro vite un tenero quadro in cui si tifa perché al peggio per quei tre non ci sia fine. Io lo trovo addirittura esilarante.
ED WOOD (Tim Burton)
La celebrazione di Edward D. Wood jr, regista realmente esistito e comunemente considerato il cineasta peggiore di tutti i tempi, il re indiscusso dei film di serie Z. Cosa fece questo film per entrare nella mia vita? Essenzialmente per l’accorata interpretazione di Johnny Depp, in grado di consegnarci un uomo estremamente appassionato della propria vocazione e del lavoro in cui (non) la sapeva trasformare. Meraviglioso il momento in cui coinvolge e protegge Bela Lugosi, il fan inginocchiato all’eroe ormai piuttosto malfermo. Cinema cinema.
Non che Ed Wood non possedesse i mezzi tecnici per presentare un film come Hollywood (o giù di lì) comandasse, né che fosse privo di quel minimo di profilo artistico per far uscire l’idea dal bozzolo. Il biopic di Burton è una prova di ammirazione per un uomo che, a dispetto dei mezzi economici e produttivi iper esigui, era morsicato dalla tarantola del fare cinema con sincerità e ridondanza. Non c’è un secondo di derisione verso un uomo già di per sé preso in giro dalla vita. Anzi, esattamente il contrario, un’indulgenza molto umana. E per esprimerla ecco il suo feticcio preferito nei panni del protagonista. Perché anche gli ultimi sono in qualche modo i primi. Anche loro hanno fatto il vuoto alle loro spalle.
UNA STORIA VERA (David Lynch)
Alvin Straight (da cui il titolo nell’originale Straight Story, che può essere anche tradotto come ci è stato offerto nella versione italiana) a 73 anni si mette alla guida del suo trattorino tosaerba dallo Iowa per coprire quasi 400 km a 5 km/h e raggiungere il fratello Lyle nel Wisconsin, con cui non ha rapporti da tanti anni ed è reduce da un infarto.
Il film è il viaggio e il ricongiungimento. Alvin (Richard Farnsworth) sente che fuori dalla famiglia non c’è molto. E che la famiglia non è sono un legame di sangue. Mettere a sedere il proprio tran tran per incontrare chi il destino ci pone davanti è crearsi una nuova famiglia (e la galleria di personaggi sarà bella piena) e sfidare il caos per incontrare dopo tanto tempo il proprio fratello in gravi difficoltà è un gesto di un’umanità immensa. Il film è tratto da un fatto realmente accaduto e la cosa aumenta il piacere perché sapere che il genere umano è capace di questo intenerisce l’animo. E, per tutto, vale lo stupore del fratello quando Alvin arriva: «Hai fatto tanta strada con quel coso per venire da me?». Al quale Alvin risponderà serafico: «Sì, Lyle». C’è qualcosa di più meravigliosamente normale?
Mamma mia che lista fantastica!! Ci sono molti dei miei preferiti: Wenders, metterei anche Il cielo sopra Berlino, Avati, certo, la scena finale, Almodovar lo adoro e Tutto su mia madre anche secondo me è il più bello. Aggiungerei un gioiellino d’antan: Daunbailò di Jarmusch e con Benigni, John Lurie e Tom Waits. Allen per me rimane sempre Manhattan…. ciao, buon sabato!
Hai citato titoli di impressionante bellezza. Buon sabato anche a te.