Che bizzarria. Nelle canzoni si può, sugli scaffali delle nostre librerie meglio di no. E, se proprio dev’essere, almeno che sia accompagnata da qualche stampella di supporto di segno uguale e contrario che non la faccia penetrare a fondo del lettore. La morte, la disperazione, il senso della perdita, il distacco dalla quotidiana vita sociale e quella privata. Le orecchie deviano il flusso fuori da sé, gli occhi lo incollano nell’animo.
Però ancora nulla possiamo contro la letteratura letteratura. Qualche titolo ci scappa ancora. Si distende sui bancali e aspetta. Noi lo prendiamo, lo annusiamo, ne leggiamo la prima pagina, andiamo alla cassa, lo portiamo a casa. E qui lo leggiamo. E ci perdiamo. Ci perdiamo dentro In tutto c’è stata bellezza, del prosatore e poeta Manuel Vilas, da Barbastro, terra aragonese. Romanzo no-fiction impariamo a definirlo, come il linguaggio semplificatore moderno impone, se si vuole fare bella figura con chiunque.
La morte. Quella dei genitori dello scrittore. Prima il padre, omaggiato con il nome di un compositore (Johann Sebastian Bach) e poi della madre (lei invece è Richard Wagner). Il giochino tocca anche altre presenze che entrano nei capitoli. La morte che respira in ogni pagina per la condanna alla perdita che impone. La morte che regala memoria. Che fa ritornare nelle vene di chi quel libro lo ha estratto da sé i gesti, i momenti, i giorni più ordinari.
Quelli che mancano ora veramente, il cui ricordo è la prova di una vita vissuta e la condanna a un decesso del presente. I momenti senza volto e senza nome, come quelli cui dà forma Lou Reed cantando Perfect Day. Tanti piccoli frammenti di assoluto che formano una bellezza di cui oggi ha bisogno come l’aria e l’acqua.
Il piccolo mondo del padre: i suoi pacchetti di sigarette; la mania di parcheggiare l’auto, la Seat 600, sempre all’ombra, e che in estate faceva fare delle levatacce quando si andava al mare perché dopo una certa ora l’ombra spariva; le partite a flipper. Il piccolo mondo della madre: l’ossessione a buttare via le cose del padre, l’avversione a finire nei contorni di una fotografia, la fissazione del ripostiglio. E poi la povertà, come il 95% della popolazione sotto il regime franchista, ma da loro affrontata con grazia.
La lettura procede febbrile e sinestetica. Ci consegna due fantasmi la cui incapacità di un autentico contatto fisico col figlio ne ha condizionato i gesti da adulto e le idee. Non ci si abbraccia, non ci si bacia perché non sta bene, perché i mondi restano in piedi e durano di più solo se non si scontrano, perché non c’è bisogno, perché neanche i loro genitori facevano così, perché non si fa e basta.
Non abbiamo la libertà di chiuderlo. Strizzare gli occhi sì, anche frizionarli con un dito. Ma poi si torna alle righe. Perché torna la morte. Ora tocca a quella degli oggetti. La scomparsa degli oggetti colpisce in modo uguale, perché è la sparizione della rispettosa materia con cui si stava componendo la nostra vita mentre la stavamo costruendo. Dentro ogni morte c’è una vita che conosciamo.
Oppure il silenzio. Se davvero esiste un’ars moriendi, quello dentro cui cadde il padre mentre la malattia era in pieno lavoro di prosciugamento del fisico fu la sua tela. Oppure no, il silenzio è stato sempre una sua compagnia discreta, che il male ha semplicemente liberato perché tutte le altre presenze sono mano a mano diventate aria.
Tutte le persone conosciute, frequentate, incrociate dai genitori sono ormai morte. Però c’è stato un tempo in cui il tempo si faceva anche grazie alle loro vite che si srotolavano in quello spazio. Per questo la perdita è una schifezza. Perché non è possibile più reclamare a sé quei pomeriggi infiniti degli anni Settanta? Perché ogni bellezza deve morire? Perché il biglietto non lo si può utilizzare anche per il ritorno?
E come sarà la morte dell’autore? Lui al momento l’ha allontanata chiudendo la bottiglia dell’alcol. Però i morti, mannaggia a loro, quelli non smettono di lavorare. I morti hanno la loro bella fortuna a pensarci. Loro perdurano, si trasformano ma proseguono. Vanno e vengono facendo cose diverse da quelle che erano soliti fare quando erano vivi. È un’attività frenetica la morte. Padre e madre glielo ripetono ogni santo e benedetto giorno. Vilas non sa come dirlo ai suoi due figli. O forse l’ha appena fatto.