Vonnegut e il mattatoio sotto il cielo di Dresda

01In principio fu quella ripetizione che, durante la mia prima lettura di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, incontrai quasi a ogni respiro, al punto da diventarmi familiare dopo qualche facciata e aspettarmela a ogni giro di pagina.

Così va la vita.

Accompagnava ogni termine che conduceva alla morte, quando non era proprio quel termine stesso a essere utilizzato dall’autore. Spietato, al limite dell’irriguardoso, tanto che il fatto di essere stato costretto a fare da testimone vivente quale soldato americano (e, solo per pura fortuna, sopravvissuto) all’orrore piovuto dal cielo per tre giorni su Dresda alla fine della Seconda guerra mondiale, non me lo pose automaticamente fuori da ogni risvolto intimamente critico che si intrufolava nelle pieghe del mio leggere.

Ciò che non fu immediato si rese solare nei giorni in cui, chiuso il libro, continuai a riflettere su cosa avessi veramente letto. Piano piano non solo intuii la profondità angosciosa dell’apparente sbeffeggio, ma capii che solo quel delirio letterario contenuto nel romanzo poteva raccontare in profondità la verità di un più pesante delirio a cui l’essere umano aveva dato forma. Ne volli sapere di più.GERMANY DRESDEN

Imparai che come regalo per il giorno di San Valentino, una delle più affascinanti ed eleganti città europee, Dresda, fu demolita ininterrottamente tra il 13 e il 15 febbraio 1945. Per demoralizzare gli ultimi tedeschi che ancora credevano nella guerra, il motivo in appendice all’ordine, ideato da Churchill e ben accettato da Roosevelt e Stalin. Decine e decine di ore di bombardamento continuo firmato RAF e Air Force.

Aprirono le danze gli inglesi con 1.500 tonnellate di bombe esplosive e 1.200 tonnellate di incendiarie fatte cadere da 800 Lancaster, poi furono i B-17 americani a completare l’opera con altre 1.250 tonnellate. Gli obiettivi militari furono quasi tutti schivati. Al contrario quasi 30.000 edifici privati crollarono portandosi con sé le vite di oltre 200.000 cittadini. Quasi tre volte Hiroshima. Si morì perfino respirando. I 300°C raggiunti dall’atmosfera al suolo per via dell’attacco bruciarono l’ossigeno. La Perla dell’Elba non c’era più.

02Vonnegut era proprio lì. Prigioniero di guerra costretto a lavorare per il Reich. Altrimenti chiuso in un fresco deposito di carne sotto un mattatoio. La sua salvezza. Nel tempo sarebbe diventato tante cose. Ad esempio uno scrittore. Inizialmente di fantascienza. Sempre sperimentale. Due profili che lo aiutarono a dare forma e anima all’urgenza che lo corrose dal giorno della sua liberazione. Parlare di quella roba là. Ma a patto di rispettare a ogni angolazione l’abominio subito dagli innocenti. Come fare? Non lo sapeva. Per questo passò un quarto di secolo inerme prima di riuscirci. Finché quei due profili letterari presero possesso di lui e lo condussero alla scrittura dell’insania autobiografica di un sopravvissuto che fa esplodere da dentro di sé un racconto visionario, ubriaco di salti temporali e interventi soprannaturali. Per la cronaca: si salvò lo scrittore, non il personaggio del romanzo.04

Solo la follia narrativa poteva rispettare gli spettri di Dresda 1945, aprire di nuovo la finestra e tornare a vedere. Le tonnellate di ossa umane per la strada. La lugubre ironia della sorte di un soldato americano che, con la città in cenere, viene fucilato per aver raccolto dalle rovine una teiera. I saponi per lavarsi la mattina e le candele per vedere quando c’è buio, duplice produzione da grasso di cadavere ebraico. Il panico e lo sgomento di quel rumore di scarponi che uccide solo al percepirlo in lontananza e che ha in “rastrellamento” la spiegazione della sua ragione d’essere. I proiettili che esplodono sopra gli alberi trasformandosi in una pioggia di lame e aghi. Quel piombo rivestito di rame che, sotto lo scoppio di ogni singola bomba, viaggia più veloce del suono e della luce. I corpi di alcune giovani donne bollite vive. Gli ululati infernali. Il fischio che sembra provenire da dentro i termosifoni. I senza rifugio che, muovendosi lungo la riva del fiume, vengono spruzzati di proiettili di Nach den alliierten Luftangriffen vom 13./14. Februar 1945mitragliatrici sputati da caccia americani scesi in picchiata. I ceppi carbonizzati che, dopo che il cielo si è chiuso all’uragano artificiale, si possono vedere qua e là. L’ogni cosa trasformata in scheletro. Il silenzio che deve intervenire dopo un massacro. La superficie lunare in cui si è trasformata la città dopo tante ore dentro al fuoco a bruciare, bruciare, bruciare. I soldati impazziti che non smetteranno di uccidere finché non saranno stati uccisi. I cavalli ancora in vita con le bocche ferite da morsi, il cui tormento di una sete mai più placabile verrà presto messo a tacere.

Più naturale illustrare a un Tralfamadoriano come e quando alcuni terrestri decidono che altri terrestri non devono più stare su quella e su qualunque altra porzione di Terra. Perché noi non abbiamo più il diritto di raccontarci che, nella nostra lotta contro il Male, duecentomila e passa esseri umani inermi e innocenti vennero cotti al forno nel giro di tre giorni. Può incominciare a parlare la voce di un libro schizzato. Un punto nel mezzo della nostra vita.

 

VONNEGUT AND THE SLAUGHTERHOUSE UNDER THE SKY OF DRESDEN

 ing1At the beginning it was that repetition that, during my first reading of Kurt Vonnegut’s Slaughterhouse-Five, I met nearly everywhere to such extent it became familiar to me just after some pages.

And so it goes.

Associated with each word leading to death, when it wasn’t exactly that word to be used by the author. Cutthroat and disrespectful that even the author had been an american soldier who witnessed the horror poured down the sky for three days over Dredsden in the last leg of World War II it wouldn’t let me pass over it.

What was black in that moment turned into bright when, finished the book, I wondered about what I had really read. Slowly I understood not only the deep anguish of that illusory derision, but I realized that only such a literary delirium could tell the truth of a heavier delirium human being had created. I wanted to know more.

ing2I learnt that, as a Valentine Day gift, one of the most charming and refined european town, Dresden, had been destroyed without interruption between Feb 13-15, 1945. Just to dishearten the very last Germans who still believed in the victory, was the reason of the order, ideated by Churchill and accepted with no opposition by Roosevelt and Stalin. Tons of hours for a firebombing by RAF and Air Force.

The English opened the show with 1,500 tons of high-explosive bombs and 1,200 tones of incendiary devices dropped by 800 Lancaster, then it was the B-17 turn to complete the opera with final 1,250 tons. Almost all the military targets were avoided. On the contrary, nearly 30,000 private buildings collapsed taking away more than 200,000 inhabitants’ lives. Nearly three times as much Hiroshima. People died even breathing. The 300 ground degrees of the atmosphere burnt off the oxygene. The Pearl of the Elbe didn’t exist anymore.

Vonnegut was there. Prisoner of the Reich, compelled to work for it, he survived the Allied bombing of the city by taking refuge in a meat locker close to a slaughterhouse. His shelter. In time he would become lots of things. A writer jbkjb,nfor example. Beginning with science fiction. Avant-garde for good. Two profiles that helped him to give shape, soul and breath to the pressure which began to corrode him since the day of liberation. Talking about that thing. Provided that the abomination suffered by the innocents were always respected. How to do that? He didn’t know for nearly a quarter of a century. Those literary profiles saved him heading to write about the autobiographical insanity of a survivor who lets explode from within a visionary tale full of time shifts and supernatural interferences. For the record: the writer not the character managed to get saved.

Only the narrative madness could bring respect to Desden 1954 spectres, open the window again and coming back to watch. The tons of human bones over the streets. The gloomy irony about the doom af an american soldier who, in a city reduced to ashes, was executed for taking a teapot from ruins. The soaps to get washed and the candles against the dark produced by the fat from jewish corpses. The panic and the shock for the boots noise preceeding the nazis search-and-destroy , able to kill d4edff6ec928b60284659630872acby being perceived at distance. The bullets exploding over the trees and creating a blades and needles rain. Some young female corpses got boiled alive. The hellish howling. The refugeless by the river shore hit by American niohiinondestroyers’ bullets. Everything turned into charred skeletons. The silence imposed after each massacre. The lunar surface of the city after so many hours spent burning, burning and burning. The soldiers got mad who won’t stop killing before being killed. The mouths of the horses, bleeding for their own bites, animals whose agony for a merciless thirst will be soon to an end.

More natural succeed in describing to a Tralfamadorian how and when some earthlings decide that other earthlings can’t remain in that and whatever land of the Earth. That’s because we have no right anymore to tell us that, in our fight against Evil, more than 200,000 of us unarmed, defenceless and innocent had been roasted during three days. A fool book’s voice can start talking. A full stop in the middle of our life.

 

 

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VIVERE E MORIRE A MILANO (CRONACHE METROPOLITANE)

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Un’anziana spogliarellista che non si arrende al tempo che passa, la tragi­ca follia di un ragazzo della comunità cinese, la donna col sedere più profumato della città, i clienti di un ben strano hotel, le performance notturne e i sogni frustrati di un bancario dotato di un membro gigantesco, la guerra dichiarata di due neonazi al telefono, la giornata senza scampo di un povero redattore di un mensile sportivo, il mondo esploso di un’adolescente enorme, il guaio di un giovane a cui ingrassa solo la testa, il terzo grado di un boss della mala.

Questi e altri insoliti personaggi popolano una Milano che vive alla luce del sole ma che più spesso assomiglia a un fantasma. Più che una città che si alza, lavora, mangia, si diverte e poi va a dormire, la fotografia in bianco e nero di un arredo urbano in movimento. Racconti in forma di cronache e cronache che raccontano una modernità priva di tempo. Una città che insegna a vivere. O da cui si impara presto come morire.

 

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