
Entrare nel ciclone Renato Zero e, dopo oltre quarant’anni, non essere ancora uscito. Raffaele Donnarumma, 55 anni, napoletano ma da oltre trenta di stanza a Perugia dove è co-titolare in una ditta di analisi chimiche, è uno dei massimi collezionisti di registrazioni, oggetti nati e gravitati all’interno dell’universo dell’artista di Roma.
Nel suo passato si comprendono gli anni in cui pane e companatico sono arrivati grazie a una serie di lavori, tra cui la fotografia, attività che lo ha messo in contatto con Arpad Kertesz, l’occhio che più di ogni altro ha fermato nel tempo le più belle immagini di Zero. Un’amicizia che, poco prima della morte del celebre fotografo avvenuta a metà 2016, si è arricchita di un elegante volume (In Bianco e Zero) contenente alcuni dei più significativi scatti del cantante negli anni Settanta, il periodo più incandescente della sua luminosa carriera, curato proprio da Donnarumma.
Quando incominciò a seguire Renato Zero?
«La mia passione per Renato Zero nasce nel 1977. Nel mese di luglio mi capitò di vedere la sua partecipazione a Saint Vincent Estate sulla Rai, dove presentò i brani Mi vendo e Morire qui. Fu una folgorazione. Il giorno successivo non potei far altro che andare in un negozio di dischi per avere il 45 giri di quelle due canzoni che la sera precedente mi avevano totalmente contagiato.»
Per abitudine diciamo che la sua apparizione negli anni Settanta fu rivoluzionaria nel mondo del pop per il suo look e la sua sfacciataggine sul palco. Non le sembra una sintesi un po’ troppo riduttiva?
«L’aspetto provocatoriamente eccentrico agli inizi della carriera portò l’opinione pubblica a considerarlo un personaggio superficiale, un fenomeno passeggero. Invece, ascoltando i testi delle sue canzoni, ci si poteva rendere conto quanto fossero profondi e, molto spesso, in anticipo sui tempi, come abbiamo potuto constatare trenta e più anni dopo.»
Lei è uno dei più quotati se non addirittura il maggiore collezionista di Renato Zero. Quando e come nacque questa attività?
«Quando la passione per un artista si conferma, col passare degli anni nasce la necessità di conoscerlo più profondamente. E il ricercare tutto ciò che lo riguarda ci aiuta a creare un quadro più completo dell’evolversi della sua carriera. Questo è ciò che mi ha spinto a iniziare a collezionare tutto ciò che riguarda Zero. Poi capita che ci si lascia prendere la mano, fino a possedere oggetti unici, dall’elevato valore economico, ma anche dal notevole significato intimo nei confronti dell’artista. Mi riferisco a cose alle quali normalmente non si ha facile accesso se non percorrendo strade molto vicine all’artista stesso, in genere precluse alla maggior parte delle persone.»
L’oggetto della collezione che le è costato la ricerca più estenuante.
«Nella ricerca dei pezzi della mia collezione ho sempre pensato che “tutto passa, prima o poi” e comunque, la pazienza premia sempre. Per questo motivo non esistono ricerche estenuanti, ma solo percorsi imprevisti. Anni fa venni contattato da un venditore messicano che mi proponeva l’acquisto dell’EP boliviano No! Mamma, no! , di cui al momento se ne conosce l’esistenza di sole tre o quattro copie. Eravamo d’accordo anche sul prezzo, ma restava il problema della consegna; non conoscendo il venditore non avrei mai inviato in Messico una cifra considerevole. Dal momento che il venditore era anche un deejay e avrebbe avuto a breve una serata a Berlino, decidemmo di incontrarci ad Amsterdam per la consegna, dove lui era di passaggio. Ci siamo incontrati in un bar e davanti a una birra abbiamo concluso la vendita. In questo caso, alla felicità di avere un pezzo rarissimo si aggiunse anche la gioia di una vacanza in una delle più belle città europee.»
E quello che le sta più a cuore?
«Al momento, se dovessi eleggere il pezzo più importante della mia collezione, senza dubbio nominerei la bobina master originale RCA del primo 45 giri Non basta sai del 1967. Praticamente l’inizio di tutto. In ogni caso, se un giorno dovessi cedere la mia collezione, vorrei tenere per me solo quel famoso primo 45 giri acquistato nel 1977, col quale tutto cominciò.»
Il collezionismo, in ogni suo campo, trascina con sé il problema dei falsi. Quanto si falsifica Renato Zero?
«Per fortuna Renato Zero non è molto falsificato, tranne alcuni pezzi dei quali, noi collezionisti, ne siamo ben a conoscenza. Su Facebook gestisco una pagina Renato Zero: collezionismo che passione! che raccoglie quasi mille iscritti. Oltre a pubblicare tutto ciò che ognuno di noi possiede o riesce a trovare, mettiamo anche in allerta i nuovi collezionisti sui probabili falsi esistenti sul mercato.»
Ma cos’è il collezionismo, una passione, una condanna, un morbo…?
«Per chi lo fa è una cosa bella. È stimolante, condivisibile, dinamica. Crea incontri, confronti, ricerche. Per gli psichiatri è solo una malattia. Ma non dimentichiamo che anche Sigmund Freud collezionava reperti archeologici…»
Lei è stato amico di Arpad Kertesz, il celebre fotografo che sin dagli inizi seguì e contribuì a fare la fortuna dell’artista romano. Quale fu la particolarità degli scatti di Kertesz?
«Lo stile di Arpad era semplice, chiaro, pulito. Il colore era molto valorizzato. Quindi, per un artista particolarmente eccentrico e colorato come Renato Zero, era l’ideale. Spesso Arpad mi raccontava i primi incontri con Renato al suo studio, e sottolineava sempre il fatto che avessero iniziato insieme le proprie carriere, fotografo e cantante. In sala posa c’era sempre molto silenzio, era uno stimolo continuo, ricerca reciproca.»
Ha fondato addirittura una casa editrice per pubblicare In Bianco e Zero, un elegante libro fotografico che raccoglie alcune tra le più belle immagini di Zero scattate da Kertesz. Che esperienza è stata?
«Ho proposto ad Arpad più volte di pubblicare un libro con i suoi scatti, ma non è stato facile convincerlo. Non credeva che potesse trovare il favore del pubblico zerofolle. Negli ultimi mesi di vita credo abbia sentito la necessità di lasciare un segno della sua arte e abbiamo iniziato la preparazione. Ho fondato la RD Editore e la mia felicità è stata l’essere riusciti a completare l’opera prima che ci lasciasse, il suo sorriso di soddisfazione quando gli consegnai la prima copia sarà uno di quei momenti che non dimenticherò mai.»
Immagino quante ne avrà scartate. Prevede una seconda edizione?
«Per la scelta delle foto abbiamo visionato circa settemila immagini. È stato un lavoro lungo, ma estremamente stimolante. Con Arpad avevamo progettato, successivamente a In Bianco e Zero che contiene tutte foto in bianco e nero, la pubblicazione di un secondo volume tutto a colori. Conservo ancora una cartella con tutti i file delle foto che lui aveva già iniziato a preparare per la nuova opera. Senza la sua stimolante presenza non so se proseguirò a divulgare la sua arte. Vediamo.»
In Una pura formalità, il film di Giuseppe Tornatore, lo scrittore Onoff (Gérard Depardieu) dice al commissario di polizia suo fan (Roman Polanski) che non si dovrebbe mai avvicinarsi troppo ai propri idoli perché si scopre che hanno le rughe. Lei ha avuto modo di conoscere Zero. Scoprì rughe che avrebbe sperato di non vedere?
«Ritengo da sempre che gli artisti non andrebbero mai conosciuti al di fuori del loro momento spettacolare. Renato Zero rappresenta, invece, un’eccezione. Negli anni ’70, ma anche successivamente, era estremamente disponibile a incontrare il pubblico in vari momenti della sua giornata. In quel periodo ho avuto spesso occasione di essere ospite alle sue tavolate post-concerto e di trascorrere gradevolissime serate. Anche in un periodo relativamente recente, nel 2001, sono stato invitato alla sua villa all’Argentario e ho ritrovato la consueta accoglienza. Tuttavia, negli ultimi anni, comprensibilmente all’avanzare dell’età, è più restio a intrattenersi con i suoi fan. Ma nonostante ciò posso tranquillamente affermare che si tratta dell’artista più propenso alla socialità in tutto il nostro panorama musicale. Credo che lo stare fra la gente sia stata una sua necessità, per sconfiggere proprio i malesseri che ha cantato e che molti tentano invano di nascondere.»
Al di là delle capacità di perfomer trovo che Zero sia cresciuto negli anni anche come compositore, per quanto si avvalga di un gruppo di autori che spesso firmano con lui la musica, eppure tale qualità passa praticamente inosservata. Se lei è concorde con la mia analisi, perché il suo essere autore passa spesso sottotraccia?
«Possiamo tranquillamente riallacciarci al discorso fatto precedentemente, riguardo all’essere “incasellati” solo grazie a un giudizio prettamente estetico. Per molti anni, quando si parlava di cantautori, venivano sempre nominati Dalla, De Gregori, Venditti, De Andrè e mai Renato Zero, sebbene i suoi testi, come già detto, fossero assolutamente all’altezza di ciò che scrivevano i suoi colleghi. Ciò è andato avanti per buona parte della sua carriera; solo negli ultimi anni è stato molto rivalutato come autore di livello. Essendo stato uno dei pochi il cui successo ha coperto circa cinque decenni, non poteva essere altrimenti.»
Perché un album raffinato come Soggetti smarriti viene comunemente definito un flop della sua carriera e al tempo non riuscì a toccare il pubblico?
«Soggetti smarriti è senza ombra di dubbio un album dai toni più pacati rispetto a quelli precedenti. Solo 4-5 anni prima ascoltavamo un Renato che riusciva a sfoderare una grinta che provocava brividi. Ovviamente, c’è da dire che quando si raggiunge il massimo livello di successo non è semplice restare a certe quote, e l’alternativa è iniziare a scendere. La sua carriera ha avuto molte discese e risalite e la sua grandezza è stata proprio la capacità di non perdere mai la volontà di essere il numero uno. Riuscendoci sempre.»
Un’altra gemma oscura ritengo sia Zero, doppio album del 1987. Anche in questo caso le critiche superarono gli elogi. Al tempo mi parve che i suoi fan non fossero molto attenti alla sua ricchezza come creatore di canzoni. Qual è il suo parere?
«Siamo in un periodo di riflessione. Infatti l’album successivo Voyeur decreterà la sua rinascita. Cantava Arrendermi, mai e lo metteva puntualmente in atto.»
Le tre perle di Renato Zero. Iniziamo con gli album.
«Vale la regola dell’imprinting. Per me l’album massimo resta Zerofobia, uscito nell’anno in cui ho scoperto Renato Zero. Contiene una grinta e una voglia di emergere incredibili. I successivi Zerolandia ed Erozero completano una triade meravigliosa, una scalata vittoriosa verso la definitiva affermazione.»
Proseguiamo con le canzoni.
«Il cielo credo sia la massima espressione della filosofia zeriana. Una canzone dalla struttura musicale estremamente semplice, quattro strofe più finale e nessun ritornello. Un crescendo nel quale vengono espressi i temi a lui più cari. Non credo esista un brano che nella sua essenzialità posso rappresentare meglio Renato Zero. Da sottolineare che della canzone in questione ne è anche autore di testi e musica, senza avvalersi di alcuna collaborazione esterna.»
Chiudiamo coi testi.
«Non esiste banalità nei testi di Zero, mai. E anche i collaboratori dei quali si è spesso avvalso come Evangelisti, Incenzo, Filistrucchi hanno avuto la grande capacità di seguire il medesimo stile di scrittura.»
Che artista è oggi Renato Zero?
«Quest’anno abbiamo assistito a un tour incentrato sul suo ultimo disco Zero il folle, dal quale si evince che Renato Zero ha ancora, dopo oltre 50 anni di carriera, una enorme voglia di stupire e di rivoluzionarsi continuamente. Il palcoscenico è ancora la sua ragione di vita e lo sarà probabilmente ancora per molto tempo.»
E cosa rappresenta per lei?
«Quando lo guardo ora non posso non pensare che questo signore di quasi 70 anni aveva scandalizzato un intero Paese cantando Mi vendo e Triangolo. Sarà sempre questa la mia idea e la rendita affettiva che conserverà dentro di me.»