
Oreste è un ragazzone di 26 anni nel cui mondo anche la strega cattiva è buona. Rita è una madre che continua ostinatamente a soffiare anche se in direzione contraria un altro tipo di vento le soffia a sua volta. Oreste ed è un ragazzo autistico. Rita Francese una donna classe 1964, docente di informatica presso l’Università degli Studi di Salerno.
Per i tipi di Les Flâneurs ha da qualche mese licenziato Anche la strega cattiva è buona, volume che porta come sottotitolo Dialoghi con Oreste, dopo due altri titoli (La madre di Ettore e Basta, vado a dormire!) sempre legati alla condizione del figlio. Un testo costruito a brevi quadri tematici che s’intrecciano con dei veri e propri dialoghi e battute tra figlio e madre. Un testo duro, privo di ogni accorgimento narrativo per volerlo essere. Parole secche che, senza trasformarsi in acuminati giudizi, compongono pagine di evidente peso specifico perché tremendamente complicata nel nostro Paese è la vita delle famiglie con un figlio autistico.
Ma anche pagine in cui è condensato un infinito amore che ciascuno dei due protagonisti offre e riceve. Perché, al di là dell’isolamento verso cui la società progressivamente indirizza genitori e figli, vive un legame che il linguaggio delle parole riesce al massimo a sfiorarne l’altezza.
Di seguito, la conversazione con l’autrice.
Nel suo libro parla di madri e di figli speciali. Che cosa rende un ragazzo autistico e una madre che gli fa da paracadute accanto persone speciali?
«Da un lato, richiede attenzioni speciali. Questo vuol dire ambienti controllati, con pochi stimoli. Silenziosi, pochi mobili. Niente imprevisti, una preparazione adeguata ai cambiamenti. Nel mio caso, la presenza fissa di una persona: mio figlio Oreste non è in grado di stare da solo più di qualche minuto. Vuol dire essere pronti a fronteggiare dei momenti di crisi. Insomma, un’emergenza può capitare in qualunque momento. La situazione di Oreste è però particolare: non tutte le persone affette da autismo hanno comportamenti distruttivi. Dall’altro lato, è speciale per la sua bontà, la purezza d’animo, la sua dignità e l’affetto profondo che è in grado di donare in cambio di qualche attenzione. Ama la compagnia e vorrebbe sempre visite, possibilmente provviste di cioccolata.»
Da quanto ha raccolto dalla sua personale esperienza, su 100 persone quante sanno, anche in forma elementare, cosa sia l’autismo?
«Non esiste una sola forma di autismo, si parla di spettro autistico proprio perché le sfaccettature sono tante, ognuna con il suo livello di gravità. In ogni caso, oggi c’è molta più consapevolezza. Capita che ci facciano passare avanti nelle file. Prima mi sgridavano, mi dicevano che non l’avevo saputo educare, che era scostumato ed era tutta colpa mia. Oggi ognuno conosce qualcuno con questo problema, si sta diffondendo molto, ahimè. Chi ha un nipote, chi un cugino. Non capiscono tanto le nostre difficoltà quotidiane di sopravvivenza. A volte pensano che ci siano delle doti eccezionali. Sono casi rari. La maggior parte delle “famiglie autistiche” è isolata in seguito ai gravi problemi relazionali, comportamentali e alle ossessioni dei loro figli. I media danno una versione distorta: the good doctor, Sheldon Cooper, questi geni non esistono. Io ho difficoltà a far capire che non può essere lasciato, che non posso fare tardi, che non posso fare viaggi. Mi guardano con aria interrogativa, anche se l’ho spiegato più e più volte.»
Qual è il lato più oscuro di questa malattia?
«L’incapacità a relazionarsi. Nel caso di mio figlio l’ansia si manifesta in comportamenti distruttivi e idee ossessive, per altri in stereotipie e comportamenti ripetitivi. La mancanza di autonomia li rende indifesi e dipendenti dagli altri. Quando mio figlio ha una crisi vorrei non essere mai nata. Non dico di non averlo concepito, ma proprio di non essere mai nata io. Fortunatamente, la frequenza si sta riducendo con l’età. L’ossessività è anche terribile: ripete molte volte le stesse cose. E devi rispondere bene e con dolcezza. Se non si sente compreso si arrabbia. Non puoi dirgli un sano: “Mi hai rotto, perché non te ne vai a…”, perché le conseguenze sarebbero disastrose. È come se fosse il nostro padrone. E poi l’insonnia. Soffre spesso di insonnia e pretende che uno di noi gli stia vicino. A volte, alle tre, ci ripete le stesse domande e noi dobbiamo rispondere con precisione. Altre volte dorme tutta la notte. Se mi capita di svegliarmi mi dico: “Dormi! Chissà come è che puoi dormire, non ti puoi permettere di soffrire di insonnia”. Alcuni ragazzi non riescono a uscire di casa, obbligando i familiari a fare la stessa vita, altri costringono i familiari a girare in auto ore e ore, altri ancora sono costretti a fare le stesse azioni, a rispondere alle stesse domande, a giocare come loro. Lentamente, giorno per giorno ci lobotomizziamo il cervello.»
Un dato sconfortante ricorre con precisione sistemica nel suo libro, è il progressivo isolamento che la società organizzata crea attorno a chi porta questa disabilità addosso e conseguentemente alla sua famiglia: servizi sociali esistenti solo sulla carta, mortificazioni da dover ingoiare perfino in ospedale, un mondo del lavoro spesso refrattario ad andare incontro ai frequenti bisogni dei genitori. Solo l’amore verso Oreste le ha impedito di alzare le mani e non dire: «Ok mi arrendo» o ha trovato altre fonti da cui pescare la forza e l’energia per rendere più impenetrabili elmetto e corazza?
«Lui è davvero speciale. Mi ama incondizionatamente. Non posso abbandonarlo. Quando era diventato esplosivo abbiamo dovuto ricoverarlo in un centro. Era un posto terribile. Non dormivo la notte al pensiero di lasciarlo lì. Gli davano male le medicine. Sarebbe morto se non me lo fossi ripreso. Non possiamo abbandonarli, sono degli angeli indifesi. Il territorio fa a scaricabarile: andiamo a Psichiatria che ci manda alla riabilitazione, dove ci dicono: “Il Comune ha il compito di organizzare un tavolo con tutti gli attori che devono prendere in carico il vostro caso”. Andiamo al Comune e non sanno nemmeno di che cosa stiamo parlando. Insomma, per loro siamo solo un fastidio. Il vero problema è la nostra interazione con gli Enti Territoriali, non i nostri figli.»
Un’assoluta novità per chi non vive la vostra esperienza è venire a sapere che l’autismo esiste “per abitudine medica” solo fino al compimento della maggiore età del malato. Lei stessa lo ha scoperto in un reparto di Psichiatria. Oreste aveva ricevuto la diagnosi: “Psicosi con ritardo mentale”. L’autismo era sparito. Da ignorante in materia mi chiedo come possa accadere una cosa del genere.
«Per ignoranza. Anche i medici non ne sanno nulla. Li trattano come malati psichiatrici. Loro vanno educati continuamente, come bambini. Educati ad affrontare il mondo che percepiscono come una minaccia con tutti gli stimoli che gli arrivano. Una volta uno psichiatra dell’igiene mentale mi confessò: “Noi non li abbiamo mai visti, di solito sono tutti ricoverati nei centri”. Sono passati dieci anni e il nuovo medico che ci ha presi in carico ha detto la stessa cosa: “Non sono esperto, farò del mio meglio”. Il luminare che ci aveva in carico quando Oreste era piccolo, di Siena, all’inizio ci disse che in un anno sarebbe guarito. A undici anni ci ha abbandonato dicendo: “Io mi occupo solo dei bambini, ora dovete trovare qualcuno sul vostro territorio”. Proprio abbandonati, dalle istituzioni e dalla comunità. Abbiamo solo girato a vuoto, provato di tutto: dalle cure omeopatiche a metodi tribali senza nessun risultato.»
Fuori dagli obblighi delle regole e dagli ostacoli creati da chi le deve applicare c’è poi la società delle persone comuni. Qual è il suo giudizio del nostro Paese sotto questo aspetto?
«Per me è stato sconvolgente guardare le persone con occhi diversi. Ognuno affronta la vicinanza con una famiglia “disabile” a proprio modo: 1) c’è chi se ne vergogna. Anche negli anni ’90, quando è nato Oreste. Io non capivo perché dovermi vergognare, ma per certe persone a me vicine era il primo problema: si doveva nascondere. Un problema più grande delle difficoltà da affrontare. Questo mi ha addolorata molto, finché ho capito che dovevo difendere mio figlio e mandarli al diavolo, ma c’è voluta una presa di consapevolezza del nostro diritto a vivere con serenità; 2) quelli che ti dicono che vorrebbero taaaaaaanto venire a trovarlo, ma poi hanno sempre qualcosa di più importante da fare; 3) chi vorrebbe fare qualcosa per lavarsi la faccia, ti fa una visita per mettere le carte a posto e poi sparisce. Ma durante la visita vuole stare sul divano a fare conversazione, mentre Oreste vorrebbe essere guardato negli occhi; 4) quelli che aiutano come possono e si vede che hanno la cosa a cuore; 5) quelli che hanno capito quanto lui sia meraviglioso e lo amano. Quando lo incontrano lo abbracciano e lo accarezzano. Questi ragazzi hanno bisogno di calore e contatto fisico. Alla fine i guai sono di chi li ha, questo è da sempre noto. Posso però dire che grazie a Facebook e ai libri mi sento meno sola, tante sono le famiglie che hanno lo stesso disagio, tante le persone che mi scrivono commosse. Sempre noi siamo quelli che non dormono, ma il peso è un po’ più leggero.»
Ha mai avuto modo di confrontarsi con genitori che vivono all’estero la sua medesima condizione?
«No. Purtroppo noi abbiamo centri fatiscenti che si scelgono i pazienti più facili da gestire, medici che non sanno che pesci pigliare, maestre non formate e la scuola inadatta ad affrontare questi problemi. Come sia altrove, non so.»
Oreste possiede una maglietta che reca una scritta: l’autismo è nascosto in ognuno di noi. Può spiegarla?
«È una maglietta dell’associazione “Noi, un sorriso e gli autismi”. Non so bene loro quale interpretazione volessero dare, ma io considero quella scientifica secondo cui sebbene la presenza di segni clinici dell’autismo rappresenti il criterio necessario perché si possa procedere a una diagnosi di autismo, essi possono essere presenti in misura diversa anche nel resto della popolazione non affetta. Quindi i tratti autistici sono nascosti in ognuno di noi e, di conseguenza, le persone autistiche non sono tanto diverse da noi. Vanno trattate con uguale dignità e rispetto.»
Dal punto di vista legislativo, quali sono le due o tre urgenze di cui si dovrebbe dotare l’Italia per riempire quel “vuoto sanitario pauroso” che lei stessa lamenta nelle sue pagine?
«Tenderei a distinguere due diversi momenti temporali. Il “dopo di noi”: è il nostro principale cruccio. Sono arrivati finanziamenti, per ora annuali. Come si fa a pianificare qualcosa per quando non ci saremo più se i fondi non si rinnovano? Il nome della legge dovrebbe indicare l’avvio di un progetto continuativo. Quindi, il “durante noi”: possibile che ci sentiamo rispondere che non ci sono soldi e i nostri figli devono stare a casa con noi? Che per far valere i nostri diritti dobbiamo solo procedere per vie legali? Attualmente ci sono aiuti solo per i casi più semplici. Quelli più complicati, per i quali le famiglie avrebbero bisogno di maggiore aiuto, non sono gestiti da nessuno. Molti, come Oreste, hanno bisogno del rapporto 1:1, una persona sempre presente. Questo non è finanziato, quindi Oreste non può usufruire di nessuna attività e deve rimanere a casa. Ciò porta la depressione e un conseguente peggioramento dei disturbi comportamentali oltre a un ulteriore isolamento delle famiglie.»
E in che cosa questo Paese deve crescere dal punto di vista dell’ordinaria socialità?
«Creare per questi ragazzi possibilità di incontri con gruppi misti, “neurotipici”, autistici o persone con altro tipo di disabilità a cui le famiglie non siano costrette a partecipare, magari lasciando alla mamma il tempo per andare dal parrucchiere, per fare una passeggiata nei negozi, un respiro di “normalità”. Oreste frequenta un corso di calcio gratuito. Siamo grati di ciò e gli fa molto bene. Questo è una volta alla settimana. È comunque accompagnato da una persona pagata da noi: potrebbe entrare nello spogliatoio e buttare tutto per aria. Qualche gita breve al mare, sempre con accompagnatore e insieme a un gruppo. Noi andiamo al mare da soli. Oreste non ha amici, solo parenti. Ogni volta per farlo stare in compagnia devo invitare perché non possiamo andare a casa degli altri. Questo vuol dire: metti in ordine, compra qualcosa da mangiare o prepara, offri. Poi io non me ne posso andare e lasciarlo con le visite, quindi è un’incombenza ulteriore. Mi fa piacere, ma non ne ho voglia spesso. Vorrei essere invitata qualche volta.»
Lei ha trovato il modo di esprimere se stessa attraverso il canto in un coro e alla pittura. Che soccorso trova nell’arte?
«È un modo per comunicare. Mia madre ha saputo dal mio primo libro che cosa passavamo veramente. Attraverso i libri cerco un po’ di spronare le coscienze nella speranza che qualcosa cambi. Non uso toni aggressivi o polemici. Riporto i fatti per quello che sono, che già sembrano incredibili e non c’è bisogno di aggiungere altro.La pittura è un momento in cui uno si astrae ed esprime le sue emozioni, mentre il canto è un modo per sintonizzarsi con l’armonia dell’universo. Puoi sentire di farne parte, cantando insieme agli altri.»
Oreste sente il bisogno di esprimere la sua creatività?
«È molto ripetitivo e abitudinario. Non è un creativo, bisogna distrarlo dai suoi pensieri fissi.»
Che cosa legge quando guarda nei suoi occhi?
«Sembra Bambi quando cerca la sua mamma e Dumbo quando la ritrova dopo che la hanno allontanata. La sua mamma è la sua vita. Vuole essere coccolato e rassicurato. Quando fa dei “guai” si pente e chiede scusa. Vuole sempre guardare negli occhi l’interlocutore, contrariamente a quello che fanno molti ragazzi autistici che evitano lo sguardo, questo contribuisce a rassicurarlo.»
Lei viene da due precedenti esperienze legate alla narrazione sull’autismo, ma in Anche la strega cattiva è buona ha deciso di spendere i vostri veri nomi di battesimo, Oreste e Rita. Che cosa è scattato questa volta?
«Nel primo libro non si sapeva bene se ci eravamo liberati da tutti i pesi della “vergogna”, anche se questo è stato uno dei motivi per cui ho fatto outing: così la piantiamo di nasconderci che non è colpa di nessuno e non c’è nulla di male. Tolto di mezzo questo peso, mi sono sentita libera di usare i nostri nomi, e come si vede dalla copertina, ci abbiamo anche messo la faccia sopra.»
Quanto le è stato doloroso trasformare in un racconto la sua più intima

esperienza?
«Non particolarmente, anzi, la scrittura consente di guardare al proprio vissuto con distacco: eccolo lì, su di un foglio di carta. Più che altro uno dopo non ne vorrebbe parlare. Ora è tutto chiuso nel libro, fuori di me.»
E quali sono stati gli ostacoli per convertire e legare in parola una messe di sentimenti ed emozioni così potenti come il dolore, la rabbia, l’amore, l’umiliazione che la vita le ha fatto provare anche nello stesso momento?
«Nessun ostacolo. Ho tratto molti benefici e anche forza dalle parole di incoraggiamento. Molte mamme mi hanno ringraziata perché ho dato loro la forza di parlare, di riuscire ad affrontare le situazioni di crisi senza vergognarsi: mio figlio è così. Non è colpa di nessuno, è una persona splendida, nonostante l’autismo. Siete voi che non capite.»
Ha utilizzato la forma della narrazione a quadri impressivi come a voler limitare il più possibile il suo essere autrice e far emergere la testimonianza di una madre. È questa la ragione della scelta?
«La comunicazione è diretta. Va dritta al cuore, non ci sono giri di parole. Io sono così: dico sempre quello che penso. Io sono una madre, non sono un’autrice. Mi interessa solo che la gente capisca quello che scrivo, senza pretese stilistiche. Messaggi semplici, che anche l’uomo della strada possa capire. Non c’è bisogno di una laurea in filosofia per leggere nel cuore di una madre che soffre, ma lo fa con orgoglio. Non vuole commiserazione, ma solo quello che è giusto e l’affetto di tutto il mondo per il proprio gigante buono.»
Riempia con un messaggio una bottiglia che potrà lanciare nell’universo.
«Hai trovato questo messaggio in una bottiglia che vaga per l’Universo. È arrivato proprio a te. In esso c’è il cuore di un ragazzo autistico che vede i suoi compagni di pallone abbandonarlo da solo e spostarsi in un altro campo perché lui non è in grado di giocare come loro e si annoiano. Ebbene, non cambiare campo, rimani con lui, anche poco. Tira un calcio insieme a lui, sarà un momento meraviglioso anche per te, questi ragazzi se amati ricambiano con tutto loro stessi. Non mettere un “like”, fai.»