Ha segnato profondamente la didattica del canto. Di lui il celebre critico Massimo Mila scrisse che con le sue lezioni aveva trasformato il Conservatorio di Torino in una longa manus di quello di Vienna. Prima, come baritono, fu il primo cantante italiano a dedicarsi ai livelli più alti al concertismo liederistico, poi decise di dedicare la sua vita all’insegnamento di ogni sfaccettatura del canto, dall’opera all’oratorio, ovviamente sempre con il Lied in pole position. Tenne corsi in università e scuole di ogni angolo del mondo.
Elio Battaglia, che oggi di tanto in tanto si diletta con qualche lezione privata, è ovunque preceduto dalla sua fama. La casa editrice Analogon, capitanata dal figlio Erik e dalla soprano Valentina Valente, ha da poco pubblicato Elio Battaglia, scritti sul canto, un magnifico volume che raccoglie la didattica del Maestro e impreziosito da interventi giornalistici e saggi sull’universo del canto, deliziosi nel profilo della divulgazione e potenti (e spesso lontani dal politically correct) nell’espressione.
Proprio in occasione dell’uscita del volume, a voi la conversazione con Erik Battaglia intorno a suo padre.
Quale baritono, quali furono i punti di forza di suo papà sul palco?
«Mio padre è stato soprattutto un cantante di Lieder e da concerto. Uno dei primi in Italia a dedicarsi con costanza e professionalità tedesche, ma animo italiano, al Lied, forte anche dell’appoggio del suo maestro, il grande accompagnatore austriaco Erik Werba. A mio padre si devono i primi concerti in Italia dedicati ad autori come Hugo Wolf, Max Reger, Hans Pfitzner. Ma anche il repertorio ottocentesco e opere da concerto come l’Ode a Napoleone e Il Sopravvissuto di Varsavia di Schönberg, che non erano proprio il pane quotidiano dei cantanti italiani a quell’epoca.»
E come insegnante, quale l’eredità lasciata?
«Non voglio qui elencare i nomi di tutti i suoi allievi che hanno fatto carriera. Mi interessa di più ricordare il suo approccio nuovo all’insegnamento del canto, una visione culturale della parola cantata, il canto come mezzo espressivo di parole e non come esibizione di luoghi comuni espressivi e sentimentali vagamente legati alla parola stessa.»
Nel volume Elio Battaglia non si sottrae ad attribuire i più grandi riconoscimenti a Maria Callas. Un’autentica ammirazione verso la soprano greca, la cui parabola viene quasi descritta come una chiamata divina, tanto da parlare di un pre-Callas e un post-Callas. Proprio per la sua unicità, un modello del genere può essere replicato da nuove generazioni di cantanti?
«Che la Callas debba essere ancora un modello credo sia fuori discussione. Ciò non vuol dire però che possa essere replicato. A parte l’irripetibilità stessa dell’artista, non vi sono più neppure le condizioni socio-culturali perché un tale fenomeno si ripeta. Ma la Callas, così come Dietrich Fischer-Dieskau, resta un modello per tutti i musicisti, e non solo i cantanti, per la precisione emotiva del fraseggio, la varietà espressiva dei registri, la precisione con cui il ritmo della musica si impadronisce di quello della parola, trasformandola in qualcosa di nuovo: la parola cantata, appunto.»
Sostenne anche che la Callas aveva una voce somma per i Lieder che, quando ancora viveva in Grecia, eseguiva perfettamente. Soprattutto quelli scritti da Schubert e Brahms. Perché, una volta in Italia, fu rapita totalmente dal teatro d’opera?
«Sì, possiamo immaginarcela come interprete ideale di Amore e vita di donna di Schumann, o dei grandi Lieder femminili di Wolf. Ma un’interprete coscienziosa e perfezionista come lei aveva bisogno di padroneggiare la lingua che cantava in tutte le possibili sfumature di suono e significati e non le fu possibile farlo con la lingua tedesca.»
Lied e melodramma. Cosa, per suo padre, una voce cameristica e una operistica hanno in comune e quando il loro cammino invece inizia a procedere per sentieri diversi?
«Secondo lui c’era ben poca differenza tra il modo di approcciare l’uno e l’altra. Dopotutto, si tratta sempre e comunque di parole e versi poetici o drammatici che assurgono a frasi musicali. Naturalmente l’opera richiede una maggiore capacità di trasformare sentimenti ed emozioni in sentimenti ed emozioni pubblichi, mentre il Lied si riserva di mantenerli più privati, anche se in fin dei conti il canto è sempre diretto a un pubblico. Ma i grandi cantanti del Novecento, e molti cantanti d’oggi, dimostrano che non esiste una specificità liederistica od operistica quanto al volume o alla prestanza della voce. Certi Lieder di Strauss o Wolf metterebbero a dura prova anche un cantante wagneriano. E certe arie di Verdi o certi passi dello stesso Wagner richiedono una sensibilità del tutto liederistica.»
Quanto di attoriale ci deve essere in chi canta un Lied?
«Molto, e molto poco. Un cantante di Lieder deve incarnare in sé la vis drammatica e poetica di un attore di teatro e di un cantante d’opera. Ma poi gli è dato comunicarla solo tramite gli occhi e la voce. I movimenti eccessivi, soprattutto se eseguiti “in battere”, ovvero come commento del corpo alle parole pronunciate, sono controproducenti e convenzionali. Piuttosto, è bello quando viso e postura del cantante reagiscono in qualche modo sottile ed elegante alla vita armonica e ritmica della parte pianistica.»
A un certo punto suo papà afferma che proprio la Callas, perfetta nel rispetto per la lettura del segno musicale e metrico e inarrivabile nella ricreazione del mondo e del tempo che vivono dentro la partitura e il libretto, non fu un esempio di belcantismo. Perché?
«Mio padre riteneva che il termine fosse usato a sproposito, per definire una forma di canto avulso dalle complessità del sentire umano, che invece trovano espressione anche nelle opere più apparentemente elegiache e “cantabili”. In Bellini, ad esempio, c’è un mondo di emotività dura e contorta, quella greco-siciliana per intenderci, e la Callas ne era per questo motivo l’interprete ideale. Se tutto si riduce a un’esibizione di pura bellezza di bei suoni e bei sentimenti, molto va perduto. Pochi usano il termine “belcanto” con riferimento alla sua radice cinquecentesca, quando aveva un senso di raffinamento tecnico-espressivo dell’arte vocale. Oggi, secondo mio padre, sarebbe più opportuno usare il termine “buon canto”, che non esclude la possibilità di esprimere anche le brutture del mondo, come nell’opera espressionista.»
Il Maestro ha conosciuto vizi e virtù del cantante italiano. Dei primi, quali gli risultavano più insopportabili?
«Se per “cantante italiano” intendiamo quello che ne incarna i vizi, allora essi sono facili da elencare: poco rigore negli studi, con il carro delle grandi arie messo davanti ai buoi dei buoni metodi, dei Lieder, del madrigale, delle canzoni; poca dimestichezza con le lingue, parlate e cantate; poca disponibilità a mettere il canto in un sistema culturale di ampio raggio; convenzionalità nel gusto e nei gesti, anche quelli vocali. Ma questa categoria è solo una parte della totalità di giovani cantanti italiani, che sempre più cercano di far prevalere una visione più europea della loro professione.»
Un tema molto in voga oggi è dato dal grado di manovra che un esecutore può o meno permettersi davanti alla partitura del compositore. Suo papà è talmente deciso a rifiutare certe abitudini di libertà se non addirittura di improvvisazione dell’esecutore da citare un passo di Pollini: un musicista deve riuscire a trasmettere il significato che un pezzo musicale aveva al momento della sua scrittura nella sua totalità. Se, eseguendo Beethoven o Chopin, ci si trova a dover eseguire un accordo dissonante il buon musicista deve riuscire a renderne il grado di drammaticità tecnica che aveva al tempo, anche se tale drammaticità oggi è fortemente venuta meno. Mi chiedo come ciò possa avvenire con la voce.
«Io credo che vada mantenuto l’elemento di sorpresa e di volontà di sorprendere che guidava il compositore in rapporto al materiale del suo tempo. Grandi intervalli nella linea melodica, incursioni nel registro di petto, lunghi vocalizzi, sprezzature: tutto ciò mantiene ancora oggi il suo dato dirompente, se l’interprete lo sa cogliere. E pubblico davvero disincantato, pronto a capire l’invecchiamento di certi effetti, ce n’è davvero poco. Basti pensare al successo del minimalismo, dove un qualsiasi accordo già scontato ai tempi di Haydn viene preso per ardito, quando per un’ora si è ripetuto sole-amore-cuore o do-mi-sol.»
Nei vari passaggi e capitoli non mancano i giudizi dei grandi compositori sui cantanti. Uno è particolarmente curioso, quello di Richard Wagner sulla Wilhelmine Schröder-Devrient, al tempo tra le più osannate soprano: non aveva affatto voce, ma trattava così bene il respiro da permettere il realizzarsi di una tanto meravigliosa personalità femminile da far dimenticare agli ascoltatori l’assenza di voce. Va bene che i Maestri spesso sono oscuri e criptici, ma se è in grado di spiegarla ha tutto lo spazio per farlo.
«Nel bene e nel male, è difficile commentare cose che non abbiamo mai sentito. A volte penso che raccontare un concerto sia come raccontare un incidente mancato: noi sappiamo quello che è successo, ma gli altri colgono solo la nostra emozione nel raccontarlo. Figuriamoci cantanti morti un secolo e mezzo fa. Io credo che questi commenti di Wagner, così come di Verdi, su cantanti “senza voce” volessero soprattutto porre l’accento su tutto il resto, su quello che sapevano fare a prescindere dalla voce, che magari sarà stata solo una voce “normale”. Il compositore si sente rappresentato da chi riporta in vita le nuance espressive su cui lui ha lavorato tanto, non solo da una grande voce, anche se certo quella è spesso necessaria per Wagner, se a dirigere non è sempre Karajan.»
Per anni ci siamo sentiti ripetere che quel tenore è una voce pucciniana, mentre quella soprano è una voce mozartiana. Elio Battaglia ci dice invece che non esistono voci connotabili, ma soltanto cantanti, che possono essere riconosciuti pucciniani o mozartiani. Qual è la sottile differenza?
«Sì, anch’io credo siano etichette riduttive, a meno che non si parli di una precisa predilezione di un cantante per un certo autore. Ma spesso un passo di Puccini richiede una grazia mozartiana, e talvolta in Mozart è necessario esprimersi con la modernità di autori del secolo successivo, bisogna essere avvezzi a tutti gli stili, almeno in fase di studio. Fischer-Dieskau diceva che la miglior critica ricevuta era quella, intesa come negativa, di chi gli addebitava di aver cantato un’aria di Verdi come un Lied di Schubert. È proprio quello che volevo fare, diceva il grande baritono. E lui era stato preso per il ruolo del Marchese di Posa dopo aver cantato in audizione proprio un Lied di Schubert.»
Quando si tratta di dare un proprio giudizio sulla professione di insegnante di canto, suo padre versa sulle pagine un bel po’ di acido cloridrico. Non lesina a parlare di imbroglioni e cialtroni e la sua suddivisione in punti degli interpreti di questa professione ci mette davanti a una realtà che non credevamo potesse esistere in un universo così serio come quello della musica classica.
«Sì, mio padre era ed è molto critico sulla maggior parte dei suoi “colleghi”, non su tutti, intendiamoci. È difficile del resto definire quali debbano essere le virtù di un insegnante di canto. Non può essere un didatta avulso dall’attività concertistica o operistica, perché non saprebbe trasmettere il dato “fisico” e psicologico della vocalità vera e propria, quindi foniatri e giornalisti o cantanti mancati sono difficilmente bravi insegnanti. D’altra parte anche i cantanti di carriera e persino i grandi cantanti non è detto che sappiano uscire da se stessi quel tanto che basta per entrare in empatia con la specificità dell’allievo. Insegnare il canto, e forse la musica in generale, è un talento raro, e non tutti quelli che lo fanno possiedono quel talento, come in ogni altra professione. Lo studente dovrebbe acquisire a sua volta la capacità critica e autocritica che impedisca di farsi rovinare, come spesso sentiamo dire fuori tempo massimo da chi ha ormai buttato via gli anni migliori per lo studio.»
In un’intervista suo papà afferma che se in sede di audizione il candidato porta un’aria di Mozart l’esaminatore ha il diritto di avere qualche perplessità se non pregiudizio. Quale segreto tecnico legittima questa predisposizione?
«Credo che piuttosto mio padre intendesse dire che sono certi esaminatori ad avere un assurdo pregiudizio quando il cantante porta Mozart a un’audizione. A rigore, e mio padre la pensa così, chi ha questo gusto e coraggio, e canta bene il suo Mozart, dovrebbe ricevere un orecchio di riguardo. Si potrebbe dire lo stesso per un pianista che suoni bene una Sonata di Mozart o l’Op. 90 di Beethoven.»
Il Maestro entra anche nel mondo della musica pop, definendo pop tutto ciò che non è musica classica. Afferma di apprezzare molto Frank Sinatra e Barbra Streisand, con tanto inquadramento tecnico delle rispettive capacità vocali. Significa che in natura non esiste musica alta e musica bassa, ma solo musica buona e musica cattiva?
«Quelli sono stati maestri dell’interpretazione vocale. Anche in loro, come nella Callas o in Fischer-Dieskau, la parola si fa musica senza alcun artificio, sentiamo continuamente fluire il senso verbale delle parole nel valore aggiunto della melodia che le accompagna a noi. La Streisand, poi, aveva un’intonazione quasi sovrumana, come ebbe a notare Glenn Gould. In lei sentiamo davvero la distinzione tra un do diesis e un re bemolle.»
Da anni lei è impegnato anche a far crescere Analogon, la casa editrice che ha fondato e guida insieme a Valentina Valente, soprano ancor prima che donna d’affari e cultura. Una curiosità: suo papà ha mai espresso un giudizio sulla voce di colei che è stata la prima Lulù italiana?
«Mio papà è stato l’insegnante di Valentina. Lei, con il suo canto e la sua arte, porta avanti anche un po’ le idee sulla voce di papà, oltre che le proprie. E la casa editrice porta avanti una certa idea di cultura, dove anche la voce e il canto sono simboli o analogie di concetti ed emozioni, non vuote etichette e sovrastrutture fasulle.»