Da Lodi al Texas. Dopo aver posato il cappello in tante altre città degli States e del Canada. Alessandro Carrera, oggi professore di Letteratura Italiana e di Culture e Letterature del Mondo alla University of Houston, è conosciuto ai più quale ”voce italiana” di Bob Dylan, essendone il traduttore principe.
Il fatto che sia uno scrittore, che abbia anche pubblicato poesia e saggi di filosofia nonché di musica classica, cinema e musica popolare e curato l’edizione inglese di opere di filosofi italiani contemporanea delinea il profilo dell’artista a cui dedica gran parte della sua vita.
Le sue pubblicazioni con al centro Dylan si perdono ormai. A chi non lo avesse ancora letto, ci limitiamo a citare l’imperdibile La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, un autentico must per ogni appassionato e studioso del musicista di Duluth.
Il motivo di questa chiacchierata riposa nell’uscita da parte di Feltrinelli del terzo libro delle Lyrics del Premio Nobel della Letteratura, aggiornato al 2012, laddove l’originario volume monstre chiudeva le pagine nel 2001, arricchito da un eccellente apparato di note. L’umiltà dello studioso vale il centro del palco quanto il suo spessore professionale.
Una conversazione che non sarebbe stata possibile senza l’aiuto dell’amico Mr. Tambourine, anima e carne di Maggie’s Farm, sito obbligatorio per ogni fan italiano. A lui il mio più sentito grazie.
Da un punto strettamente lirico, come è mutata la scrittura di Dylan nel corso degli anni?
«Se per lirico s’intende soggettivo, va detto che Dylan da molto tempo in qua ha eliminato qualunque elemento troppo soggettivo dai suoi testi. Almeno a partire da Time Out of Mind (1997), anche quando dice “io” non si ha l’impressione che stia parlando di sé, perché sta raccogliendo, in realtà, frammenti di tutta la tradizione lirica del folk, del country e del blues, per non dire dei riferimenti alla poesia lirico-epica americana dell’Ottocento, in particolare quella ispirata alla Guerra di Secessione. Ma Dylan, anche in passato, raramente è stato un lirico puro, come ad esempio lo era Leonard Cohen. Ha adottato la soluzione modernista di sfaccettare l’io e gli elementi autobiografici in un caleidoscopio di personaggi e situazioni. Anche le canzoni di Blood On the Tracks, che secondo tutti quanti sarebbero la cronaca della sua crisi coniugale, sono basate su precise scelte formali, come la decomposizione dell’io narrante in Tangled Up in Blue, la creazione di situazioni aperte a ogni possibile sviluppo in Idiot Wind. L’elemento autobiografico c’è, perché nell’opera di un poeta non potrebbe non esserci, ma è sempre passato al vaglio della forma.»
Con il nuovo secolo lo sguardo dell’autore si è aperto verso il passato in modo evidente. La sua musica si è nutrita via via di swing (Moonlight), di arie anni ’50 (Summer Days), di pop come ce lo ha consegnato Bing Crosby (Spirit On The Water), di shuffle (Duquesne Whistle), per non tacere del blues e di quest’ultimo periodo “sinatriano”. I suoi testi seguono il medesimo cammino con il narratore che, mentre continua a camminare, sembra soffrire il carico dello scorrere del tempo (Floater, Life Is Hard, Forgetful Heart, Long and Wasted Years). Nessuna nostalgia, assenza di retorica in stile “quando si era belli, giovani e forti” e neppure un vuoto elogio della vita. Elementare malinconia dell’età o lei riscontra qualcosa di più profondo?
«Non vedo malinconia nel recupero degli standard dagli anni Venti agli anni Cinquanta. Da parte di Dylan, è un modo di rendere omaggio a una stagione irripetibile della musica leggera, con l’avvertimento che, con il passare del tempo, le canzoni che rimangono e ne costituiscono il canone, assumono un aspetto quasi classico. Dylan ha assimilato il folk, il rock, il blues e il gospel. Gli mancavano gli standard e il soul, ma il soul, vocalmente, è sempre stato al di fuori della sua portata. Qualcuno potrebbe dire che anche gli standard lo sono, e in parte è vero, però Dylan ha lavorato su quel repertorio in modo da riportarlo a una dimensione di rarefatto country-folk. Nei brani migliori del suo repertorio sinatriano, ce ne sono di buoni e di meno buoni, c’è comunque un senso di scoperta, la gioia di sapere che queste canzoni hanno ancora qualcosa di nuovo da offrire. E, in genere, Dylan è piuttosto refrattario alla malinconia. Il suo motto è “don’t look back”, non ti guardare alle spalle.»
I suoi testi hanno sempre goduto di un’immagine pittorica e cinematografica. Citare Tangled Up in Blue e Simple Twist of Fate diventa ormai esercizio banale. Lui stesso si è cimentato col pennello e con la recitazione. Più che aver creato una nuova Commedia Umana delle lettere Dylan pare aver incastonato la sua vita in un intimo Labirinto dell’Arte. È lui l’autentico spirito inquieto in preda di una creatività che non riesce a placarsi?
«Labirinto dell’Arte è una buona definizione. Molti artisti, anche tra i più grandi, pur tenendo fermo il loro campo principale, che per qualcuno è la letteratura, per qualcun altro è la musica, e così via, si vogliono cimentare in più campi. È un modo di diversificare la creatività, di riposarsi da una fatica assumendone un’altra. Il vero artista non sta mai fermo e Dylan non sta mai fermo. Si dedica alla pittura e alla scultura. Non è grande né in un campo né nell’altro, ma se questo lo aiuta a concentrarsi sui versi e sulla musica, allora ben venga. Del resto, anche Miles Davis dipingeva. Joni Mitchell ha dipinto moltissimo, e con più tecnica di Dylan, bisogna dire. Al di fuori della canzone e della scrittura, Dylan ha dato il meglio di sé nella trasmissione radiofonica che anni fa ha dedicato alla canzone americana, un capolavoro di disc-jockeying.»
C’è stato un momento o un periodo in cui la sua scrittura si è inaridita?
«Sarebbe strano se in una carriera così lunga non ci fosse stato. È accaduto tra il 1970 e il 1973, quando si occupava più della sua famiglia che di scrivere canzoni, e tra il 1984 e il 1989, quando tentava una strada dopo l’altra ma solo raramente riusciva a cristallizzare quello che aveva in mente in una canzone riuscita. D’altro canto, il silenzio in termini di nuove canzoni tra Under the Red Sky (1990) e Time Out of Mind (1997) non lo vedo come un inaridimento, ma piuttosto come una pausa di riflessione dalla quale è tornato con più forza e più idee. Tutto sommato, i periodi magri di Dylan sono pochi e, in una carriera così lunga, piuttosto brevi. In realtà, la costanza della sua creatività è straordinaria.»
Qual è la figura retorica o il mezzo di mestiere a cui ricorre di più?
«Ha un forte ruolo l’anafora, cioè la ripetizione di versi o di attacchi di versi che introducono una nuova strofa o una nuova immagine. Pensiamo a A Hard Rain’s A-Gonna Fall, in cui ogni strofa comincia con “Dove sei stato figlio mio diletto?”, oppure “che cos’hai visto”, “chi hai incontrato”, e così via. O pensiamo a Sad-Eyed Lady of the Lowlands con le numerose immagini che iniziano con “Con il tuo…”, “Con le tue…” L’anafora è molto comune nella poesia popolare, ma è anche ampiamente usata da Rimbaud e da Ginsberg, che sono tra gli autori di Dylan. Nelle canzoni degli anni Sessanta, a parte quelle più narrative, troviamo un uso massiccio del correlativo oggettivo: invece di analizzare liricamente un sentimento o una percezione il poeta crea un oggetto o una situazione che in qualche modo possano funzionare da correlativo, sia come metafora sia come allegoria, al sentimento o alla percezione, i quali vengono così espressi indirettamente. Stuck Inside of Mobile è un catalogo di correlativi oggettivi. All Along the Watchtower, indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, può essere considerata un’allegoria dell’America all’epoca della guerra del Vietnam, mentre As I Went Out One Morning è il correlativo oggettivo di quella stessa allegoria. A metà degli anni Sessanta Dylan fa un uso massiccio della metonimia, nel senso che sostituisce una parola con un’altra che la può richiamare oppure no. Ad esempio le “ladies” di Stuck Inside of Mobile riforniscono il narratore di “tape”, che è slang per gin, ma dovrebbe essere “tea” (è questo che di solito fanno le “ladies”, no?). Dylan usa molti altri trucchi retorici, e se ci mettessimo ad analizzarli tutti ne risulterebbe un intero libro. Mi limito a elencarli: decomposizione dell’io narrante ottenuta attraverso l’incertezza dei pronomi (Tangled Up in Blue); utilizzo quasi dantesco (penso alla Vita Nuova, anche se non credo che Dylan la conosca) del topos medievale della “donna dello schermo” (Visions of Johanna, Fourth Time Around, Brownsville Girl); interconnessione testuale tra i brani di uno stesso album con il proposito specifico di scardinare l’unità spazio-temporale della singola canzone e creare al suo posto un ciclo di canzoni. È un procedimento che usa soprattutto negli album più recenti, direi da Love & Theft in poi, dove spesso si trovano versi che in teoria dovrebbero appartenere a un’altra canzone ma sono stati spostati con effetti di spiazzamento. Posso citare in merito tre canzoni da Tempest (2012) come Tin Angel, Early Roman Kings e la stessa Tempest (che cosa ci fa Wellington a bordo del Titanic?).»
Più Joyce o Shakespeare nel suo scrivere?
«Nessuno dei due e tutti e due, come anche tantissimi altri. A parte Woody Guthrie, Hank Williams, Robert Johnson, gli anonimi autori delle ballate inglesi, e tutti coloro che hanno contribuito al canone della musica popolare, gli autori letterari di Dylan sono, tra gli altri, Eliot, Cummings, Ginsberg, Kerouac, Burroughs, Rimbaud e Brecht. Questi hanno contribuito a formarlo. Poi ci sono tutti quelli dai quali ha preso a prestito o rubato un verso, un’idea, un giro di frase o anche molte frasi (ultimamente il preferito è Ovidio), e sono tantissimi, ma sono arrivati quando Dylan era appunto già formato. Hanno contribuito ad arricchire la sua tavolozza, ma non hanno modificato l’impostazione che lui aveva già dato alla sua scrittura. Shakespeare appare qua e là, ma non più di quanto appaia in qualunque scrittore di lingua inglese. L’influenza di Joyce è solo indiretta. Tarantula, quella specie di prosimetro antiletterario che Dylan completa nel 1966 ma pubblica solo nel 1971, è pieno di giochi di parole e sovradeterminazioni fonetiche come il Finnegans Wake di Joyce (Tarantula è un Finnegans Wake dei poveri, per capirci), ma lo stile di composizione di Tarantula viene dai cut-up di William Burroughs, non da Joyce, che Dylan non aveva letto all’epoca della composizione di Tarantula. Suppongo però che Burroughs conoscesse Joyce.»
Lei ha affermato che i i versi di Dylan non hanno nella liricità il loro primo motore. Ha chiamato la sua poetry “prosa pastiche” e “prosa da bricolage”, immagini che rimandano però più a Andy Warhol e Mimmo Rotella che a Ungaretti o Shakespeare. Può precisare cosa intende con le sue definizioni?
«Dylan è un bricoleur perché questo è il modo in cui la folk music viene messa insieme. La tecnica è quella dell’assemblaggio di materiali disparati. È un procedimento tanto arcaico quanto estremamente moderno. Bisogna tenere presente che la folk music è un’insieme di forme e strutture che fino a poco tempo fa venivano tramandate in buona parte oralmente. Si cantava quello che si ricordava e si componeva sulla base della conoscenza che uno aveva della tradizione orale da cui proveniva. Le ballate sono fatte di altre ballate, i blues sono fatti di altri blues. Non è sempre così, ci sono individualità spiccate in ogni campo, ma conoscere le formule per mettere insieme versi, per sapere come andare da un verso all’altro, da una strofa all’altra, è fondamentale anche per avere, quando è il caso, un guizzo di originalità.»
Lei ha anche tradotto Chronicles, il primo volume della sua autobiografia. Com’è il Dylan narratore di prosa pura?
«È appunto una prosa da bricoleur, ed è quindi tutt’altro che pura. Chronicles Vol. 1 è un libro molto curioso, un saggio autobiografico sovrabbondante di citazioni incastonate nel testo e tratte senza nessuna vergogna da ogni possibile fonte: Jack London, Hemingway, guide turistiche, articoli di rivista degli anni Sessanta, biografie di musicisti jazz, romanzi gialli dei primi anni del Ventesimo secolo. Non sono mai citazioni lunghe, e quasi mai letterali. Non è plagio. Sono frammenti altrui che Dylan incastra nel fluire di quello che sta dicendo. Dylan scrive in prosa come compone canzoni, o meglio, come canta. Non credo che potrebbe scrivere in prosa in altro modo.»
Ha trovato particolari difficoltà nel conservare nella nostra lingua la fluvialità immaginifica che quelle pagine ci regalano?
«Un poeta molto “immaginifico” aiuta il traduttore, perché non è impossibile ricreare in un’altra lingua la visibilità di un’immagine. È anche per questo che tradurre Dante in inglese è più facile (si fa per dire) che non tradurre Petrarca o Pascoli. Dante fornisce immagini che si possono “vedere” anche in traduzione. Con Petrarca o Pascoli, se non si riesce a tradurre il suono si perde molto. E il suono non si può tradurre. Bisogna ricostruirlo da zero, sperando che non risulti goffo. Venendo a Dylan, le immagini di una canzone come, mettiamo, Desolation Row, non sono difficili da rendere. Ma il ritmo di quelle immagini, quello è un altro paio di maniche.»
Qual è il tratto più ostico per il traduttore di Bob Dylan?
«Dipende dal criterio di traduzione che si adotta. Idealmente, bisognerebbe mantenere la struttura delle rime e la stessa metrica, ma questo è possibile solo in pochi casi, a meno di non riscrivere completamente il testo come facevano una volta i traduttori dei libretti d’opera e come negli anni Sessanta, all’epoca del trionfo delle cover nella pop music italiana, facevano i parolieri, in entrambi i casi prendendosi molte, anzi moltissime libertà. Il che è giustificato se si vuole realizzare una versione cantabile e se dunque si vuole dare più importanza alla musica e al canto. Il testo diventa un supporto e anche se non è corrispondente all’originale non è un gran male. Ma il mio scopo ovviamente era diverso. Le mie traduzioni dovevano apparire in un libro, sono fatte per essere lette con il testo a fronte, quindi le libertà che mi potevo prendere non erano molte. In certi casi sono riuscito a mantenere uno schema ritmico e metrico abbastanza simile all’originale, ma per le canzoni più complesse una simile scelta avrebbe portato a una tale semplificazione del testo che il lettore, controllando il testo inglese, si sarebbe chiesto che cosa stava leggendo. Questo non avviene solo con Dylan, sia chiaro, ma Dylan in più ha i doppi sensi, le frasi gergali, le frasi “formula” adottate per lo più dal linguaggio del blues e – e questa è una sua peculiarità – l’uso di frasi idiomatiche usate come se fossero letterali. Ad esempio quando in High Water parla di “palloni di piombo” è difficile stabilire se intende il significato metaforico corrente (situazione imbarazzante, cosa che si trascina, un peso) oppure se intende proprio letteralmente, come dice nel testo, che ci sono delle bare (coffins) che durante l’alluvione del 1927 rotolano per le strade come “palle di piombo” (balloons made out of lead). Qui la traduzione non può rendere l’ambiguità, perché quell’espressione idiomatica in italiano non esiste. Ci vogliono le note. Non succede solo con Dylan, sia chiaro. Nel primo capitolo di Tenera è la notte di F. S. Fitzgerald, quando il traduttore legge di Rosemary che “the dew was still on her”, che cosa deve fare, tradurre letteralmente come fa Fernanda Pivano nella sua traduzione del 1949, “era ancora coperta di rugiada”, oppure andare al significato vero dell’espressione, che significa “era ancora vergine”? In questo caso credo che la traduzione letterale sia migliore, perché non è nemmeno detto che tutti i lettori di lingua inglese conoscano il doppio significato dell’espressione. Dylan però complica le cose, perché – mettiamo – se usasse la stessa espressione utilizzata da Fitzgerald ci verrebbe il dubbio che Rosemary sia effettivamente coperta di rugiada.»
Qual è il verso che più lo rappresenta?
«You don’t need a weatherman / To know which way the wind blows e cioè: “Non hai bisogno di chi prevede il tempo / per sapere da che parte tira il vento” da Subterranean Homesick Blues.»
E quale tocca più l’animo di Alessandro Carrera?
«I can’t even remember what it was I came here to get away from (“Non ricordo nemmeno da cosa scappavo quando ho messo piede qui”), un verso straordinario da Not Dark Yet (1997), che per l’uso del relativo e delle preposizioni (in inglese meglio che in italiano) mi ricorda il petrarchesco “Ch’altri che me non ho di cui mi lagne” (Canzoniere CCCXI). Ma se penso a Dylan il primo verso che mi viene in mente è And the ancient empty street’s too dead for dreaming (“E l’antica strada vuota è troppo morta per sognare”) da Mr. Tambourine Man, un verso alla T. S. Eliot (potrebbe stare in The Love Song of Alfred J. Prufrock) che a me fa venire in mente il Greenwich Village, Bleecker Street alle otto del mattino di domenica, quando c’era ancora il Café Figaro e prima che diventasse una rassegna di venditori di souvenir.»
Negli ultimi anni Dylan ha inciso solo evergreen in cinque consecutivi album superficialmente definiti “di Sinatra”. Io penso che l’autore consideri il rock come uno strumento narrativo dalla sintassi e dalla grammatica ormai svuotata, un mezzo superato dai tempi e che, vivendo se stesso come un autentico classico della cultura americana, abbia individuato nel grande libro della canzone tradizionale di quella terra l’arma per ottenere il suo scopo. Che ne pensa lei?
«Dylan ha sempre avuto l’ambizione di coprire l’intera storia della canzone americana. Nel suo album d’esordio, Bob Dylan (1962) si era dedicato soprattutto al blues, di cui era già, a vent’anni, un interprete degno di rispetto. Ha provato a interpretare qualche standard in versione country con Self Portrait (1970), un album che però non ha una forte coerenza interna e non può essere considerato riuscito (lo si apprezza di più nelle versioni incluse nel volume 10 della Bootleg Series). Allora, Dylan non sapeva ancora come far suo quel repertorio. Anche oggi, non gli è facile. Gli arrangiamenti dei dischi sinatriani sono molto buoni nel loro ondeggiare fra armonie quasi jazz e tinte country. La voce a volte regge, a volte no, e questo è dovuto all’età e al fatto che Dylan registra sempre dal vivo, anche in studio, e non ripete mai la stessa canzone molte volte. Non è un perfezionista come lo era Sinatra. Ma, per rispondere più direttamente alla domanda, bisogna pensare che il rock and roll, come forma musicale “pura”, ha avuto una vita molto breve. Nasce come un’estensione del boogie-woogie e del rhythm and blues con l’aggiunta di un’accelerazione quasi futurista del country. È forte e aggressivo ma anche piuttosto rigido. Inevitabilmente finisce per contaminarsi e, come era accaduto dopo l’esplosione degli anni Cinquanta, per annacquarsi. Quello che oggi chiamiamo rock è il risultato di una serie di contaminazioni senza le quali non sarebbe rimasto in vita. Dylan suona rock blues, folk rock (anche se il termine non gli piace), ballads, blues, anche una certa forma di rock gospel che è stato forse lui il primo a proporre, e ora anche standards, ma non è mai veramente stato un musicista di rock and roll.»
La motivazione che ha portato l’Accademia di Svezia a premiare Dylan con il Nobel per la Letteratura dice: “Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”. Non pensa che, nel cicaleccio esploso dopo la notizia, praticamente nessuno, ma soprattutto i critici indignati, sia partito dalla motivazione?
«È successo proprio questo, perché se avessero badato alla motivazione avrebbero capito che l’Accademia di Svezia non intendeva sostenere che Dylan è un letterato o un poeta nel senso in cui lo è – per dire – Wallace Stevens, bensì che ha “creato nuove espressioni poetiche”, cioè ha creato del “poetico” più che delle poesie. Ha rivelato il poetico della canzone a chi non credeva che la canzone potesse essere un veicolo del poetico e l’ha arricchito di nuove possibilità espressive.»
Di ogni canzone di Dylan lei riesce a cogliere una fitta rete di rimandi ed evidenziare intrecci di citazioni letterario/musicali. Ho più che l’impressione che ormai tra lei e Dylan si sia instaurata una sorta di gioco tra gatto e topo. Lui che, sfidandola, scrive inserendo legami e nodi sempre più minimi, nascosti e misteriosi con il mondo dei suoi pari e lei che dopo qualche ascolto svela l’arcano. Secondo me da qualche anno Dylan canta Sinatra & Co. anche perché lei lo ha sfibrato. È lei la vera voce di Bob Dylan. Vuole negarlo?
«Ma questo gioco del gatto e del topo siamo in molti a giocarlo. A ogni nuovo disco che esce l’Internazionale Dylaniana si scatena. Immediatamente, sui siti a lui dedicati, spuntano come funghi trascrizioni dei testi, interpretazioni, ipotesi, esegesi esoteriche ed essoteriche. Cacciatori di fonti letterarie e musicali e battitori di dettagli biografici partono in squadre per stanarlo. Nelle note ai tre volumi della mia edizione delle Lyrics ho avanzato alcune ipotesi mie e ho fatto varie scoperte, ma mi sono appoggiato sulle ricerche, a volte validissime, a volte da prendere con le molle o da scartare subito, di tutti quegli appassionati che su carta o su schermo hanno cominciato quel lavoro prima di me. Ho elencato tutti i miei debiti nella bibliografia e sitografia che conclude il terzo volume. Più o meno ogni mese esce un libro nuovo su Dylan. Siamo già a trecento, se non di più, e solo in lingua inglese. La dylanologia è un’impresa intercontinentale. E ormai se n’è impossessata l’accademia. I dylanologi più prestigiosi sono professori di storia a Princeton (Sean Wilentz), di latino e greco a Harvard (Richard F. Thomas) o di letteratura inglese alla Boston University (Christopher Ricks). Solo Greil Marcus mantiene la sua indipendenza di intellettuale non affiliato, anche se ha insegnato corsi a Princeton anche lui. Di queste “voci”, Dylan non si libera più. Io ho solo un punto di vista particolare come europeo che vive in America. Vengo da studi di filosofia e musica classica, e come Dylan si è servito di me così io mi sono servito di lui per elaborare un pensiero non gerarchico in cui un anonimo bluesman del Delta è posto sullo stesso piano di un poeta onorato e paludato. Forse è questo che dà una sua voce al mio lavoro, ma senza l’esempio di Dylan non ci sarei arrivato.»
ALESSANDRO CARRERA: MY TRAVEL INTO THE BOB DYLAN LABYRINTH
Alessandro Carrera, director of Italian Studies and Graduate Director of World Cultures & Literatures at the University of Houston, is known also for being “Bob Dylan’s italian voice”, on account of the fact he’s his official translator in our country. The reason for this interview lays on the release by publisher Feltrinelli of the third book of 2016 Nobel Prize in Literature Lyrics, updated to 2012, whereby the original and huge volume would end with “Love & Theft” (2001).
A conversation made possible thanks to the help of Mr. Tambourine, soul and engine of Maggie’s Farm website, a real must for each italian fan of Bob Dylan.
From a point of view strictly lyric, how did Dylan way of writing change all along these years?
«If for lyric we mean subjective it’s to be said that Dylan has removed each deep subjective reference from his verses for a very long time . At least, beginning from Time Out of Mind (1997), even when he writes “I” we feel he doesn’t mean himself. Actually he picks up fragments of lyrical folk, country and blues tradition, not to say the connections to american epic-lyric poetry of XIX century, in particular the part inspired by the War of Succession. But even before that record, Dylan rarely had been a pure lyric, as it was, for instance, Leonard Cohen.»
In the latest years Dylan opened his doors to the past. Musically and literary. There’s no nostalgia in his works. What’s that? Basic melancholy due to his age?
«I don’t see melancholy in his restoring the standards of the Twenties or Fifties. It’s a way to pay homage to an unrepeatable season of music. With the warning that, passing time, the songs that remain and embrace the canon of that Era, turn into a classic. Generally Dylan is so far and unwilling from nostalgia, his motto remains “don’t look back”.»
Often his texts hold a pictorial and cinematographic profile. The same about himself, painter or actor sometime. To a Human Comedy of Literature he preferred to set his existence into an intimate Labyrinth of Art. Do you think that he’s the real restless spirit in the grip of a merciless creativity?
«Labyrinth of Art is a good definition. Many artists tend to test themselves in various fields. The real artist never stands still, Dylan as well. He dedicates to painting and sculpture without standing out. If this effort helps him to concentrate better on the verses and music, it’s welcome. By the way, even Miles Davis would paint. Joni Mitchell as well and supported by a better tecnique than Dylan, we have to confess. Beyond songs and writings, Dylan gave the best of himself as a dj when he run a masterpiece program on American song. It was terrific!»
Did his writing ever dry up?
«It would be strange if it hadn’t happened. It happened between 1970 and 1973, when he used to take care more of his family than the songs, and between 1984 and 1989, when he tried to explore a series of news roads withoud succeeding in crystallize what he had in mind into a great song.»
Which the figure of speech or the device he uses more?
«Anaphore plays a great role. Lets’ take A Hard Rain’s A-Gonna Fall, full of “Where have you been”, “What did you see”, “What did you hear” and so on. The same with Sad-Eyed Lady of the Lowlands in which the verses begin with “With your…”. Anaphore is very common in popular poetry, but it’s still fully used by Rimbaud and Ginsberg, which are among the authors Dylan like best. In his Sixties tracks we find a strong use of the correlative objective: instead of stressing lirically a feeling or a perception, the poet creates an object or a situation that can work as a correlative, both as a metaphor and an allegory of the feeling or perception hidden. Stuck Inside of Mobile is a catalogue of it. All Along the Watchtower, can be considered an allegory of America in the time of the war in Vietnam, while As I Went Out One Morning is the objective correlative of that same allegory. In the mid-Sixties Dylan strongly uses the metonymy, meaning that he substitutes a word another one that can recall the word not used. For example: the “ladies” of Stuck Inside of Mobile provide the author with “tape”, that’s the slang for gin, but it should be “tea” (that’s that the ladies do usually, don’t they?). Dylan uses a lot of rhetorical tricks, but it would be necessary a whole book about it.»
More Joyce or Shakespeare on his writing?
«None of them. A part from Woody Guthrie, Hank Williams, Robert Johnson, the anonimous authors of English ballads and all of those who gave their contribution to the canon of popular music, Dylan’s literary authors are, among the others, Eliot, Cummings, Ginsberg, Kerouac, Burroughs, Rimbaud and Brecht. Those ones contributed to build him. There are also those who he borrowed a verse, an idea or a stanza from. Recently his best one is Ovidio. The influence of Joyce is just indirect. Tarantula is full of puns and phonetic stuff just like Joyce’s Finnegans Wake, but the style of Tarantula comes from William Burrough’s cut-ups not from Joyce, unknown by Dylan at that time. I suppose that Burroughs would know Joyce.»
You said that Dylan’s verses haven’t their centre in the lyricism. You defined his poetry “pastiche prose” and “bricolage prose”, concepts closer to Andy Warhol and Mimmo Rotella than Ungaretti or Shakespeare. May you clear it up?
«Dylan is a bricoleur because this is the way folk music is set up. It’s an ancient method, at the same time modern as well. We must remember that folk music has been passed on verbally for decades and decades. Ballads are made by other ballads, blues came from previous blues. Ok, not always. Wherever we find some high personalities, but it’s necessary to know and manage the formulas to put verses together and passing from a stanza to the next one to show, when it’s the case, a little bit of novelty.»
You have translated Chronicles, the first volume of his autobiography. What about the Dylan storyteller?
«It’s exactly the prose of a bricoleur, anything but pure. Chronicles Vol. 1 is a very odd book, an autobiographical essay overabundant of quotes: Jack London, Hemingway, travel guides, articles from magazines of the Sixties, biographies of jazz musicians, thriller books of the early XX century. They’re almost never strictly literaries. It’s not plagiarism, but other sources’ fragments that Dylan dovetails in the flow of what he’s saying. I don’t think he could write in a different way.»
Which is the verse that depicts him best?
«“You don’t need a weatherman / To know which way the wind blows” from Subterranean Homesick Blues.»
And the one that touches you deeply?
«“I can’t even remember what it was I came here to get away from”, an extraordinay verse from Not Dark Yet (1997),that reminds me “Ch’altri che me non ho di cui mi lagne” by Petrarca (Canzoniere CCCXI). But if I think of Dylan, the first verse that comes to my mind is “And the ancient empty street’s too dead for dreaming” from Mr. Tambourine Man, an Eliot-style verse that could had been written for The Love Song of Alfred J. Prufrock. It moves me to Greenwich Village, Bleecker Street on Sunday morning at 8.00 before Café Figaro turned into a souvenir shop.»
In the last few years Dylan released five records of evergreens that are defined the “Sinatra albums”. I think that he’s tired of rock, a kind of music he feels overcome by Time. What’s your idea about it?
«Dylan has always wanted to cover the whole history of American song. In his first album, Bob Dylan (1962), dedicated to the blues above all. He tried to perform some standards in a country style with Self Portrait (1970), an album that lacks of inner coherence and can’t be considered successful (better in its Bootleg Series 10 version). At that time he didn’t know how to turn all that stuff into something of his own. Today it doesn’t work so easily as well. The arrangements of the so-called “Sinatrian records” work very good with their waving among nearly jazz harmonies and country colors. His voice sometime holds up and sometime it doesn’t, due to his age and his habit not to cut the same song in the long term. Just to answer better to your question, we must think that “pure” rock and roll had a short life. It was born from an extension of boogie-woogie and rhythm and blues to which an acceleration of country nearly Futurist have been added. It’s strong but at the same time rather stiff. What we call today rock is the result of a series of crossover that went on giving rock life. Dylan plays rock blues, folk rock (even he dislikes the word), ballads, blues, a form of rock gospel that he, first of all, introduced, and now he plays standards. He’s never been a rock and roll musician.»
Swedish Academy motivation for his Nobel Prize says: “For having created new poetic expressions within the great American song tradition”. Don’t you think that all the noise burst out from the news of the Academy decision never started from the motivation?
«Of course. It happen because if they had paid a little attention to the motivation they would have understood that the Academy of Sweden didn’t mean to assert that Dylan is a person of letter or a poet, in the sense of Wallace Stevens is, for example. But rather that he has “created new poetic expression”, namely that he created “poetic” rather than poems. He disclosed the poetic of the song to those who didn’t think that the song could be a vehicle of the poetic, and enriched it with new expressive means.»
You are able to catch from Bob Dylan’s each song a thick net of cross references, both literaries and musicals. I got the sensation that you and Dylan have been playing a sort of cat-and-mouse game. He writes always in a more misterious way and you discover the quotes, the references, the literary knots and the musical links. You are Bob Dylan real voice, isn’t you?
«This game is played by many of us. Duly, when he releases a new album the International Dylanian comes out and lets loose. The websites all over the planet upgrade with an ocean of texts trascriptions, interpretations, theories, hypothesis, esoteric exegesis. Teams of hunters of literaries and musical sources or bio details start to drive him out. In the notes of my translation of his Lyrics I propose some hipothesis and done some discoveries, but always leaning on the researches of those who began before me. I’ve listed all my debts in the bibliography of the third volume. Dylanology is an intercontinental enterprise. The most famous dylanolgists are history professors at Princeton (Sean Wilentz), latin and greek professors at Harvard (Richard F. Thomas), english literature professors at Boston University (Christopher Ricks). Only Greil Marcus preserves his independence even though he too taught at Princeton.
Dylan can’t free from this “voices”. I’ve just a particular point of view, the one of an European living in America. I come from philosophy and classic music studies, and as Dylan made use of me I’ve made use of him to elaborate a not-hierarchical way of thinking in which a nameless Delta bluesman stands on the same level of a esteemed poet. Maybe it’s this that to me gives a personal voice to my job, but without the example of Dylan I couldn’t get it.»
Accidenti, che saggio interessante. Mi ci è voluto un po’ arrivare fino in fondo, ma mi ha fatto piacere leggere l’intervista e approfondire la conoscenza. se non ti dispiace, lo condivido sulla mia pagina FB. ciao, Pina
Procedi e thanx so much my dear!