Questo libro è un autentico romanzo. Mettendo le mani sulla celebre definizione simenoniana, questo è un vero roman-roman. Ma non lo troverete negli scaffali della narrativa. Se avete ancora la virtù di acquistare libri in libreria dovrete dirigervi verso la critica letteraria o quella politica. Lo ha scritto Marcello Veneziani, si intitola Imperdonabili e reca come sottotitolo Cento ritratti di maestri sconvenienti (Marsilio, 512 pagg., 20 euro).
Cento ritratti (più un confetto finale) di uomini e donne che hanno segnato il proprio tempo con l’irregolarità del pensiero, lanciando lo sguardo della mente oltre le miserie del presente, attingendo al sacro o al mito, vivendo spesso una vita ai margini del campo, non smettendo di coltivare radici e restando indifferenti al comando che le voleva foriere di erbacce malsane. Giganti del pensiero, padri e madri di idee che hanno scosso il Novecento, cervelli pericolosi, spiriti inquieti, sismografi della ragione. E il catalogo non chiude qua.
Il fatto che l’architrave del volume sia quella del saggio poco importa. Le voci dei narrati e il respiro del narratore s’inseguono, s’incontrano, s’intrecciano, si danno appuntamento qualche pagina più tardi. Quasi fossero eteronimi del narratore stesso che, dal suo personale “baule di gente”, li estrae di volta in volta per comporre la sua polifonia dannata e poetica. Il filo del racconto è teso e alto. Ci troviamo, da lettori, immersi in pagine che prendono il passo di cavalcate rossiniane per poi essere sbattuti dentro liriche bagatelle beethoveniane che ci bussano al cuore.
Veneziani, di professione pensatore libero, è un pilota della scrittura. C’è in essa tanto l’alta velocità dei padri che, nel corso del secolo passato, inventarono suoni nuovi per dire cose nuove, quanto il pineto d’annunziano, luogo in cui gli animi si placano, ma non si nascondono. In un’epoca che tutto compra e disprezza, se l’imbragatura del conformismo moderno ci permette ancora un minimo di autonomia di movimento, noi una testa (e una penna) così ce la teniamo stretta.
Considera Dante Alighieri il vero fondatore dell’Italia. È affascinato dalle sue profezie letterarie in grado di spiegare numerosi capitoli tanto del Novecento quanto dei giorni attuali di questa Europa. Come spiega allora l’offesa di un accanito insegnamento da olio di ricino a intere generazioni di studenti italiani?
«Sì, l’Italia l’ha fatta Dante più di Garibaldi. Nel ritratto di Dante scrivo di quella grave colpa della scuola italiana, d’aver trasformato una lettura divina in un piccolo inferno di banalità, noia, costrizione. Ma è il rischio che corrono i grandi, quando diventano orizzonte comune, fondamento di civiltà; essere volgarizzati nel modo peggiore.»
Nel ritratto di Giacomo Leopardi sottolinea quanto la sofferenza subita dalla sua estetica e il disagio di sentirsi rifiutato furono voci che lo aiutarono a “guardare in faccia la verità della vita e del mondo”. La misère provoque le genie avrebbero teorizzato qualche secolo più tardi i francesi. Per carità, blasfemo asciugare Leopardi fino a farlo diventare slogan, ma quanto in quel concetto c’è del grande poeta?
«Purtroppo c’è qualcosa di più di un granello di verità. Se Leopardi non avesse avuto quelle malformazioni, se non fosse stato respinto e allontanato dalle donne, se avesse avuto quella felicità che non ha goduto, la sua vita sarebbe stata più ricca ma la sua poesia sarebbe stata più povera. Perché la disperazione, la solitudine, il dolore sono purtroppo le serre dei capolavori, i terreni fertili della grandezza. Ne era consapevole lo stesso Leopardi.»
Da Fëdor Dostoevskij invece uno degli interrogativi mai archiviati nel corso del tempo: di regola, l’uomo è portato a non uccidere perché l’omicidio è un gesto moralmente riprovevole o perché ha timore di essere scoperto?
«La motivazione di essere scoperto, visto e giudicato anche da un’entità invisibile è sicuramente la dissuasione più forte, molto più forte della ripugnanza morale. Questo abbassa ulteriormente il genere umano ma innalza il bisogno di Dio, della legge, della sanzione, dell’autorità, anche nel senso del timore.»
Le pagine più sorprendenti sono quelle dedicate a Karl Marx, inserito tra i giganti del pensiero in un capitolo intitolato “Fallito a Est trionfa a Occidente”. In pratica, viviamo in piena epoca marxista e il filosofo tedesco è la vera chiave per spiegare la modernità. Io lo ritenevo morto e sepolto, le sue righe suggeriscono invece che oggi, se gli sottraiamo il conformismo della pubblicistica egemone, resta uno straordinario strumento che parla al singolo e non alla massa. Ma Marx e il comunismo non dovevano avere un destino inscindibile?
«Sostengo che il marxismo separato dal comunismo sia oggi vivo e vigente nell’Occidente. Fallita e perduta la profezia comunista, dissolta l’utopia escatologica e rivoluzionaria, ci è rimasto il nocciolo del marxismo: il primato dell’economia e della prassi, l’ateismo e il soggettivismo, il materialismo in versione post-storica, la guerra alla natura e alla tradizione, l’abolizione della famiglia, della patria, della realtà, l’internazionalismo… E potrei continuare.»
Il capitolo dedicato a Giovanni Gentile insiste sul suo assassinio. Il filosofo, padre della storica riforma della pubblica istruzione, “non fu ucciso per il suo passato, ma per quel che avrebbe potuto rappresentare nell’avvenire”. Gli spari vennero poi “perfezionati” dalla denigrazione postuma e dalla rimozione della memoria. Un’autentica prova generale del sistema, che lei definisce ideologico-mafioso, su cui si sarebbe fondata la storia degli ammessi e degli esclusi nella cultura e nei posti di potere del nostro Paese. Fu quindi il suo assassinio il primo stampo della futura Italia repubblicana?
«Sì, fu il suo peccato originale perché nell’assassinio di Gentile ci sono tutti gli elementi infami dell’egemonia culturale che ne seguì: la negazione della verità, il voltafaccia degli intellettuali – ieri fascisti e gentiliani e poi antifascisti e in gran parte marxisti – il rifiuto del filosofo che pensò l’Italia e cercò di superare i suoi conflitti, il sorgere di una setta di intellettuali organici legati e dipendenti dall’Intellettuale Collettivo, cioè il Partito, l’uso della cultura per conquistare il potere. Prove generali di egemonia.»
Un ruolo importante nella sua formazione intellettuale lo ha giocato un pensatore che per decenni è stato considerato, tanto negli ambienti della sinistra radicale, quanto negli eleganti salotti riformisti, il vero fiore del male dell’universo Destra: Julius Evola. Ho ricordo di quanto, negli anni ’70 e ’80, questo filosofo fosse fonte di una vera ossessione per il mondo comunista, che lo riteneva responsabile teorico di ogni nefandezza postfascista. Lei si spiega perché la sinistra ha avuto tanta paura di Evola?
«Sulle spalle di Evola si è scaricato il capitolo infame del razzismo italiano, non considerando che razzisti furono in tanti, anche tra coloro che poi passarono dall’altra parte; e non considerando che il razzismo di Evola pretendeva di essere spirituale e non biologico, lontano da ogni soluzione finale. Ma Evola, oltre a questo elemento discriminante, è anche autore aristocratico, spiritualista, antimoderno, non incline a rifugiarsi in mondi remoti ma disposto a dare chiavi polemiche e culturali per affrontare il presente. Da qui la sua imperdonabilità assoluta, rispetto a tanti imperdonabili più sopportabili.»
Nel ritratto di D’Annunzio parla di semi-rivoluzione di Mussolini. Il prefisso si giustifica perché, a differenza di Lenin che aveva “ucciso il padre”, il capo del fascismo non aveva assassinato la democrazia limitandosi, come disse Montanelli, a farne da becchino?
«Perché tecnicamente e politicamente il fascismo non fu una rivoluzione. Non lo fu la marcia su Roma, che fu una via di mezzo tra una rivoluzione e un compromesso con le istituzioni, e non lo fu il regime perché il suo avvento non abbatté la monarchia, la chiesa, il capitale. Il fascismo lasciò spazi di libertà che i regimi totalitari più compiuti non tollerarono. Anche le vittime del regime fascista furono poche decine in vent’anni, marcia su Roma inclusa. Incomparabili rispetto a quel che furono i regimi totalitari.»
Arcifascista e antifascista: ci voleva uno con il fisico bestiale di Curzio Malaparte per diventare un bis in idem e continuare a essere preso sul serio?
«Malaparte fu fascista e antifascista fino in fondo, e tutto sommato non fu un voltagabbana per interesse, finì in carcere, perse posizioni di potere e di prestigio; ma la sua incontinenza, la sua esuberanza, la sua vanità lo rendevano un cultore di se stesso e non del fascismo o dell’antifascismo.»
Lei cita pure i casi di Giuseppe Rensi ed Ernst Jünger. Più in generale, com’è possibile abbracciare gli estremi senza mai voltare la gabbana e non perdere in coerenza?
«Di Rensi o di Jünger si possono registrare i passaggi ma non c’è mai stato il movente della convenienza. Rensi fu sempre dalla parte del torto, fu socialista nei tempi in cui era difficile esserlo, fu vicino al fascismo prima che andasse al potere, fu antifascista durante il regime. E Jünger mantenne la schiena diritta in guerra e poi nei dopoguerra, sotto il nazismo e sotto i vincitori. Non si piegò, le sue oscillazioni nascevano da un pensiero che voleva attraversare la linea del nichilismo, cimentarsi con la modernità, saltare sul fuoco. Alla fine Jünger restò un nietzscheano magico, un individualista eroico e insieme un esteta che sperimentava vie ardite, in guerra ma anche in pace.»
Longanesi e Flaiano: bisogna avere il tocco della leggerezza per accorgersi di quanto è evidente il grottesco che, noi uomini e donne comuni, ci portiamo addosso nel nostro vivere quotidiano?
«Longanesi e Flaiano, a loro volta diversi nel loro disincanto, volsero l’amarezza e la sfiducia in satira e ironia. Colsero il lato grottesco della vita, con la differenza che Longanesi cercò, pur nel suo disincanto, di suscitare idee, movimenti, riviste; Flaiano restò invece uno spettatore che passò indenne da tutte le esperienze storiche salienti in cui si trovò a vivere. Se il primo fu un conservatore effervescente, il secondo fu un satiro solitario, per parafrasare un suo libro.»
Oriana Fallaci impostò un’intera vita a dimostrare che la virilità non è un concetto legato necessariamente alla sessualità. Ci riuscì?
«Be’, nel suo profilo riconosco di ammirare la sua virilità… Anzi, credo che la qualità più forte della Fallaci sia stata proprio quella di reagire con forza, di incitare a non disarmare, non rassegnarsi, risvegliare il senso di appartenenza a una civiltà. Non amo la Fallaci, non riesco a scindere nella sua opera i suoi scritti e le sue idee precedenti, e non mi piace il suo bellicismo anti-islamico che funziona come genere letterario ma che sarebbe una sciagura se si applicasse in politica. Però, vivaddio, la forza della sua prosa e il coraggio del suo messaggio le fanno meritare l’appellativo di imperdonabile.»
Perché Simone Weil scelse l’auto-annientamento per poter vedere con più luce il mondo?
«Simone Weil cercò la grazia nell’annientamento di sé, come accadde ai mistici; ma in lei questa passione mistica transitò da un pensiero ardente e sfiorò lo gnosticismo. Ma restano densissime le sue riflessioni spirituali, la sua attesa della grazia, la sua rinuncia al mondo e insieme la sua totale dedizione alle cause del mondo. Una figura eccezionale in cui la fragilità di un corpo schiudeva alla potenza metafisica del suo pensiero.»
Un ritornello da sinistra di nuovo in voga a pochi passi dalle elezioni nazionali suona: “Achtung compagni, stanno tornando i barbari!”. Lo aveva teorizzato anche Bobbio, come lei sottolinea nel libro. A destra invece, storicamente l’elettore di sinistra viene considerato altezzoso, snob, sprezzante. A dar ascolto al campanile la sintesi dello scontro tra destra e sinistra sembrerebbe la seguente: una battaglia tra barbari e puzzoni. È davvero così?
«Se il discorso viene applicato ai partiti, agli elettori, alle masse, allora le definizioni di barbari e puzzoni sono perfino lievi e non distinguono due schieramenti perché sono trasversali. Se si riferisce a una visione del mondo di tipo tradizionale, credo che sia esattamente il contrario: ciò che distingue un pensiero “di destra” è la difesa della civiltà contro i barbari. Ordine, bellezza, cultura, contro disordine, bruttezza, spontaneità, primato morale contro il primato dei desideri, senso della misura contro sconfinamento.»
Inserisce Umberto Eco nella categoria “Maestri veri e controversi”, ne riconosce il profilo di intellettuale e di ideologo, ma gli nega la patente di pensatore. Può essere che in piena ubriacatura del pensiero debole postmoderno il suo maggior contributo fu quello di aver sdoganato il pop nei salotti che contano anticipando in qualche modo Andy Warhol?
«Eco fu una formidabile intelligenza arricchita da una vasta erudizione e da una sagace ironia; ma non ha la statura di un pensatore, non ha lasciato opere grandi ma romanzi di successo, è stato settario e ideologico fino alla cecità intellettuale. Ha compiuto il disegno gramsciano di portare l’illuminismo alle masse, o se vogliamo, il percorso inverso; ma il risultato finale di questo suo progetto è stato fallimentare. Alla fine ha trionfato la sconfitta del pensiero, la società emozionale, i lumi sono stati usati solo per accendere gli smartphone, la testa ha ceduto al dito, la mente ha ceduto al fare digitale.»
Colgo due fatti che lei stesso cita per un interrogativo: Mussolini permise a Gramsci in carcere di ricevere giornali e libri per informarsi e coltivarsi, carta e penna per scrivere i suoi Quaderni e non arrivò mai ad architettare una cosa come l’esposizione al pubblico ludibrio di un poeta chiuso in una gabbia. Permesso e assenza da leggere alla luce della sua natura di arcitaliano accomodante e pieno di buona volontà come lo appellavano Malaparte e Flaiano?
«Non solo. C’era in Mussolini un residuo rispetto per la forza delle idee e per coloro che erano detenuti per ragioni ideologiche, come era capitato anche a lui quando era “sovversivo”. Mussolini non era Stalin né Mao, non sterminò i nemici e i dissidenti, non li lasciò parlare – salvo alcuni – alcuni li mandò al confino, ma non li soppresse né li chiuse per sempre in carcere. Su Gramsci è noto che cercò una soluzione politica con Mosca, ma non trovò sponde…»
Assodato che la sua aspirazione di trovare T.S. Eliot padre spirituale dell’Europa è romantica utopia, quale pensatore gli sta usurpando il titolo nell’Europa del presente?
«Non penso che Eliot sia il padre spirituale dell’Europa, ma è certamente un poeta che amò la tradizione europea, difese la sua civiltà e ne cantò la vita. Oggi l’Europa non ha padri spirituali riconosciuti; quelli che potrebbero essere richiamati dal passato (e alcuni sono tra gli imperdonabili) sono rimossi, dimenticati o addirittura considerati come nemici dell’Europa.»
Nell’esposizione della figura di Alain de Benoist si percepisce un suo forte pessimismo sulla possibile attaccabilità della visione tecnocratica dell’Europa. Significa che l’impianto oligarchico/finanziario come primo motore dell’UE è ormai un dogma di cui dovremmo accettare l’ineluttabilità nei secoli dei secoli?
«Rifiuto di accettare l’ineluttabilità di quell’impianto solo che realisticamente vedo quanto sia difficile rovesciarlo. La costruzione di Macron, dopo la Brexit, e la vittoria di Trump, sono la dimostrazione che la macchina dell’establishment, il suo potere, resta più forte del populismo e dei tentativi di restituire sovranità alla politica e alla cultura, oltre che ai popoli e alle nazioni.»
Se la ritiene una sciocchezza chiedo venia in anticipo. Ho provato a individuare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che hanno scritto il suo personale e intimo Grande Libro. Sono giunto alla presente conclusione: Dante, Leopardi, Evola. In verità mi giocherei anche una carta di riserva: Nietzsche, con Leopardi, l’altro inarrivabile scrutatore degli abissi. Ci ho preso?
«Bella tesi e bella immagine, ma non riesco a ridurre a una trinità gli imperdonabili. Lei ne ha citati tre, quattro, per me fondamentali, in misura diversa, ma mentre leggevo quei nomi altri decisivi mi sovvenivano. Per non dire di alcuni classici che non sono tra gli imperdonabili (uno per tutti, Plotino). Non riesco a fare una scelta, dovrei dirne il triplo e non essere ancora soddisfatto.»
Nella stesura del volume, non si è sentito un po’ Pessoa alle prese con una valigia piena di eteronimi? Anche queste pagine sono piene di incontri metafisici sensoriali.
«Sì, parlando di autori così diversi, poeti e filosofi, scrittori e giornalisti, mi sono sentito di volta in volta proiettato in altre sembianze, in altri linguaggi, ho vissuto questo viaggio come una metamorfosi, una mutazione. Ma sono le stagioni di una vita, le poligonie della mente, gli stati molteplici dell’essere.»
Eccone un esempio. Esaurite le frecce, stanno terminando le pagine. Il lettore pensa che ormai l’arco sia deposto. C’è solo lo spazio per aprire uno scrigno più piccolo, quello della sua gratitudine personale verso uomini, e una donna, che hanno incrociato la sua strada. Il racconto su Alfredo Cattabiani, figura in direzione ostinata e contraria sconosciuta ai più, è di un impatto spirituale molto deciso.
«Il nome di Cattabiani, in realtà, risuonava anche in molti profili, perché lui è stato l’editore e in certi casi lo scopritore di alcuni autori che compongono questo rosario di perle. Ma nella spoon river il suo ruolo rispetto alla mia vita intellettuale e spirituale non è più importante di quello assunto dagli altri che cito, in quel viaggio tra fratelli maggiori che ho conosciuto e magari frequentato.»
Le sue cinquecento e passa pagine possono essere lette anche come dichiarazione d’amore verso il libro. E, per lei, il libro poggia sulla carta. Il poderoso attacco del battaglione digitale al momento non riesce a metterla ancora in soffitta. Quasi poetica la pervicacia con cui la carta non ne vuole sentire di morire, non trova?
«Sì, quest’opera è un inno al libro, alla cultura umanistica ma anche alla concretezza fisica del libro, al suo aspetto di carta e scrittura, all’incontro erotico, sensuale, oltre che tattile, con le pagine, l’esultanza per la carta che canta. E mi auguro che questa battaglia, in apparenza disperata, in sua difesa, nel tempo della sua vistosa ritirata, riservi sorprese. In fondo la sorpresa è la speranza in versione sportiva e la sua attesa è la metafisica sotto falso nome…»