Milanese, classe 1962, Fabio Villa è dietro a un microfono dal 1977, quando le radio che nascevano fuori dall’epicentro Rai si chiamavano libere. Giornalista, presentatore di eventi live, autore e volto televisivo e narratore, dal 2006 dirige la direzione della rivista Voci di Moda – Eventi&cultura e voce sia a LombardiaTV sia su Radio Cernusco Stereo, dove è in onda tutti i giorni in diretta streaming dal sito rcs939.it.
Più che appassionato di musica, gli anni ’70 sono il suo pane e la sua aria pulita, intimo ed esuberante luogo dello spirito che lo ha prima formato e poi condotto una volta che i decenni si sono affollati l’uno sopra l’altro.
Proprio questo decennio il cuore della nostra chiacchierata.
Sono passati quarant’anni dalla fine dei contraddittori Seventies. A distanza di tanto tempo è finalmente possibile fare una valutazione globale che ne comprenda lo spirito?
«Gli anni ’70 sono stati un periodo decisamente complesso. Hanno raccolto l’eredità pesante dei Sixties dove la speranza del cambiamento, tramite musica e cultura, ha lasciato posto prima alla delusione e poi alla rabbia, sfociata in momenti di grande violenza. Un momento storico in cui si è cercato di modificare l’idea del coinvolgimento di massa con l’edonismo personale. Questo ha portato alla piacevole follia degli anni Ottanta per poi fare i conti con le proprie coscienze nel decennio successivo. Credo che ci vorrà ancora del tempo per comprendere in pieno ciò che è successo in quegli anni.»
Chi e che cosa era Fabio Villa in quel tempo?
«Un ragazzo innamorato follemente della musica, con un orecchio ben allenato, una buona memoria e una voce diaframmatica naturale, che trovò nelle radio libere prima e nel giornalismo poi il terreno ideale per crearsi una carriera parallela a quella lavorativa.»
Il rock dei celeberrimi anni Sessanta come si trasformò nel nuovo decennio?
«Domandone da un milione di dollari! È un argomento su cui si potrebbe scrivere un’intera enciclopedia. Il rock degli anni Sessanta era come un adolescente con tutte le sue pulsioni positive e negative che diventò adulto nel decennio dopo quando acquistò forma e maturità. Salvo poi avere ancora voglia di spensieratezza, adolescenza e follia negli Ottanta e avere la crisi di mezza età nei Novanta. Oggi il rock vive una vecchiaia in cui convivono ricordi degli antichi fasti e voglia di qualcosa di nuovo.»
I Sixties musicali ebbero in Woodstock il momento più alto dal punto di vista sociologico, anche se non in quello musicale. C’è un momento che, nei Settanta, caratterizzò più di ogni altro quel tempo?
«Pur essendoci stati diversi eventi live importanti, negli anni ’70 nessuno raggiunse l’intensità di Woodstock anche perché in quel periodo i festival diventarono l’occasione per commercializzare determinati generi e stili musicali piuttosto che sottolineare specifici ideali. In Italia uno dei pochi che valga la pena di essere ricordato fu quello di Re Nudo Pop Festival al Parco Lambro di Milano nel 1976. Una delle rare occasione per vedere all’opera il miglior rock e prog-rock italiano dell’epoca. Uno dei momenti più importanti del periodo fu la netta linea di demarcazione tra il rock e i vari movimenti musicali che si formarono dalla seconda metà del decennio. Personalmente sono sempre stato un rocker anche se i freak non mi sono mai stati antipatici.»
A un certo punto, dallo Studio 54 di New York l’esplosione di un suono che conquistò il mondo: la disco music. Vera figlia del soul o semplice prodotto creato a tavolino da fini menti ingaggiate dalle major discografiche?
«Credo che il discorso della disco sia molto più complesso di quello che sembri. Prima ho accennato all’idea della massa che si trasforma in edonismo personale. La disco con la sua filosofia musicale fece proprio questo. Non fu soltanto il lavoro creato a tavolino da fini menti per le case discografiche, ma un lavoro sociologico creato per modificare l’idea di vita delle persone. Non più un fine comune per raggiungere un obiettivo sociale, ma il pensiero che una singola persona, magari anche solo per una sera, potesse diventare una star. Il film La febbre del sabato sera fu la chiave di volta di questo concetto. Da quel momento la visione delle persone cambiò in modo radicale e nulla fu più lo stesso. Se vogliamo analizzare la cosa in modo più approfondito, il tempo musicale dei quattro quarti in battere si adattava perfettamente a qualsiasi genere musicale. Di quel periodo si ricordano brani disco-rock come I was made for lovin’ you, Disco Soul, Disco Flamengo, Don’t let me be misunderstood coverizzato da un brano degli Animals e così via. Se a tutto questo vogliamo aggiungere sonorità dal tocco ipnotico, poi riprese dalla dance degli anni ’90, otteniamo un coinvolgimento di massa senza precedenti. Due parole vanno spese anche sui testi. Tutti basati sull’istante, sul momento. Prendiamo Ladies night di Kool &The Gang: “This is the night tonight, everthing gonna be all right”? Tormentone linguistico che sarebbe stato ripreso in altri mille modi diversi e che tradotto suonava come: “Ok, divertiti, è la tua sera, tutto deve essere al meglio, che t’importa del domani. Balla tutta la notte… domani è un altro giorno e ci penseremo poi…”.»
Quale dei due emisferi può mettere la firma sull’intera epoca, quello British o quello Americano?
«Di primo impatto viene in mente la British invasion con la valanga di gruppi e gruppetti che occuparono la hit parade americana. Beatles, Rolling Stones furono tra i primi, ma poi gente tipo gli Who, i Kinks, Moody Blues e nei ’70 E.L.O., Joe Jackson, Elton John, David Bowie, Deep Purple, Led Zeppelin, una gran bella compagnia giusto per citarne solo alcuni. Ma se guardiamo come risposero i colleghi americani, anche loro non rimasero a guardare: Doors, Beach Boys, Eagles, Steve Miller, Lou Reed, Simon & Garfunkel. Personalmente propendo per l’altra parte dell’oceano, essendo un westcostiano da sempre, ma si tratta di una partita finita pari e patta.»
L’Italia passò dal beat capellone innocuo e dai musicarelli dei “ mitici sessanta” a un magma che comprese in ordine sparso: gruppi che fecero del prog un filone autonomo di gran profilo, l’istrionismo di un nuovo Pierrot Lunaire come Renato Zero che procurò acidi mal di pancia ai benpensanti, il fenomeno dei cantautori tra politicizzazione della musica e nuova poeticità creata col suono, l’esplosione del fenomeno delle radio libere, i primi gruppi heavy metal e i punk degli antesignani dei centri sociali. Insomma, anche da noi, fu o non fu qualcosa vicino a un Big Bang?
«Sì, fu un Big Bang. Ma in Italia non venne compreso come tale. Venne considerato un gran polverone. Noi italiani facciamo fatica ad accettare i cambiamenti. Facciamo di tutto pur di non cambiare il modo in cui è composto il nostro orticello. Le radio libere in quel periodo giocarono un ruolo fondamentale. Non c’era più monopolio, non si ascoltavano più le solite canzoni o la solita musica melodica all’italiana, ma per l’etere viaggiavano brani e suoni nuovi. È stato come svegliarsi di colpo rendendosi conto che c’era qualcosa di nuovo. Il problema fu che lo capirono in pochi e gran parte di quel cambiamento si perse per strada.»
Gli anni Settanta passano anche come il momento dei palchi incendiati nei concerto rock e fenomeni come il processo pubblico a Francesco De Gregori al Palalido di Milano da parte di gruppi extraparlamentari di sinistra. Sembrano passati quattrocento e non quarant’anni.
«Sono nato nel 1962 e a quell’epoca non riuscivo a capire perché della gente volesse fermare dei concerti in modo violento o processare un cantante perché faceva dei concerti e guadagnava bene. Diventando grande, leggendo e informandomi sull’argomento ho cercato di capire l’accaduto e faccio ancora fatica. La musica deve essere un elemento che unisce in modo non violento, uno splendido momento di aggregazione che faccia passare messaggi di gran profilo. All’epoca forse era il modo di cercare di far capire un determinato tipo di idee, ma è costato caro. Per prima cosa siamo stati messi al bando dal grande circuito musicale internazionale con un ostracismo senza precedenti e poi certi ideali non sono stati recepiti e non hanno lasciato il segno voluto. Ci sono voluti anni prima che tutto tornasse nella normalità.»
Nelle città impazzavano i negozi di dischi. Uscirne con un vinile sottobraccio era una conquista. Che cosa ricorda delle sue puntate in quei luoghi di favolosa perdizione?
«Be’, il sabato pomeriggio era un classico fare una puntata nel negozio di dischi. Ho sempre amato l’atmosfera di quei posti. Lo sguardo di complicità tra le persone presenti, l’odore del vinile quando il negoziante scartava il disco per fartelo ascoltare, la puntina del giradischi che scendeva lentamente e quel piccolo gracidio prima che partisse il brano, l’emozione di tenere tra le mani un disco che cercavi da un pezzo e che non riuscivi a trovare e il controllo al portafogli se avevi abbastanza soldi da spendere. Una volta da Disco Club a Milano, negozio ahimè chiuso che si trovava nello spazio della metropolitana fermata Cordusio, ci buttarono letteralmente fuori alle otto di sera perché io e un gruppo di amici avevamo ascoltato per intero due volte di fila The dark side of the moon dei Pink Floyd e dovevano chiudere. A questo voglio aggiungere il ritorno a casa con i dischi nascosti sotto il cappotto per non farli vedere a papà che era pronto a fare le menate tipo: “Perché spendi soldi per quelle pirlate?”.»
Il suo primo disco?
«Made in Japan dei Deep Purple. Lo acquistai da un mio compagno di scuola per 1.500 lire perché altrimenti lo buttava via in quanto troppo rumoroso. Scoperchiò il mio personale vaso di Pandora. Non tanto con Smoke on the water quanto con Highway star che accese il motore rock che era dentro di me e non sapevo di avere. Invece il mio primo singolo fu Honky tonky train blues dal mitico Keith Emerson degli ELP.»
Il primo concerto…
«Lo ricordo come se fosse oggi: 27 giugno del 1980, Bob Marley portava in Italia l’Uprising Tour. Lo stadio San Siro era pieno all’inverosimile. Riagganciandomi a una domanda precedente, fu uno dei grandi artisti a spezzare l’embargo subito dall’Italia dai grandi nomi rock internazionali. Avevo detto ai miei genitori, contrari nel modo più assoluto che partecipassi a eventi del genere, che avrei dormito da un mio compagno di scuola perché il giorno dopo ci saremmo alzati presto per andare a correre al Parco Lambro. Entrammo nello stadio nelle prime ore del pomeriggio. Caldo devastante e solo una piccola bottiglia d’acqua per la sopravvivenza. Le ore d’attesa e poi finalmente il concerto. Marley era un gigante. Un brano più bello dell’altro. Dopo due ore e mezza c’era tutto lo stadio che ballava e al ritorno, con i miei compagni di scuola, cantammo a squarciagola Could you be loved. Ho ancora il disco Uprising, acquistato alle bancarelle dopo il concerto. Naturalmente il giorno dopo non andammo a correre a parco Lambro e restammo a letto fino a mezzogiorno. Indimenticabile.»
Gli anni Settanta nascono musicalmente con la fine dei Beatles e chiudono con la morte di Demetrio Stratos. Due lutti a monte e a valle di un decennio. Ha mai riflettuto su questa doppia circostanza? Che cosa le suggerisce?
«È una strana domanda, ma decisamente interessante. Non ho mai fatto una riflessione su questa tematica però potrebbe essere che con la fine dei Beatles il rock assunse una dimensione più adulta e meno spensierata e con la scomparsa di Demetrio Stratos i gruppi italiani abbiano perduto la voglia di sperimentare, lasciando il prog-rock orfano di una delle punte di diamante di quel genere musicale che così bene è andato a livello internazionale ma che in Italia è rimasto in una bella nicchia dorata.»
Di lì a sei mesi saremmo entrati negli Ottanta. Che tipo di passaggio fu?
«Fu follia pura. E anche in questo caso una bella occasione mancata. Alla fine degli anni ’70 il movimento punk fece un ottimo lavoro di spaccatura, ma il punk aveva una scadenza breve, non poteva durare più di tanto. Ecco quindi la new wave con la sua sperimentazione. Nuovi suoni, l’elettronica che entra in modo massiccio nelle canzoni e che obbliga tutti i gruppi a rivedere il loro modo di fare musica, il look e come porsi nei confronti del pubblico. Fu a questo punto che le cose non andarono nel modo giusto. C’era l’opportunità di migliorare il modo di fare musica e convogliare l’enorme energia che si stava creando in un movimento musicale che facesse la storia della musica come era successo dieci anni prima. E invece? Tutto virò verso il commerciale. Nel giro di un attimo non si parlò più di musica ma di estetica. Entrarono nelle case per la prima volta i video musicali. Non si ascoltava più la musica, la si guardava e l’occhio, non più l’orecchio, voleva la sua parte. Ricordo lo smarrimento quando uscirono dei dischi come Sandinista dei Clash, così lontano da London Calling, oppure Vienna degli Ultravox. Irriconoscibili rispetto all’irriverente Ah! Ah! Ah!. La tenerezza nel vedere Billy Idol fare il finto duro biondo platinato cantando Eyes without a face dopo aver inciso un disco pazzesco con i Generation X che di commerciale non aveva nulla. Furono anni di forte nostalgia quelli appena passati e che lasciarono quelli della mia generazione con un profondo amaro in bocca musicale.»
Cosa è arrivato oggi a noi dei Settanta?
«Molto più di quanto si pensi. Negli anni Novanta si è arrivati a un appiattimento musicale piuttosto pesante, la house aveva sostituito la dance degli anni ’80 con risultati monotoni, il rock aveva dato un bel colpo di reni con la nascita del grunge e la riscoperta della musica acustica tramite gli Unplugged di Mtv. Serviva però qualcosa che ridasse stimolo e coinvolgesse tutti i reparti del settore. Alcuni produttori si ricordarono delle sonorità dei Seventies e, grazie ai campionamenti, le inserirono dapprima nei brani della musica dance contaminando poi pian piano tutti gli altri generi musicali. Nei primi anni 2000 abbiamo assistito a un vero e proprio saccheggio negli archivi di quel periodo. Se da una parte faceva piacere perché capitava di ricordare un brano che non si ascoltava da anni, dall’altra ci si rese conto del danno enorme che aveva fatto l’applicazione dell’elettronica inaridendo le capacità compositive dei musicisti. Oggi gli anni ’70 sono un periodo fondamentale per scoprire, o meglio, riscoprire musiche, brani e personaggi straordinari.»
Gli artisti che maggiormente hanno caratterizzato l’epoca?
«Bob Dylan, David Bowie e James Brown. A cui mi sento di aggiungere John Lennon e Johnny Cash.»
Gli album di quel periodo che non si possono non avere nella propria collezione personale.
«Qui la lista è pressoché infinita, ma voglio mettere l’accento su Made in Japan dei Deep Purple, The dark side of the moon dei Pink Floyd e il monumentale live di Eric Clapton Just one night. Ma una menzione voglio farla anche per Works degli ELP, The books of Dreams della Steve Miller Band, Blue di Joni Mitchell e Eat a Peach degli Allman Brothers.»
Le tre canzoni doc del periodo…
«Altra lista infinita, ma cito volentieri Wish you were here dei Pink Floyd, Running on empty di Jackson Browne e Stairway to heaven dei Led Zeppelin. Appena staccati dal podio, Get Back dei Beatles, gli Stones con Miss you e i Boston di A man I’ll never be, che è il brano che in assoluto sento più vicino di quel periodo.»