Federico Guglielmi: non sparate sul critico musicale

Federico-guglielmiRomano, ragazzo dei Sessanta, punto giovanissimo dal morbo della musica. A cui ha dedicato una vita. In epoca di Wikitutto la sua biografia potete comodamente cercarla dove sapete. Qui il tempo necessario per sottolineare che ben pochi come lui nel nostro Paese hanno contribuito a divulgare la musica per la musica e a offrire a musicisti al momento senza volto e senza nome uno spazio per far sentire la propria voce tra testate (Mucchio Selvaggio in primis), radio, libri, premi e produzioni discografiche. Un figlio di Alan Lomax, per intenderci. Ben degno del padre. Parole e musica di Federico Guglielmi.

01Te la senti di inquadrare il ruolo di critico musicale in Italia prendendo in considerazione i decenni dagli albori di questo mestiere?

«Se ci limitiamo all’ambito rock-pop e all’Italia, ci posso provare, senza grandi pretese di essere esaustivo perché la questione è maledettamente ampia e bisognerebbe effettuare un’infinità di distinguo. Se ti vanno bene alcuni flash…»

Iniziamo dagli anni Sessanta.

«Da quello che ho letto in tempi successivi, dato che sono nato nel 1960, nei nostri Sixties non si scriveva di certe cose con un approccio “critico” affine a quello che si è sviluppato dopo: si guardava ai fenomeni commerciali, al gossip che ancora non si chiamava così, all’impatto sul costume dell’epoca… le cosiddette canzonette, categoria nella quale rientrava tutto, non venivano approfondite più di tanto. Essenzialmente si trattava di commentare secondo criteri più superficiali.»

Nei Settanta?225874_10150199051428473_2246725_n

«Qui subentrò una differente visione del ruolo di “critico”, con tentativi di proporre analisi più approfondite e chiavi di lettura non sempre scontate; mi riferisco soprattutto a mensili come Muzak e Gong, più intellettuali e ricercati di Ciao 2001, che era settimanale e quindi più easy, o Nuovo Sound. Nell’ultimo scorcio di decennio si affermò una nuova tendenza, portata avanti da Il Mucchio Selvaggio e Rockerilla, che non disdegnava totalmente le derive di tipo concettuale ma metteva al centro l’informazione, per lo più a proposito di musiche che da noi erano conosciute solo da ristrette nicchie di appassionati.»

Siamo agli anni Ottanta.

«I giornalisti delle riviste “alternative” erano votati alla propaganda di generi pressoché invisibili per il pubblico standard e, più che la qualità dell’informazione, contava la tempestività dell’informazione stessa; insomma, c’era una durissima lotta per arrivare prima degli altri sulle novità di rilievo. Quelli dei giornali patinati, alla Rockstar, puntavano invece a spingere soprattutto artisti trendy e cool, con scritti spesso arzigogolati. Non mancavano punti di convergenza, ma era uno scontro di mentalità: Gun Club contro Duran Duran, John Mellencamp contro Bryan Adams. Gli Ottanta hanno anche registrato la nascita dei periodici di metal, che vendevano tanto, ma era un mondo a sé a me quasi ignoto.»

Nei Novanta?

«A chi scriveva di musica si richiedeva una buona attenzione anche per le culture che giravano attorno al rock e ai suoi dintorni. Inevitabile nel decennio dell’affermazione su vasta scala di hip hop, grunge, hardcore melodico, metal contaminato, rock italiano. L’underground non era più così underground, gli artisti stranieri che venivano in tour da noi erano numerosissimi, le notizie circolavano meglio, e il giornalismo di settore rifletteva la situazione. Scoprire i nuovi talenti era sempre fondamentale, ma rispetto agli ’80 c’era maggiore professionalità, maggiore dinamismo, maggiore malizia e minore puzza sotto il naso. Coolness e qualità potevano andare d’accordo, come ha dimostrato il successo di Rumore

E nel nuovo millennio?

«Internet ha cambiato le carte in tavola, ma tanti non se ne sono accorti e hanno continuato a operare come prima, magari proprio in Rete. Per come la vedo io, non aveva più senso puntare sulla tempestività, perché nella massima parte dei casi la carta arrivava dopo, né sulle solite recensioni descrittive, perché sul web chiunque poteva con rapidità e facilità “assaggiare” la musica di chiunque. Il giornalismo musicale doveva cercare l’approfondimento, scomodo, per il web, e la qualità della scrittura, fregandosene di arrivare “dopo” ma facendo di tutto per arrivare con autorevolezza. Esemplari, in maniera diversa e se vogliamo complementare, sono stati il mensile Blow Up e il trimestrale Mucchio Extra, quest’ultimo fondato da me nel 2001.»

Lester Bangs "bodyguard" di Bruce Springsteen
Lester Bangs “bodyguard” di Bruce Springsteen

Jon Landau, Greil Marcus, Robert Christgau, Lester Bangs: prodotti dei loro tempi, irripetibili oggi?

«Dipende. Sul piano della qualità di scrittura e della capacità di raccontare mondi nulla vieta che possano nascere talenti di pari livello se non addirittura superiori, ma se parliamo di possibilità di incidere profondamente, tutto lascia pensare che la figura del critico/giornalista “vate” sia tramontata per sempre. Al tempo esistevano pochi mezzi di informazione attorno ai quali gli appassionati di musica – che erano tanti, perché i giovani non si dividevano, come accade oggi, tra un’infinità di “distrazioni” – per forza di cose si raccoglievano, mentre da un tot di anni l’offerta è a dir poco folle, tanto per quantità di proposte musicali, quanto per il numero di persone che se ne occupano per hobby e in qualche caso professionalmente o quasi perché Internet consente loro di farlo. Le vendite delle riviste sono enormemente calate e pure chi continua a leggerle lo fa con uno spirito diverso perché la possibilità immediata di verificare con l’ascolto se quello che ha letto ha per lui senso oppure no lo rende spesso più superficiale. E Internet è un casino, con migliaia di luoghi virtuali, firme e input che si sovrappongono. Il ruolo del giornalista/critico si è molto ridimensionato.»

La perdita di appeal del tuo mestiere significa che non è più considerata un valore l’interpretazione culturale di ciò che si ascolta in un disco o di quel che va in scena su un palco. Sei tra quelli che puntano il dito contro Internet e leggono nella Rete le cause della situazione?

309046_10150421007929570_1893397605_n«Non posso puntare il dito contro la Rete perché farlo vorrebbe dire autocensurarmi: da oltre due anni ho un blog che ha pure vinto l’Independent Blog Award, curo una rubrica per un magazine di massa e non di nicchia come fanpage.it, quando ho un po’ di tempo libero mi affaccio su forum e pagine facebook altrui. E poi, a cosa servirebbe? Il mondo ormai è questo e bisogna per forza conviverci. Internet mi aiuta a documentarmi in modo più facile e rapido rispetto agli archivi tradizionali dei quali ho fatto uso per i miei primi vent’anni di carriera, e mi dà i bellissimi stimoli che derivano dalla pubblicazione in tempo reale e dal confronto istantaneo e diretto con i lettori, ma mi ha anche creato danni giganteschi. Andando sul prosaico, pensare di guadagnare dignitosamente scrivendo di musica nella Rete, in Italia, è pura follia, mentre all’epoca pre-Internet, almeno per chi sapeva farlo, non era affatto assurdo. Adesso non è che voglia mettermi a fare piagnistei, sia chiaro, ma mettiti nei miei panni: ho trascorso trent’anni della mia vita a studiare la musica e ad accumulare dischi, libri e riviste che costituivano la punk_guglielmi“conoscenza” da divulgare, ma di questo impegno, al quale ho dedicato tutto me stesso, non posso quasi più raccogliere frutti perché chiunque è in grado di avere accesso agevole e gratuito alle mie stesse conoscenze. Certo, mi rimangono l’esperienza accumulata sul campo che mi consente di “collegare i puntini” e una capacità di esporre il sapere attraverso le parole, con le spiegazioni del caso, in modi che credo risultino stimolanti, ma siamo sicuri che questo interessi a un numero di persone sufficiente a garantirmi introiti accettabili? Ormai la massima parte del pubblico, specie quello più giovane, è abituata alla fruizione fulminea, sintetica e superficiale della Rete, e quindi la vedo non dura ma durissima.»

Troppa musica facilmente ottenibile e ascoltabile significa zero musica ascoltabile?

«Estremizzando si potrebbe dire di sì, ma non amo granché le estremizzazioni.»

Pensi che il saper suonare uno strumento o addirittura essere in grado di leggere la musica sia un vantaggio per un critico o un’abilità che non aggiunge niente alla competenza che può acquisire altrove?

383345_262045387190273_845188346_n«Be’, dipende da come si scrive: se ci si limita a raccontare storie e leggende o a commentare solo “per impressioni” ciò che si ascolta, si può anche non saperne nulla, ma se ci si vuole addentrare in questioni più o meno tecniche sarebbe opportuno sapere di cosa si sta parlando. Non mi riferisco tanto al leggere la musica, in fondo non sanno farlo neppure tanti professionisti, quanto piuttosto al suonare o almeno ad avere cognizione dei principali strumenti e di come si usino. Da ragazzo ho provato chitarra, tastiere e batteria, ma la mia manualità piuttosto scarsa – pensa che scrivo al massimo con sei dita! – mi ha indotto a lasciar stare; in compenso, le produzioni artistiche degli anni ’80 mi hanno piacevolmente obbligato a trascorrere un migliaio di ore in studio di registrazione, e da quelle esperienze ho imparato moltissimo. Sensazioni ed emozioni sono importanti e parteciparle a chi legge ha una logica, ma un giornalista – ciò che sono: la parola “critico” non mi è mai piaciuta – dovrebbe anche inquadrare storicamente e culturalmente, contestualizzare, proporre chiavi di lettura e accostamenti, azzardare previsioni. Nonché saper costruire discorsi piacevoli da leggere per chiunque, dal neofita al superesperto. Dal 1974 ho assistito a una media di cinquanta concerti all‘anno, ho intervistato oltre cinquecento musicisti e ascoltato decine di migliaia di dischi, e sulla musica ho letto tantissimo: forse un po’ ne saprò, anche se non riconosco una biscroma.»

Hai fatto parte di una squadra di giornalisti musicali che, unica nel nostro Paese, pubblicava articoli al limite della letteratura. Al di là della disgregazione che ha colpito il Mucchio Selvaggio, il discioglimento di quell’esperienza senza che sia diventata una vera scuola va rubricato sotto la naturale voce “è la vita, bellezza”?

«Sì, direi di sì… è la vita. Però man mano sto caricando sul blog il mio archivio di articoli, interviste e recensioni, affinché siano disponibili a tutti. Sotto un certo profilo venderli sarebbe meglio, ma dato che non ci si riuscirebbe perché Internet ha abituato al gratis, tanto vale “fare lo splendido” e regalarli.»

Dal punto di vista professionale ti senti superato dai tempi?

«Direi di no. Diversamente da molti colleghi miei coetanei, che a lungo hanno continuato a preferire la macchina da scrivere al computer, mi sono adeguato con facilità ai cambiamenti. Continuo a seguire artisti esordienti e mi tengo per quanto possibile informato – la musica oggi in circolazione è troppa, troppa, troppa – su quello che accade. Dove fatico un po’, rispetto a quando ero giovane, è nell’entusiasmarmi per la musica “nuova”… tra virgolette, sì, perché molti 1509964_10153224840084570_7212018975767435370_nparlano di novità solo per ignoranza del passato. Mi avvicino a tutti i dischi con la speranza di trovarci qualcosa che mi cambierà la vita, o quantomeno che mi colpirà profondamente e a lungo, ma capita sempre più di rado. Me ne rendo conto perché, ogni qual volta mi va di ascoltare un disco solo per diletto, finisco per metter su roba di venti o più anni fa, o comunque di artisti classici. Le prime eccezioni che mi vengono in mente sono due band italiane, Il Muro del Canto e Ianva. Rispetto all’utilità del mio lavoro, ritengo che il valore aggiunto di quelli come me, al di là delle conoscenze e della capacità di raccontare, sia nel l’aver vissuto in prima persona tante vicende che ormai sono Storia. È lecito supporre che, considerato come io non sia un vecchio rudere rimasto legato al passato ma un addetto ai lavori con i piedi ben saldi nel presente, qualcuno sia interessato a quello che posso dirgli e spiegargli, specie in termini di visione d’insieme, di evoluzioni, di collegamenti. Il fatto che i ragazzi con i quali vengo a contatto non mi reputino un nostalgico fuori dal mondo e magari pure rincoglionito, bensì una specie di fratello maggiore, mi rende orgoglioso e felice.»

Invecchia Mick Jagger e lo fa pure Bob Dylan. Joni Mitchell non si fa più vedere in giro perché ha problemi con la pelle. Lou Reed e David Bowie sono addirittura morti. Non è che forse è la musica a essersi compiuta ed è quella roba che abbiamo chiamato rock a essere sorpassato?

David-Bowie-Iggy-Pop-Lou-Reed-cult-music-musique-musica-party-cultstories«Non credo si possano avere dubbi sul fatto che il rock così come l’ho conosciuto io quaranta e più anni fa abbia perso la sua “centralità” fra i giovani; il rock e in genere la musica, quella concepita come mezzo di elevazione culturale e non solo come intrattenimento. Un paio di giorni fa mia sorella mi ha chiesto suggerimenti per una ricerca assegnata dalla scuola a suo figlio tredicenne: il tema, Fabrizio De André. Alla sua età, era il 1973, possedevo tutto quello che De André aveva inciso fino a quel momento, sapevo a memoria l’intero repertorio, confrontavo l’Antologia di Spoon River che mi ero fatto regalare a Non al denaro, non all’amore né al cielo e cercavo con fatica di capire quella strana faccenda dei vangeli apocrifi… e non è che ero strano, con i miei coetanei era normale parlare di questi argomenti oltre che di sport e, solo sul piano teorico, di ragazze, la politica sarebbe arrivata poco dopo. Mio nipote ha detto a mia sorella: “Ah, mamma, devo fare una ricerca su uno”. Su… UNO? Fabrizio De André, l’artista al quale in pratica devo la mia passione per la musica e la cultura? Non ho ancora avuto il coraggio di domandare a mio nipote se è “uno” pure Bob Dylan, ho troppo paura della risposta.»

Si è passati dal voler cambiare il mondo con la musica e con gli articoli e le trasmissioni che la divulgavano al voler modificare solo il nostro personale stare al mondo. Ora neanche più quello, mi pare. Perché oggi si continua a fare musica all’interno di un’industria musicale?

guglielmi - luna«Si continua a fare musica per le stesse ragioni per le quali la si è sempre fatta: per esprimere se stessi, perché aiuta a rimorchiare, per voglia di protagonismo ed esibizionismo, per soldi… e, almeno per alcuni, perché si crede ancora, secondo me giustamente, che possa cambiare qualcosa a livello culturale, sociale, emotivo. E dato che la musica muove comunque tanto denaro, e lo fa a più livelli, c’è un’industria dalla quale non si può restar fuori, a meno che non si voglia rimanere a suonare nella propria cameretta o in cantina.»

È cambiato oggi il rapporto tra case discografiche e media?

«Ci pensavo qualche settimana fa, quando ho pubblicato alcuni articoli parecchio critici a proposito degli ultimi box antologico-celebrativi di De André, Guccini e Daniele. Se fino a una decina di anni fa li avessi fatti uscire su una rivista specializzata, avrei ricevuto telefonate di deplorazione e più o meno velate minacce di finire sul libro nero, mentre adesso – benché quegli scritti siano usciti in Rete, per di più su un magazine frequentatissimo come fanpage.it – non mi ha cacato nessuno. La mia impressione è che alle case discografiche non freghi nulla di quel che viene scritto da chiunque… o, forse, viene scritto talmente tanto, e tutto è talmente rapido, che starci dietro è impossibile… Un altro cambiamento è che, in passato, un addetto ai lavori di un certo livello riceveva quintali di dischi, mentre ora arrivano quasi solo file… che spesso sono pure inutili, visto che magari quel disco è già disponibile ufficiosamente in Internet.»

Nella crisi dell’editoria quali sono, se le individui, le responsabilità dei giornali specializzati?1923920_25115084569_8731_n

«È un fenomeno che riguarda l’editoria di ogni genere e in tutto il mondo, non so quanto lo si sarebbe potuto arginare. Limitandosi all’editoria musicale, la stampa è stata forse un po’ lenta a comprendere che il web avrebbe portato una rivoluzione epocale e non ha saputo trovare un sistema per sfruttare a suo vantaggio, anche solo per “resistere” di più, le potenzialità della Rete. Su quale avrebbe potuto essere questo “sistema”, però, non saprei che dire; di sicuro, aver visto subito Internet come un nemico, invece che come un ipotetico alleato, è stato disastroso, ma dubito che, tornando indietro nel tempo con la consapevolezza di quello che è accaduto, saprei indicare la retta via.»

È utopico che nella tv generalista si possa proporre musica al di fuori dei talent?

«A quanto pare, sì. Con rare eccezioni, non c’è interesse alla musica in quanto musica, ma occorre fare spettacolo, e spettacolo per tutti. A questi “tutti” la musica non basta.»

Una proposta tipo “Mr. Fantasy” sarebbe irrealizzabile?massarini

«Carlo Massarini faceva per Rai5 un bel programma in fondo affine al glorioso Mr. Fantasy, cioè, Ghiaccio bollente, che oltretutto necessitava di un budget minimo. Gliel’hanno cancellato dal palinsesto poche settimane fa. Non sarebbe affatto irrealizzabile, ma vallo a spiegare a quelli che stanno nelle stanze dei bottoni.»

Musica e critica: com’è invece la situazione nelle radio?

«Il web ha reso potenzialmente universali le trasmissioni di piccole emittenti che altrimenti avrebbero avuto diffusione solo locale; quindi, se lo si sa trovare, c’è di tutto e di più, per ogni gusto. Nel campo della radiofonia classica, invece, i grandi network pensano solo alla musica per le masse e alle spettacolarizzazioni: la buona musica, per loro, non può essere sufficiente. E non lo è neppure per la Rai, dove però – per fortuna – non mancano vari spazi di resistenza al malcostume. Potrebbero essercene di più e quelli che ci sono non è automatico che siano gestiti dalla gente “giusta”, ma che ci siano ancora, con questi chiari di luna, è ottimo.»

Sei globalmente soddisfatto di quello che hai realizzato in tutti questi anni?

100dischi«Assolutamente sì. Sono stato fortunato a poter fare della mia vita esattamente quello che ho voluto, raccogliendo una serie di esperienze irripetibili, conoscendo un’infinità di persone straordinarie, divertendomi tantissimo. È ovvio che ho comunque dovuto faticare un bel po’, perché il lavoro è sempre lavoro, ma il piatto della bilancia pende nettamente a favore della soddisfazione nonostante non tutto sia andato proprio come avrei desiderato. Non posso negare, ad esempio, che il distacco dal Mucchio e dal Mucchio Extra sia stato piuttosto traumatico, ma ormai sono trascorsi quasi tre anni e ho assorbito il colpo. È stato davvero brutto scoprire che persone con le quali credevo di condividere dei principi e degli ideali avessero come obiettivo primario fare la bella vita grazie ai contributi statali all’editoria, ma confido che il destino presenterà loro il conto… anzi, direi che lo sta già presentando. A sembrarmi davvero fuori dal mondo è che Max Stefani, a differenza della sua ex socia che almeno ha il buon gusto e la furbizia di stare zitta, non perde mai occasione per attaccare, insultare e diffamare me e altri colleghi ex Mucchio che al massimo ci concediamo qualche risatina di scherno per il brillante prosieguo della sua carriera, spesso citando a sostegno cose scritte da lui stesso. L’ha fatto da poco sul tuo blog, lo fa su Facebook, lo fa ovunque capiti… Una delle controindicazioni della Rete è che permette ai fantasmi di far credere, naturalmente a chi vuole crederci, di essere ancora vivi.»

Se niente è mai definitivo e finché c’è vita c’è speranza: quale nuova direzione può prendere la tua professione perché non si parli più di essa come un oggetto da collezionista del passato?

1748_39307444569_9038_n«Credo che qualche spazio cartaceo, virtuale e radiofonico continuerà comunque a esserci, perché – come accennavo in precedenza – il pubblico non dovrebbe estinguersi. Magari il recensore vecchia maniera non ha più senso, ma le dannate recensioni sono solo un aspetto, nemmeno tanto importante, della mia professione; ci sono gli articoli di carattere storico, le interviste, le “guide” ad artisti e generi, i libri, le trasmissioni radio… tutte cose che interessano, sempre che siano portate avanti con competenza, credibilità e bravura/simpatia nel comunicare. Se ho ragione, e se la salute non smetterà di sorreggermi, rassegnatevi: dovrete sopportarmi come minimo per altri trent’anni.»

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VIVERE E MORIRE A MILANO (CRONACHE METROPOLITANE)

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Un’anziana spogliarellista che non si arrende al tempo che passa, la tragi­ca follia di un ragazzo della comunità cinese, la donna col sedere più profumato della città, i clienti di un ben strano hotel, le performance notturne e i sogni frustrati di un bancario dotato di un membro gigantesco, la guerra dichiarata di due neonazi al telefono, la giornata senza scampo di un povero redattore di un mensile sportivo, il mondo esploso di un’adolescente enorme, il guaio di un giovane a cui ingrassa solo la testa, il terzo grado di un boss della mala.

Questi e altri insoliti personaggi popolano una Milano che vive alla luce del sole ma che più spesso assomiglia a un fantasma. Più che una città che si alza, lavora, mangia, si diverte e poi va a dormire, la fotografia in bianco e nero di un arredo urbano in movimento. Racconti in forma di cronache e cronache che raccontano una modernità priva di tempo. Una città che insegna a vivere. O da cui si impara presto come morire.

 

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