L’appuntamento col mio compagno di scuola delle medie era a casa sua nel primo pomeriggio. Avremmo fatto i compiti assieme e poi ascoltato un po’ di musica. Perché a fine anni Settanta (ma anche più tardi) si faceva così. Ci si incontrava tra amici per ascoltare musica.
Mi aveva detto che aveva appena comprato un disco dei Kiss che dovevo assolutamente ascoltare. Io, più che per i compiti, andai da lui proprio per ascoltare i Kiss, di cui non possedevo nulla. E così avvenne. Arrivai da lui, sua madre ci offrì qualcosa, ci buttammo sui nostri compiti e poi finalmente la musica. Solo che invece del gruppo mascherato newyorchese ecco il fuori programma. Si intromise il fratello maggiore del mio compagno di classe che, con la spocchia di chi ne sapeva ben più di noi, c’impose l’ascolto di un disco che ci annunciò come la rivoluzione musicale dell’epoca moderna.
Mise il vinile sul piatto, fece scendere la puntina e… E non ci capimmo niente. Ma proprio zero. Di più, zero al cubo. Ma cos’era quella roba? Ma che suoni erano? Che strumenti facevano quel suono impossibile? Concepibile apprezzare una roba del genere e spenderci pure dei soldi? Il nostro ascolto non durò più di dieci minuti. Noi vogliamo i Kiss, hai capito? Tira via ’sta tortura!
La tirò via. Col ghigno di chi ci lasciò preferire il succo di plastica all’ambrosia (e noi non ci chiedemmo se lui davvero quell’“ambrosia” era in grado di apprezzarla davvero o se era tutta scena).
Tornammo ai Kiss. Non mi ricordo se mi piacquero o no e neanche quale disco il mio amico mi fece ascoltare. Ricordo solo che mi inquietava il simbolo runico con cui era scritto il nome della band.
Ricordo però il nome della tortura: Bitches Brew. E il suo autore: Miles Davis. Sarei tornato ad ascoltarlo negli anni. Per intero questa volta. E pure con le bonus track. Così come ora, dopo l’uscita e la lettura di Bitches Brew. Il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato il jazz del compositore e musicologo George Grella jr, da noi uscito grazie a minimum fax. Capolavoro, dice il titolo. Capolavoro dice la gran parte della critica colta. Non mi addentro, non metto in discussione. Io dico che a distanza di mezzo secolo (il disco uscì nel 1970) io, per quanto tenti di addentrami in quei suoni, ci afferro ancora poco o nulla. Più nulla che poco.
Amo Miles Davis. Il fine compositore di Siesta, Schetches of Spain, Kind of Blue e Ascenseur pour l’échafaud, tanto per citare i titoli che mi stanno più a cuore, ma ancora mi chiedo: dentro quel doppio disco vinile dalla copertina suadente e misteriosa che sembra uscita dalla follia onirica di Salvador Dalì, che cosa c’è?
Chi di jazz ne mastica come io faccio con un hamburger mi ha detto nel corso degli anni che quel disco ha spostato il limite della capacità uditiva dell’ascoltatore allargando la portata percettiva umana. Io questa definizione la sento aderente a Wolfgang Amadeus Mozart o ad Arvo Pärt, Bob Dylan o agli “altri” Miles Davis, ma non mi sogno di metterla in discussione per Bitches Brew. Penso che la vita varia sia meglio di quella uniforme e porto a casa.
Certo è che la tromba più celebre dell’Illinois, coadiuvato da tredici musicisti che non hanno bisogno di presentazione, tra cui Wayne Shorter (sassofono), Joe Zawinul (piano), Chick Corea (piano), John McLaughlin (chitarra), Jack DeJohnette (batteria), Dave Holland (basso), affondò labbra e fiato perché il suo spirito iconoclasta appoggiasse l’architettura del moderno jazz su gambe a dir poco disossate.
Un apostata più che un costruttore Miles Davis, che da abbozzi di idee e grezze sequenze di accordi, presentò alla sua squadra di musicisti un lontano qualcosa che forse assomigliava a una linea melodica con qualche (ma anche qui, forse) frammento armonico. E chiese un altro qualcosa di molto indefinito e impalpabile, vale a dire un risultato che funzionasse nell’ensamble del gruppo che doveva pescare il meglio del talento di ciascuno in fase d’improvvisazione in grado di dialogare l’uno con l’altro, tromba di Davis compresa.
I musicisti ci diedero dentro e chiusero le session con la consapevolezza di essersi limitati a provare un suono. Non certo di aver registrato dei pezzi. Zawinul, tanto per dirne una, uscì confidando a Davis che non gli era piaciuto niente di quello che aveva fatto e ascoltato. «Abbiamo giocherellato troppo, sai» disse. A loro insaputa invece l’opera era già pronta, bastava tagliare e ricucire, tagliare e incollare da qualche altra parte. Davis aveva registrato tutto e incominciò il sottile lavorio di mettere insieme e sovrapporre più take per arrivare all’opera finale, il più alto esempio di manipolazione sonora che si potesse tentare.
Il disco è proprio questo, un album nel vero senso della parola e cioè un foglio (il disco di vinile vergine) su cui vengono attaccati e incastrati dei pezzi (i suoni in totale libertà scelti) non prodotti nella forma in cui sono stati consegnati alla Storia. Vale la pena di ascoltare ancora Zawinul: «Molto tempo dopo andai alla CBS, e l’impiegata stava ascoltando una musica incredibile nel suo ufficio. “Che diavolo è?”, le chiesi, e lei: “Come sarebbe a dire, che diavolo è? Siete tu, Miles, John e gli altri su Bitches Brew”.» Rimase folgorato. Neanche un prodigioso musicista come lui aveva lontanamente sospettato che quei solchi fossero qualcosa che riguardasse le quattro sedute insieme.
Come dice Grella, per Miles Davis un disco era come la tela di un pittore. Che non esce dal nulla attraverso un percorso che va da A a B e da B fino a Z, ma vive di sovrapposizioni, cancellazioni, rimescolamenti, smontaggi e rimontaggi. Manipolazioni, appunto. Il concetto fu: la musica si crea una volta registrata, non una volta uscita dallo strumento. Tanto poi dal vivo il disco sarebbe stato suonato ancora diversamente, cosa naturale nell’universo jazz dove tutto è diverso da tutto, perfino da se stesso.
Un disco capace di dar fuoco al funk, di parlare col rock, di rimodellare la fusion alzando un muro di calore incandescente, crogiolo di suoni bollenti, privi di forma ma allo stesso tempo corpo potente che percuote l’ascoltatore anche se la sua estetica finale richiede più ascolti prima che l’orecchio riesca addirittura a distinguere le tracce. Un sound cristallino creato con l’artificio della strumentazione utilizzabile in fase di post-produzione che ebbe il risultato di liberare un plotone di musicisti e compositori jazz e di musica nera, nonché autori celebri come Carlos Santana, i Talking Heads fino a Thom Yorke.
Un esempio, forse il più nitido, di strappo del Tempo e impostazione di un nuovo ordine mondiale nell’arte. Inafferrabile a distanza di cinquant’anni. Per me, ancora talmente misterioso che, ogni qual volta lo riascolto, mi dico: «Oh madre mia, mi sono già perso». E sono passati trenta secondi.
Persevero nell’ascolto, ma mica sono sicuro che la strada in cui m’infilo sia quella giusta.
Io invece quando finivo di studiare insieme al mio migliore amico delle superiori mi mettevo a giocare a biliardo con lui. Poi suo padre dopo aver speso una marea di soldi in lungo e in largo fu costretto a vendere quello e un sacco di altre cose, e la nostra amicizia ne fu duramente colpita. Attenzione: non sto dicendo che ho scaricato quell’amico perché di lui mi interessava solo il suo biliardo. Sto solo dicendo che insieme a quel biliardo è venuta a mancare anche la parte più bella della nostra amicizia, e quindi tra noi non c’è più stata la stessa atmosfera.