Rock e follia: la voce abrasiva di Massimo Padalino

53381736_2046870472100598_6980994685632249856_nPrima luce in terra foggiana, da tre buoni decenni di stanza a Udine. Un percorso ascensionale dello Stivale per imporsi come una delle voci più interessanti e caustiche della musica contemporanea e di tutto il frullatore postmoderno legato all’arte più impalpabile. Firma nelle più celebri testate di settore nonché autore un paio di anni fa di un corrosivo e divertente romanzo, Il Gioco, a dimostrazione che, se sappiamo cercare, lo scrittore può essere ancora una creatura italica.

coverOggi per Giunti è nelle librerie con Storie di ordinaria follia rock, volume che riunisce la parabola impazzita e spesso tragica di una lunga serie di musicisti (anche fuori dall’orbita rock) che non sono proprio riusciti ad accostare le due metà della loro vita per (ri)farne una intera in equilibrio sul filo del proprio tempo.

Quattro parole su rock, follia e dintorni con Massimo Padalino.

Il libro ha come titolo Storie di ordinaria follia rock e, nei suoi ventisette ritratti, lei spinge molto di più sull’attributo che sul sostantivo. Come dire: ragazzi, dentro questo catalogo potreste trovare anche voi stessi.

«La follia è il confine di una regione della psiche che da un lato è occupata dalla psichiatria e dall’altro dalla semplice stramberia. Nel mezzo, a ricoprire ogni tonalità di spettro possibile, c’è tutto ciò che fa la spola fra l’una e l’altra. E siccome, da che mondo è mondo, la figura del folle sapiente tende a coincidere con i contorni del suo opposto, il sapiente folle, va da sé che l’elemento perturbante/sparigliante del logos comune, delle convenzioni, del Galateo di ciò che è lecito/illecito nel consorzio umano, appartiene, una tantum, quale scintilla che avvampa e si consuma all’istante e poi non più, a ciascuno di noi. Poi vi è la follia psichiatrica, quella che tal Foucault ci ha raccontato sì sapientemente e compiutamente, che non è una semplice gitarella nell’incongruo, nella sragione – che della ragione raziocinante è il contraltare – ma un vero e proprio trasferimento armi e bagagli. Il folle nel senso di stravagante è qua e là, qui e ora, ci fa e ci è, come Villon docet. Il folle nel senso clinico è h24, intra moenia manicomium, ora come Tasso docet.»

Illustra un plotone di bugiardi, depressi, machisti, iracondi, paranoici, schizofrenici dal passato anaffettivo, incapaci di uscire dal proprio delirio di onnipotenza. La miseria crea il genio è un celebre adagio usato e abusato per celebrare la precarietà come Musa. È o è stato così anche per le rockstar che descrive?bowie

«La fu buonanima di Carmelo Bene diceva che il talento fa quel che vuole, il genio fa quel che può. Con ciò intendeva dire che il talento si fa, è soprattutto costruzione di un’abilità di certo già presente nell’individuo. Nel genio, invece, le cose funzionano diversamente, perché il genio fa sopra ogni regola e ogni metodo, il che non significa che non apprenda l’arte ma che, soprattutto una volta appresa, non ha la smania di applicarla serialmente, bensì di disfarsene. Il genio è demone, il talento è mestiere ispirato. Se poi qualcuno ha più genio che talento, allora la bilancia della produzione artistica può ben andarsi a fare fottere, vedi alla voce De Sade o Céline, per citare solo due casi diversi e a loro modo opposti di incarnare i concetti finora espressi. Dunque, a mio modo di vedere, genio e talento funzionano allo stesso modo in ogni forma espressiva, rock incluso.»

Esiste una sintesi unica, una sorta di fil rouge adatto a spiegare e unire l’isolamento e la solitudine di queste celebrità?

«Forse questo fil rouge è identificabile con quella che Nietzsche chiamava la “volontà di potenza”, che non è una bislacca espressione indicante uno stato psico-fisico di assatanamento, bensì indica un processo energetico che porta l’individuo a oltrepassare e oltrepassarsi di continuo, e nel comportamento sociale e nelle ambizioni artistiche, fino quasi a scomparire dentro di esse, si pensi a Van Gogh, ad esempio, che un pensatore acuto come Artaud definì, non a caso, “il suicidato dalla società”, proprio perché si era talmente inerpicato in se stesso – e quindi nella sua visione delle cose – da isolarsi inevitabilmente alla vista, intesa qui come comprensione, dei suoi contemporanei.»

Tra i ventisette quadri, chi proprio non riesce a invidiare?

«Madonna, perché devi essere proprio fuori con i sentimenti per credere che qualcuno frughi nel tuo camerino allo scopo di individuare tracce di dna con cui fabbricare un tuo clone. Megalo-follia al cubo. Povere rockstar!»madonna

Eppure, tra il greve maschilismo di Re Presley e le fobie della signora Ciccone, come quella da lei citata, io tifo apertamente per quest’ultima.

«Sì, anche io la penso come lei, nel senso che la follia presleiana andava dritta verso l’attivazione di alcuni meccanismi di paranoia sociale che sono tipici di certe dittature. Altro non aggiungo. Troppo mi dilungherei sull’argomento.»

Quale invece la follia che raccoglie di più il suo coinvolgimento?

«In generale trovo che abbia un senso la follia del tipo di artista che persegue l’eremitaggio, la discesa dentro il proprio inferno personale. E trovo che tale pratica, sebbene in qualche modo folle e sicuramente assai poco utile alla sanità mentale di chicchessia, chiarisca a fondo che cos’è – si badi bene: che cosa, non chi – l’artista, che rimane essenzialmente un veicolo di trasmissione e di ricezione di impulsi più o meno ignoti che riemergono dalla caverna platonica dell’inconscio, dove solo la forma delle ombre ci aiuta a distinguere, per approssimazione, gli epifenomeni psichici poi classificati alla bell’e meglio da psicologia, psichiatria e balle varie.»

La parabola di Thelonious Monk è solo uno dei capitoli sul tocco del diavolo che si potrebbe scrivere sulla musica jazz. Siamo nello stesso giardino dello squilibrio “incantato” del rock o si possono individuare delle differenze tra le manie fuoristrada dei jazzisti e quelle dei rocker?

monk«Monk, e così molti altri jazzisti a lui coevi, ma non solo, non conoscono l’ebrezza da teatro dell’arte del giullarismo e del travestitismo delle odierne rockstar. Per molti versi, la folle introversione e la patologia psichiatrica di Monk hanno più punti di contatto, per il modo in cui vengono riconosciute e poi vissute, con quelle di uno Schumann invece che di un Hendrix. Qui, la cultura personale, e quel che una volta si sarebbe chiamato il mielieu, conta eccome e determina anche i modi in cui si manifestano e vengono vissuti i sintomi dell’impazzimento. La rockstar simula la follia e la mette in scena, e questo è teatro. Il jazzista dissimula la follia e la toglie di scena, e questa è vita. Poi teatro e vita si sono mescolati, così che al giorno d’oggi anche chi suona il jazz o la classica può far teatro, con buona pace di un certo Paganini, ma non solo, che faceva e disfaceva musica, teatro e pazzia sul palco… che Dio l’abbia in gloria, lui e il suo Cannone.»

Artisti non riconducibili al rock, o almeno al rock in senso stretto, come Devo, Kraftwerk, Nina Simone, Sun Ra, oltre allo stesso Monk, non sono stati immuni dal buco nero dell’ordinaria follia. Qualche anno fa Nick Cave parlava del suo mestiere come di un lavoro abituale, per non dire banale. Esco di casa, apro l’ufficio, mi metto al piano e vedo cosa riesco a tirare fuori, il pomeriggio tardi lo chiudo e torno a casa. Una bizzarria nella bizzarria, vero?kraftwerk

«Sì, una bizzarria nella bizzarria. Dopotutto, e io ne parlo nel mio libro, un personaggio come Moondog chiamava “il mio ufficio” un angolo della Sesta Avenue newyorkese. Lì, si recava al lavoro ogni giorno. Peccato che lo facesse vestito da vichingo e suonando la musica più strampalata ma anche geniale del globo terracqueo. La routine, comunque, aiuta ad affinare il metodo, ad appropriarsene, a dominarlo. Come diceva il compositore italo-tedesco Ferruccio Busoni: se vuoi creare qualcosa che abbia il sigillo della grandezza, devi affidarti a forme adeguatamente grandi. E va da sé che chi vuol dipingere una tela di 10 x 6 metri deve giocoforza farsi le ossa addestrandosi day by day. Indi per cui: viva la routine, gloria e onore di ogni artista perché l’ispirazione senza il mestiere è come il pompare aria in uno pneumatico bucato.»

Molto dolorose le pagine che ha dedicato a Nick Drake. Un autore di cui a un certo punto diventò moda dichiararsene fan anche se poi a stento di lui si conosceva Time Has Told Me. Io propendo per la morte accidentale e non per il suicidio ma, pur ammesso questo, non vede nel demone che sequestrò questo sensibile autore lo stesso che quasi vent’anni dopo si sarebbe portato via Kurt Cobain?

drake«Una morte per suicidio può anche essere accidentale. So che suona come un paradosso, ma esistono forze dentro di noi che non parlano la lingua del congruo, ossia della ragione, ma quella dell’incongruo, ossia della follia. Per farla breve, ci sono forze dentro di noi che ci conoscono ma in cui noi non ci riconosciamo. Ecco perché esiste anche la casistica del “suicidio involontario”. Ma per spiegarla appieno ci vorrebbe una penna come quella di Gombrowicz o di Dürrenmatt.»

I suoi sono ritratti desunti del cosiddetto classic rock tanto per consegnarci a una definizione in voga. Ma questa follia è un esplosivo anche per le star della musica di ultima generazione o qui siamo in un altro mondo?

«No, anche l’ultima generazione di star è minata da scosse telluriche di follia. Ovviamente, la follia di un Corey Taylor degli Slipknot si esplica in modalità teatral-esistenzialiste-mediatiche da quella della tipica rockstar d’inizio Seventies. Ma gratta gratta, sotto la patina dell’epoca e dei costumi, c’è sempre un duro nocciolo di (in)visibile, (in)afferrabile, (in)sana follia, qualunque cosa essa sia.»

Lei parla di sofferenze, pazzie, dolori e io ho trovato le sue pagine addirittura divertenti. C’è qualcosa che non va nella sua penna o nella mia testa di lettore?

«Pensi alla perfetta combinazione di tragedia e commedia nel Don Giovanni mozartiano. La scena nel cimitero, ad esempio. È tragica. Don Giovanni che vuole infilare a fil di spada Leporello. Quest’ultimo che gigioneggia davanti alla statua del defunto Commendatore e lo implora/invita nei modi più buffi a una cena col suo padrone. Sulla carta, la cosa non dovrebbe funzionare. Anzi, dovrebbe persino stridere. E invece…»

Il rock nacque come musica di rottura, i suoi protagonisti come uomini e donne non allineati. Trova questa condizione ancora alive and kicking come dicono gli anglosassoni o è una fase ormai superata?cobain

«È superata. Oggi anche il ribellismo giovanile è vissuto con modalità diverse da quelle di cinquanta o sessanta anni fa. Il rock oggi offre soprattutto una grammatica musicale desunta da cinquant’anni e passa di storia che i giovani musicisti prendono e manipolano senza porsi alcun problema di appartenenza o meno a un ben determinato genere musicale e soprattutto declinandola attraverso le regole combinatorie – di suoni, generi, stili eccetera – che il rock, genere bastardo per eccellenza, ha sempre fornito come modello a coloro che hanno voluto approfondirne la sostanza musicale. Nulla vieta che in futuro rock e ribellismo giovanile tornino a scorrere insieme. Ora come ora, almeno una delle due falde è carsica.»

Se si parla di innocenza del rock un noto critico musicale come Mauro Zambellini identifica in Altamont 1969 il momento in cui il sogno svanì. Pure lei ne parla nel suo libro, anche se da un profilo diverso. Era inevitabile Altamont?

stones altamont«Non c’era alcun sogno e non svanì nulla. Spesso si tende a parlare di alcuni fenomeni culturali che caratterizzano un’epoca come di qualcosa di onnipervasivo e totalizzante. Invece ci sono sempre zone della società dove la luce di tali fenomeni arriva sotto forma di pallida eco o non arriva affatto. Ed è da quegli spicchi di mondo in penombra che riemerge, dialetticamente, e quindi hegelianamente, il rovescio della medaglia di qualsivoglia fenomeno culturale. Gli hippie ebbero la loro nemesi con gli Hell’s Angeles. Gli Hell’s Angeles esistevano ben prima che gli hippie venissero al mondo. La luce dei riflettori mediatici e la narrazione di costume ha messo al centro della scena gli uni e non gli altri. Ma poco oltre il margine frastagliato dell’occhio di bue, inteso come fascio di luce che ti ingabbia e lascia il resto all’ombra, c’era la storia che non fa Storia, Hell’s Angeles inclusi.»

I musicisti rock hanno dato un grande contributo allo sviluppo della musica contemporanea con autori, scelta personale tra quelli di cui scrive, come Bowie, Barrett, Zappa, Lennon, Page. Il rock mi sembra invece molto meno credibile quando affronta temi sociali. Però se lei mi oppone Billy Bragg mi arrendo e le do ragione.

«Il rock è un antico parente dei baccanali dionisiaci, ha molto a vedere con i riti di iniziazione estatici e con la perdita del controllo di sé che si trasforma, magicamente, a fine rito, nel suo contrario. Ora, è abbastanza ovvio che se il rock dimentica questa sua natura di delirium tremens collettivo teatralizzato… be’, farà una brutta fine. Il rock può anche cantare il sociale, ma ci vogliono i Woody Guthrie e compagnia cantante per riempire di sostanza vera il testo di una canzone che si pone come scopo la zappasensibilizzazione su temi civili. Se la canzone viene calata dall’alto, come scienza infusa, l’ascoltatore se ne avvede. Ovviamente, anche i pipponi politicizzati sotto forma di canzone possono spaccare di brutto in ambito rock, a patto che la musica spacchi di brutto. E qui ritorniamo al baccanale dionisiaco.»

Una band mondiale: gli U2. Bellissimi i loro discorsi su razzismo, pace sociale, solidarietà planetaria, amore tra gli umani. Ma per poterli ascoltare dal vivo pretendono somme di denaro così pesanti che diventa quasi un delitto sottrarle a un ordinario bilancio familiare. La squadra è peraltro ben fornita: Springsteen, Gilmour, Stones, Metallica, Kiss, Iron Maiden, ultimamente anche Vasco Rossi… Insomma, se mai un giorno il pubblico si togliesse la maschera, che credibilità rimarrebbe agli dei contemporanei del palcoscenico?

u2«Di credibilità, questa gente ne ha pochissima. La retorica su quel che dovrebbe essere (la società, il mondo, io, tu, voi…) è e sempre rimarrà un lusso per le anime belle e col culo al caldo, ossia per tutti coloro che non devono sbarcare il lunario. Lo diceva ad esempio Jodorowsky e io non potrei trovarmi più d’accordo con lui. Quando il problema più assillante è “come ci arrivo a fine mese”, i predicozzi da rockstar – perlopiù banali e scontati come quelli del tutore voltaireiano Pangloss al suo discepolo Candido – lasciano sempre il tempo che trovano. I ricchi, qualsiasi sia la fonte della loro ricchezza, che si riscoprono socialisti hanno sempre il vecchio difetto di propinare al resto del mondo (che evidentemente, pensano loro, è pieno di coglioni ebeti che rispondono come automi a una sola psicologia: quella delle masse) tonnellate di pedagogia a buon mercato. Peccato. Le parole pungono sempre di più quando a sorreggerle c’è una visione dialettica del mondo. Il noi sappiamo, voi no, dove ogni “voi” non è altro che un’astrazione, porta ai predicozzi svampiti delle rockstar sul palco. Suonassero, che è meglio.»

Qual è la musica contemporanea più sincera al tempo della digitalizzazione selvaggia?devo

«Non ho mai fatto l’equazione strumento tradizionale = sincerità, elettronica = insincerità. Gli artisti vivono il proprio tempo, e ogni tempo ha i suoi modi e mezzi per creare arte. Quindi, e credo di non sbagliarmi, la musica, così come ogni altra forma d’arte, va contestualizzata sì, ma va sempre considerata un organismo unico, a dispetto dei diversi generi in cui fittiziamente si suddivide, degli strumenti utilizzati per crearla o, ancora, a dispetto del fatto che privilegi la melodia all’armonia, il questo al quello, il tutto alla parte, o qualsiasi altra cosa vi venga in mente a qualsiasi altra.»


3 risposte a "Rock e follia: la voce abrasiva di Massimo Padalino"

  1. Leggo e commento regolarmente il tuo blog da quasi 5 anni. In tutto questo tempo ti ho visto pubblicare tanti post – capolavoro, ma questa è senza dubbio una delle gemme più splendenti.

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