Da ormai quasi cinquant’anni. E lui a dirigerla come un Riccardo Muti con l’armonica. La musica di schiavi, reietti e diseredati in Italia passa necessariamente attraverso la parabola di questo musicista, volto da felino sornione da cui il celeberrimo nom de plume di Puma di Lambrate.
Fabio Treves, classe 1949, milanese milanista, continua a portare il suo blues ovunque. Voce e polmoni che rinnovano le vene di un suono ultracentenario che non conosce frontiere e che per natura fa scappare mode del momento considerando fuffa tutto ciò che non capisce la ripetizione strutturale delle sue battute.
Il suo impegno per divulgarlo è profondo e continuo quanto la sua pervicacia a salire sul palco ed evocare dal nulla un mondo intero. Il numero di pubblicazioni e di trasmissioni radiofoniche si perde nel corso dei decenni. Così come i tour con la Treves Blues Band e le registrazioni. A suggerirci che “’sta musica ti cammina a fianco anche se non stai camminando su un marciapiede di New Orleans. Allunga la mano, attaccati e lasciati portare”.
Quando e come avvenne il fatidico incontro col blues?
«Ascoltando nella metà degli anni Sessanta i classici della tradizione afroamericana interpretati dalle prime band inglesi del Blues Revival come quelle di John Mayall, Alexis Korner, Cyril Davies, gli Yardbirds…»
In casa sua, attraverso suo papà Gaddo, circolavano anche molti dischi di fado. È d’accordo con il considerare questa musica popolare portoghese il blues mediterraneo se non proprio europeo?
«Ogni musica popolare parla di tematiche che si possono riscontrare in altre musiche lontane a livello di latitudine ma vicine come “affinità” interpretative. C’è il fado, ci sono le musiche che arrivano dall’Irlanda, la musica occitana, i canti dei cavatori di marmo… la storia del blues è ancora un libro aperto da scrivere o da riscrivere…»
Perché proprio la scelta dell’armonica?
«Perché è uno strumento piccolo di dimensioni ma grande come capacità di evocare mille stati d’animo presenti in ogni singola persona…»
Qual è la specificità di questo strumento nel blues?
«Vedi sopra…»
Se è vero che la giovinezza è la nostra terra perfetta, si dimentichi per un momento di essere stato giovane e guardi la cosa con distacco: più semplice per un ragazzo esprimersi con la musica durante gli anni ’60-’70 o questi sono tempi che, attraverso la rete e la sua facilità di “possedere” la conoscenza, aiutano i giovani musicisti più facilmente rispetto al passato?
«Qui il discorso è lungo… Credo che una volta “noi giovani” fossimo animati dal desiderio di conoscere altre parti del globo e musicalmente parlando eravamo attratti dai grandi songwriter, dalle band americane e dai gruppi più o meno famosi che con la diffusione della loro musica attraverso Radio Luxemburg si stavano imponendo per il loro modo nuovo di suonare, per le loro sonorità più aggressive, per i loro testi controcorrente rispetto alla musica commerciale di allora… Adesso è tutto più rapido e semplice, ma c’è meno “tensione” e voglia di conoscenza.»
Nonostante la sua natura popolare, questa musica, almeno in Italia, ha sempre faticato a guadagnarsi il suo spazio, soprattutto in televisione. Lei usa ogni mezzo e ogni energia possibile per divulgarlo nel nostro Paese, ma da noi è ancora una scelta piuttosto elitaria dedicarsi al blues. Intendo il puro blues, non quello “annacquato” nel rock. Quale il motivo di questa situazione: scarsa sensibilità nostra, difficile comunicazione di questa musica con la terra Regina della melodia, l’osticità della ripetizione sonora?
«È difficile battere certi luoghi comuni: il blues è energia eppure molti giornalisti pignoli e polverosi lo hanno sempre voluto relegare a musica noiosa e ripetitiva per pochi intimi… Ma non è affatto così. Il blues nasce tanti anni fa in un periodo preciso raccontando storie intrise di fatica, ingiustizia e dolore, ma si è poi evoluto nel tempo, narrando il riscatto sociale, il desiderio di cambiamento, affrontando i temi più disparati e comuni a tutti come l’amore, la solidarietà, il viaggio, l’amicizia e spesso ha raccontato la diversità, gli spiriti liberi, quelli che non vogliono assoggettare a logiche di potere. Basta pensare ai Blues Brothers…»
La Treves Blues Band va verso i 50 anni di vita. A distanza di mezzo secolo: cosa le regala oggi il palco?
«Feeling, empatia con il mio fedele pubblico che apprezza il mio lavoro e quello della band, voglia di raggiungere obiettivi con la fatica e il sacrificio, senza chiedere niente a nessuno. E constatare che tanti giovani si avvicinano sera dopo sera alla musica, fonte che ci trasmette ancora di più una rinnovata spinta emotiva.»
Come si diventa Fabio Treves?
«Con il lavoro, la gavetta, la passione e la voglia di non omologarsi mai!»
Spesso la politica e le istituzioni si dimenticano o sono addirittura indifferenti verso artisti che non frequentano i soliti salotti. Avrebbe mai immaginato di essere scelto per l’Ambrogino d’oro?
«Dopo tanti anni di lavoro sulla lunga strada del blues un po’ me lo aspettavo… Anche se purtroppo ormai questo riconoscimento ha perso un po’ di significato, basta vedere certe nomination di quest’anno…»
Possibile che la musica sia materia di scuola soltanto nei Conservatori?
«Purtroppo è così… Per fortuna negli anni sono nate belle realtà come le scuole di musica, gestite da musicisti seri e competenti.»
Che cosa si può fare per migliorare l’educazione musicale nel nostro Paese?
«Avere una classe dirigente attenta e intelligente che ama il proprio lavoro e il proprio paese, e da qui a cascata affrontare il discorso dei contenuti e delle offerte della TV pubblica. Purtroppo per quella privata si può far poco…»
Siamo arrivati a un punto in cui mi pare il rock si sia attorcigliato su se stesso e che abbia chiuso la sua parabola innovativa. Sconta, il rock, un deficit generazionale di cui il blues, per sua natura, non soffre?
«Il rock è stato un genere che ha segnato un’epoca, un cambiamento, ma che è anche stato fagocitato dal business, ovvio che qualcosa si sia ingarbugliato tra i meccanismi del sistema. Il blues non è mai stato di moda perché rappresenta e canta la vita, quella di cento anni fa, quella più recente e quella attuale, con i suoi momenti e i suoi mille stati d’animo… E forse non essere mai di moda l’ha salvato e l’ha reso eterno.»
Il trombettista jazz LeRoy Jones a proposito del blues disse: «Ognuno cantava un blues differente, e ne esistevano tanti. Erano i cantanti che determinavano come si dovesse cantare». Davvero esistono tanti tipi di blues quanti sono i cantanti che gli danno voce?
«È impossibile cercare di fare una conta, anche approssimativa… basta pensare all’America dove ogni stato ha stili e interpreti differenti tra loro, ma sempre e rigorosamente legati al blues dei primordi…»
Che cosa ne pensa della scena blues contemporanea?
«Ogni nazione ha i suoi interpreti e la qualità è davvero di prim’ordine.»
Dove oggi si scrive e si suona il blues più interessante?
«In ogni parte del mondo, da Memphis a Milano, da Londra a Vizzolo Predabissi…»
Il musicista con cui non ha mai suonato e che, avesse la possibilità di tornare indietro nel tempo, stalkerebbe pur di salirci insieme sul palco.
«Jimi Hendrix.»
Padre, Figlio e Spirito Santo del blues.
«Robert Johnson, Muddy Waters e Ben Harper.»
Il pezzo imprescindibile.
«Walkin’ Blues!»
L’album imprescindibile.
«Uno qualsiasi di B.B.KING.»
Fabio Treves: più Gianni Rivera o più Kakà?
«Gianni tutta la vita!»