Una vita da burattinaio di parole. Nelle strade blu della canzone, lungo il respiro di una storia consegnata a un libro, dentro il perimetro di un palco di teatro. Luca Bonaffini, figlio di terra mantovana, classe 1962, è stato per anni l’ombra di luce di Pierangelo Bertoli, accompagnandolo nella stesura delle canzoni, sostituendosi come autore e prendendo posto alla destra del padre quando c’era da portare la musica dal vivo alla gente.
Artisti come Concato, Ruggeri, Lolli, Oreglio, Bulgari (e il catalogo non chiude qui) hanno registrato le sue microstorie sonore e lui stesso si è concesso qualcosa come una decina di album da portare su e giù per la penisola.
Oggi è fuori per i tipi di Gilgamesh con Eterni secondi, un romanzo composto da tre racconti lunghi che, attraverso altrettante storie di protagonisti goffi e fragili, fuori da ogni confine del buon senso ma ugualmente portatori di un romanticismo allucinato, ci restituiscono il polso di un tempo che, a partire dagli anni ’70, ha costituito la modernità di questo Paese, più anarchico e disgregato negli spasmi di una reazione che nel respiro di un’azione, più ribelle nell’impulso delle intenzioni che nel piacere delle conseguenze. Anime degne di un Percival Everett o Richard Yates, se il tirare per la giacchetta John Fante è diventato esercizio di stile.
“Eterni secondi” come tipologia umana. Chi arriva dopo o in ritardo. Oppure chi, pur agendo, rimane nascosto, defilato. Una categoria esistenziale a cui si sale e da cui si scende come avviene in gran parte delle esperienze umane o un destino perverso che, marchiato una volta, marchia per sempre?
«Credo che sia una questione di scelta più che di karma. Il secondo è uno che si conquista l’argento, che è comunque un metallo prezioso e soprattutto bello. Non ci si defila, non ci si mimetizza di certo restando secondi. Si è il primo dopo i primi e si può solo andare avanti. Poi c’è l’eternità fatta di attimi. Beati gli attimi, potremmo dire, perché saranno i secondi.»
Il racconto finale, La notte in cui spuntò la luna dal monte, è una confessione narrativa, una sorta di missiva ai posteri sulla genesi della vostra canzone che Pierangelo Bertoli cantò coi Tazenda a Sanremo ’91. Non sappiamo ancora nulla invece della vostra emozione una volta eseguita la prima volta sul palco dell’Ariston.
«L’emozione dell’Ariston fu pluridimensionale. Spazio e tempo funzionarono sia in tempo reale sia in tempo futuro. Pierangelo fu formidabile, guerriero senza patria e senza spada, e i suoi tre compagni di palco arricchirono la performance e il Festival stesso. Oggi è un pezzo di storia e una continua sfida a questo futuro che, ahimè, ci sta un po’ disumanizzando.»
In questo scritto afferma di aver conosciuto il successo per interposta persona, grazie all’“ombrello” di Bertoli. Troppa l’emotività da cui difendersi una volta arrivato sul palco, confessa. A distanza di anni, è ancora così?
«No. La mia emotività è stata la scuola dentro la quale esercitare il mio carattere. Oggi non solo non tremo. Propongo. E chi propone emozioni, si emoziona col sentimento non con l’emotività.»
Sulle prime ho pensato che la colonna sonora del suo libro potesse essere la sua Generazioni. Poi, un po’ per il ritmo della sua scrittura, un po’ per i dialoghi lisergici, soprattutto in Cattivi romantici e in Internauta, mi sono diretto verso un pezzo meno ballad, più alcolico e stranito. Pensavo a qualcosa scritta da Rino Gaetano. Mi tiri fuori dall’impasse.
«“Generazione senza età di sognatori”, cita il brano. Ma in realtà credo che Berta non abbia mai smesso di filare con Mario, con Gino e con tutti gli attori del sistema in essere. La società contemporanea è malata di compromesso e non vuole guarire.»
La canzone è un mistero come la Coca Cola o la Nutella. Un mondo intero che s’impegna a studiarne gli elementi compositivi primi senza arrivare mai a una soluzione. Lo chiedo a lei: quale l’alchimia, gli ingredienti che portano a creare dal nulla questa delicatissima e quanto mai esile forma d’arte?
«L’urgenza. L’elemento motivazionale è addirittura sopra quello emozionale. L’artista, o il creativo, è un alchimista dell’anima che trasforma in corpo il proprio sentire e lo fa toccare agli altri.»
Come, quando e da dove le nacque Chiama piano?
«In camera mia, quando stavo nella mia casa natia, a Mantova. Pensavo agli attimi che scappano e che rivendicano una canzone per sempre e ascoltavo CSN&Y. Così chiamai piano e la scrissi in silenzio. Quindi la proposi a Pierangelo. Che la cantò forte e chiara!»
Un personaggio del suo libro afferma di detestare le canzoni d’amore. Lei, nelle vesti di autore, cosa mi dice?
«C’è canzone e canzone, ovviamente. Il personaggio di cui lei parla non sono io ma è un patetico e avvilente schiavo del conformismo tecnologico. L’amore è tutto quello che siamo, dopo l’istinto di sopravvivenza. Mangiamo per stare in piedi, ma quando siamo per strada dobbiamo vivere. E per vivere bisogna amare.»
C’è una frase nel primo racconto, Cattivi romantici, che suona come slogan extranarrativo: “Resistere alla galera è un’impresa difficile, sopravvivere alla libertà è praticamente impossibile”. In un tempo come questo, in cui si scambia la libertà per disumana licenza di permettersi ogni gesto nei confronti di chi ci vive accanto o attorno, quelle parole danno l’idea del vuoto dentro cui siamo caduti.
«È sempre stato così. L’eterno conflitto tra l’Emilio di Rousseau e la militarizzazione dei governi. L’uomo di oggi è fortunatissimo e non lo sa, non se ne accorge… Gestisce la libertà come una confezione di Findus o un Pokemon Go. Bisognerebbe autoregolamentarsi, lasciando ai valori fondamentali della vita il compito di amministrare le nostre scelte.»
La sua vita artistica è stata caratterizzata soprattutto dalla vicinanza umana e professionale a Pierangelo Bertoli. A distanza di quindici anni dalla sua morte, chi è stato per la nostra canzone questo cantautore?
«Una mosca rossa, un’eccezione che conferma tante, troppe regole discografiche e mediatiche. La canzone come sfida, non come riscatto.»
Che uomo era Bertoli?
«Un uomo non scontato, con un carattere forte e determinato, capace di dare forma ai pensieri e ai sentimenti. Ecco, l’alchimista di cui sopra.»
Un sassolese, lui, e un mantovano, lei. Che impasto etnico era?
«Due facce dello stesso Po.»
Quali delle altre sue collaborazioni ha influito di più sulla sua natura di autore?
«Nessuna. Bertoli è l’unico col quale ho lavorato da adulto in maniera quotidiana e metodica. Gli altri, tutti formidabili, hanno più preso che dato. Fa eccezione Gianni Mocchetti, chitarrista storico di Battiato, col quale nel 1995 scrissi tre album, dei quali ne venne pubblicato soltanto uno, Minora. Un rock & roller ai confini col prog che mi ha istruito alla trasgressione musicale.»
Come compositore lei è una sorta di perla oscura. Bertoli la considerava più adatto ai club e la contrapponeva a Ligabue, più leone da stadio. Le ha mai pesato questa comparazione?
«Certo. Tutte le comparazioni, in quanto paragoni, pesano. Ma dalla mia ho sempre avuto un repertorio nascosto che fin da ragazzino ho costruito in maniera compulsiva. Quindi, in quanto a fantasia, mi sono sempre sentito al sicuro dal resto del mondo. E comunque, Ligabue, piaccia o non piaccia, è un grande.»
Lei è anche insegnante di Storia della Popular Song alla Musica Insieme di Mantova e tiene seminari presso la Hope Music School. I nomi di questi luoghi hanno un’eco che rimanda alla Summer of Love dei campus di Berkeley o a certe invenzioni liriche di Ginsberg. Significa che elementi come la visionarietà, l’armonia e la liberazione della mente sono imprescindibili per chi fa musica popolare?
«I leader sono visionari sempre. Armonia e liberazione possono scontrarsi, invece. Il tormento dell’arte e del suo propagatore si placa soltanto quando l’opera è in atto. Prima e dopo averla creata, si sta male. La mia idea di insegnamento è quella tradizionale: conoscere, sapere per potere creare. Siamo leggermente ignoranti in quasi tutto e informati sui fatti. Mai su ciò che li genera.»
Che esperienza è quella dell’insegnamento musicale?
«Non saprei. Io non insegno musica, insegno canzoni. E le canzoni sono la somma di più linguaggi che, nel Novecento, ha raggiunto la sua massima espressione..»
Case discografiche e televisione. Nel bene o nel male per decenni sono state anche fucine di giovani autori. La Rai poi ha un’intera storia alle spalle di divulgazione di musica pop o leggera che sia. Oggi bisogna fare un triplo salto mortale per vedere queste due entità ancora portatrici di un tale profilo educativo. Cosa è successo e quando è iniziata la deriva?
«Il cambiamento non è mai deriva. È uno svoltare. Purtroppo il problema sta nella velocità. Non tutti hanno gli stessi tempi, perciò… chi va lento è perduto.»
A proposito: le piace la definizione di Musica Leggera?
«No. Perché non conosco Musica Pesante…»
La sua carriera non finisce con la musica. Lei è pure scrittore e regista teatrale con una corposa produzione alle spalle. Eppure vive in una terra che non ha mai premiato la poliedricità artistica. Pasolini non venne mai accettato come regista, Sorrentino non viene considerato come scrittore, si sorride alle esperienze cinematografiche e letterarie di Ligabue. A Milano c’è un detto che suona così: Offelee, fa el tò mestee, pasticciere, fai il tuo mestiere. Possibile che un artista debba saper fare solo una cosa ed evitare di prendere altre strade?
«Il problema è la confusione che si crea tra genere e stile. Se un artista musicale fa del country e poi improvvisamente firma un album jazz diventa anonimo, non sperimentatore. Eppure Leonardo Da Vinci non è certo considerato uno che si è tolto delle voglie, no? Pittore, poeta (muovesi l’amante…), inventore e soprattutto ingegnere bellico. Oggi farebbe anche del cinema, magari. È una condizione sociale del nostro tempo, quella della riconoscibilità. La gente ti conosce se ti riconosce. Un tempo, funzionava alla rovescia.»
Francesco De Gregori sostiene che non si possa fare della poesia con le liriche di una canzone, Fabrizio De André era di opinione opposta. Quale la sua?
«La canzone è una forma artistica a sé, che fonde parole, frasi e slogan con melodie gradevoli e ricordabili. È unica e indivisibile. Mogol senza Battisti, piacciano o no, erano le loro canzoni, non più gli autori separati e separabili.»
Quale il verso più letterario che ha mai sentito dalla voce di un cantante?
«L’Antologia di Spoon River rivisitata da De André pullula di spunti geniali che non fanno invidia ad alcun poeta, scrittore e letterato. Provi a riascoltarla…»
Padre, figlio e spirito santo della musica d’autore.
«Motivazione, emozione, esecuzione.»
La canzone che avrebbe voluto scrivere lei.
«Tutte le mie, scritte meglio.»
Lo scrittore e il libro che hanno maggiormente contribuito alla sua formazione.
«Collodi e Pinocchio. Ma avrei omesso la fata turchina perché è anti-femminista.»
L’eterno secondo più eterno della Storia.
«Gesù Cristo. Della stessa sostanza del Padre…»
Un personaggio davvero di spessore, umano e artistico