Ennio Flaiano, la malinconia del satiro

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Ha ragione Marcello Veneziani. In Italia quando una frase è brillante o l’ha detta Leo Longanesi o l’ha detta Ennio Flaiano. Eppure, questo conterraneo di D’Annunzio, che all’eroica lirica del Vate preferì “la malinconia asciutta del satiro” (sempre Veneziani docet), ci raggiunge tutt’ora con una maschera che i più di noi non vogliono ancora levargli.

flaiano-coraggioFlaiano fu grande nonostante le sue battute, i calembour lessicali, i giochi di parole, gli anticlimax che mettevano alla berlina (alla gogna no, sarebbe inelegante per un raffinato conoscitore della lingua come lui) vizi e abitudini di un popolo (quello italiano) se non di un’umanità intera.

Nei caffè sui tavolini di via Veneto o piazza del Popolo a Roma, a scrivere su pezzetti di carta recuperati al momento, in attesa di un film o di una chiacchiera con l’altro suo sodale, Federico Fellini, Flaiano diede sì il meglio letterario di sé in testi come Diario Notturno o Diario degli errori più che nel, pur bellissimo, romanzo Tempo di uccidere (con cui vinse il premio Strega), ma quelle magnifiche righe contengono un humus che fa a pugni con le parole e quindi le frasi che le compongono.

Flaiano sapeva scrivere del sacro con uno sguardo micidialmente profano e una lingua20140426110349!Flaiano_Fellini_Ekberg_1960 grottesca. Nell’euforia del suo tempo post-guerra vide il disincanto, nell’effervescenza dei nuovi valori e dei moderni modi la malinconia del nostro sangue, nella voluttà dei sensi che si stavano liberando i vizi e le abitudini di un passato millenario.

Impermeabile a chiese e scuole, a Flaiano scivolò addosso tutto. Passò in mezzo a fascismo, antifascismo, democristianesimo, sindacalismo, hippismo senza farsi toccare da niente. Ogni giorno per la strada lui vedeva l’italiano e lo sentiva ruffiano, menzognero, equilibrista sul filo della tragedia, paradossale, infantile, superbo nell’individuare lo stupore quotidiano della vita, creativo all’inverosimile nel suggestionare il nulla trasformandolo in arte.

Il suo Un marziano a Roma resta la quintessenza della romanità millenaria popolana e popolare (e, traslato, dell’Italia intera). Una città che ne ha viste di ogni genere tra papi, re, invasori, civilizzatori, avventurieri e sublimi artisti guarda con curiosità l’arrivo di un marziano, ma dopo qualche tempo lo ha ormai già assimilato così tanto che quando lo vede passeggiare lo raggiunge con una pernacchia.

flaiano-leccareFlaiano arriva dove vuole grazie all’amarezza che gli fa da benzina. Senza quella avremmo avuto un umorista, fine quanto si vuole, ma eccellente solo nelle pagine delle settimane enigmistiche. Fu per una vita scettico, se non quando addirittura pessimista, amaro nel cazzeggio dell’osservare la realtà. L’amarezza gli concede l’arma di metterci a nudo e regalarci quelle frasi che il tempo ha ormai consacrato al vertice dell’epica. Questa il tratto che lo fa interrogare mentre, siamo agli inizi degli anni ’60, camminando per Roma, vede passare il bus 92. È un attimo pensare: chissà come sarà il 1992, chissà come sarò io nel 1992. Ma che noia arrivare al 1992!

Non ci sarebbe arrivato. Avrebbe avuto uno sconto di vent’anni sulla noia.

 

 


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