Max Stefani: ho tante cose ancora da raccontare e a culo tutto il resto

OLYMPUS DIGITAL CAMERACome una band epocale. Come Lester Bangs. O lo ami o lo odi. Precise scelte professionali e altrettante decisioni esistenziali lo hanno progressivamente spinto ai margini del grande palco dell’editoria musicale, ma nessuno potrà mai cancellare due fatti incontestabili: 1) creò dal niente la rivista che per tre decenni si sarebbe imposta come la Bibbia+Vangelo del vero cultore italiano di rock (il Mucchio Selvaggio) e 2) ha mirato ancora più in alto dando forma a un mensile che raccogliesse il meglio del meglio del rock mondiale, una sorta di Internazionale della musica che poi ha fatto la fine del Titanic (Outsider). Nel mezzo c’è lui, Max Stefani. Questa la nostra chiacchierata.

Sliding doors: se non fosse accaduto quell’evento o non si fosse verificata quell’altra situazione avremmo conosciuto un’altra storia nel rock. Su cosa cade la tua scelta?

«Alla fine si torna sempre alla Sun Records. Il momento in cui qualcuno capì che la musica dei neri poteva essere adattata, opportunamente modificata, ai bianchi. Ciò accade in contemporanea alla nascita del “tempo libero” del teenager, che era il consumatore per eccellenza, aperto a qualsiasi forma di manipolazione, a una maggiore sun studiodisponibilità finanziaria del popolo e alla nascita della società dei consumi. Questi tre fattori sono stati il Big Bang. Nell’Europa stremata dalla guerra bisogna aspettare qualche anno. In Inghilterra accadde con la nascita dei Beatles e a seguire gli altri paesi europei. Con esclusione della Spagna, sotto la dittatura, e dell’Italia che è un paese a parte. I Beatles vennero fatti baronetti non per la qualità della loro musica ma per aver salvato la bilancia commerciale del Regno Unito.»

Dopo sessant’anni di rock, come definiresti il mondo States e quello UK?

«Ormai si sono uniformati anche se negli Usa continuano a preferire gli stadi ai piccoli club. Non era così negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. In America i piccoli club praticamente non esistevano e questo circuito prettamente inglese faceva sì che i due mercati fossero molto differenti. In termini di cifre. I gruppi inglesi facevano i soldi solo quando riuscivano a suonare in Usa. Vedi i Led Zeppelin per esempio che saltarono proprio il mercato inglese.»

Per tua formazione e personale piacere, quale dei due?

«Decisamente quello inglese. Anche forse perché questo l’ho vissuto, avendo avuto la fortuna di passare molte estati della seconda metà degli anni Sessanta e nei Settanta a Londra.»

La parola oggi è parecchio svalutata per usura nell’uso, ma esiste o è mai esistito un genio nel rock?

hendrix«Come Beethoven o Mozart nella musica classica o Charlie Parker e John Coltrane nel jazz? Si entra nei gusti personali anche se i nomi, un centinaio, sono quelli. Li conosciamo tutti. Poi ognuno può fare la sua lista. Siccome la genialità è spesso legata alla follia forse quelli che hanno sbroccato di più, magari anche facendo una triste fine. Jimi Hendrix sicuramente lo era. Anche Nick Drake. Per me sicuramente Peter Green. Ma, ripeto, i nomi sono tanti. David Bowie? Sicuramente. Ma anche Randy Newman, Ry Cooder, Keith Richards… Chi più ne ha più ne metta.»

Tra tutti i movimenti musicali, qual è stato il più dirompente?blues

«Bisogna dividere tra ritorno economico e influenza sulla propria generazione o sulle successive. Probabilmente il rock and roll metà anni Cinquanta. Jerry Lee Lewis, Presley, Eddie Cochran, Gene Vincent divennero punto di riferimento per i giovani americani e inglesi, che abbracciarono questi ragazzi loro coetanei come se fossero un vero insulto all’intera struttura delle convenienze morali dei genitori. Il rock and roll era sfacciato, fragoroso ed esaltante: fu come un terremoto. Ma come non dire il rock degli anni Sessanta? Ma dovendo scegliere direi… il blues. Questa musica nata dai canti degli schiavi africani mischiati alle influenze europee portate in America dagli inglesi, tedeschi, polacchi, irlandesi, scozzesi… Da lì è nato tutto anche se esiste un pop inglese che forse ha poco a che vedere con il blues, ma è solo un’apparenza. Forse il progressive è l’unico genere che si discosta dalle radici nero-americane. In Giappone ne vanno ancora pazzi. E in Italia, anche per colpa della stampa dell’epoca e forse delle nostre radici. Del resto che c’entriamo noi con il blues? Infatti noi italiani abbiamo sempre più apprezzato il rock inglese che quello americano. Più vicini ai Beatles che agli Stones.»

 Quale il decennio più ricco quanto a idee, fermenti, coraggio, innovazione, sperimentazione?

«Be’, facile a dirlo. Gli anni Sessanta sono irripetibili. Quello che è successo in quei sette, otto anni è incredibile. E fu una cosa naturale.»

Se mai lo è stata, quando la musica ha perduto l’innocenza?

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Bill Graham

«Fine anni Sessanta, dopo Woodstock, Monterey eccetera, quando l’industria capì che il rock poteva portare milioni di dollari. E lì anche i musicisti si calarono le brache. Perché è difficile rimanere se stessi quando passi dalla bicicletta alla Ferrari. Quasi tutti diventarono parte di quel gioco, a volte rimanendone anche bruciati. Poi negli anni a venire c’è chi ha continuato a produrre ottima musica ma l’innocenza si è perduta intorno al 1968-1969. Bill Graham ebbe modo di dire: “Un artista saliva sul palco e diceva: Riuniamoci, lottiamo, condividiamo e comunichiamo, poi montava sul suo jet privato e volava verso la sua isola per giocare con il suo impianto di registrazione a 16 piste. Era ipocrisia pura.»

Per almeno due decenni abbiamo pensato che una rockstar o una band potesse cambiare il mondo, proiezione da cui ci siamo svegliati con la sensazione che qualcuno ci avesse in qualche modo rubato i nostri sogni. Come dicono gli anglosassoni, abbiamo troppo vissuto lost in romance. Siamo noi ad aver sbagliato?

«Siamo stati portati a crederlo dall’industria discografica. Non potevamo farne a meno. Ma era falso. Ma bisognerebbe cercare di capire come è stato possibile che la musica rock abbia assunto nella metà degli anni Sessanta un’importanza che travalicava il campo strettamente musicale. E l’importanza del rock come veicolo di uno stile di vita, di una mentalità sociale coerente la si può notare in un manifesto pubblicato all’epoca da un giornale underground di San Francisco: “I principi del rock non si limitano alla musica: il futuro oggi si delinea in gran parte nelle sue aspirazioni (e precisamente libertà totale, esperienza totale, pace e affetto). Il rock è un modo di vivere internazionale che sta diventando universale; non può essere fermato, rallentato, eliminato, attenuato, modificato o controllato. Il rock è un fenomeno tribale al riparo da qualsiasi definizione… E rappresenta quella che si potrebbe definire una forma di magia del XX secolo”. All’epoca ci siamo cascati tutti. Ma già dagli inizi degli anni Settanta sarebbe dovuto diventare una cosa chiara a tutti. Ma molti ci sono caduti ancora.»

La parola nelle canzoni: le migliori liriche parlano alle più grandi e celebrate poesie senza dover abbassare lo sguardo? cop7_bassa

«Probabilmente sì. Anche per la capacità di racchiudere il tutto in 20 parole. Chuck Berry in questo era un genio. Poi c’è chi cercava testi più complessi, che raccontassero storie più compiute e profonde. Che so, da Leonard Cohen a Randy Newman. Ma il rock è sempre stato veloce, questa è sempre stata la sua forza. E poi non dimentichiamo che per noi italiani, al 99% digiuni d’inglese, i testi non sono mai contati. Per noi la voce era, ed è, uno strumento. Che cazzo ne capivamo di quello che urlava Robert Plant? Ci piaceva come urlava, la sua voce.»

Fare rock in lingua italiana cosa è? un’utopia, una fesseria, una realtà che ci ha regalato pezzi memorabili…

«Il rock non è mai stato una cosa italiana. Non ci appartiene. Non l’abbiamo mai capito e mai lo capiremo. L’abbiamo sempre visto attraverso uno specchio distorto. Siamo stati e siamo ai confini dell’impero. Figuriamoci quello cantato in italiano. Ciò non toglie che sono state scritte un centinaio di belle canzoni ma quando le sentono in Inghilterra o Usa si mettono a ridere. Per loro la musica italiana continua a essere Volare, ’O sole mio e Bocelli. Sempre che non si parli del Sud America o di eccezioni come la Nannini in Germania.»

Capitolo editoria: quale penna ti sei mai goduto (se mai ce n’è stata una) quanto e come l’ascolto di una canzone o di un album?

«Ho avuto molti collaboratori bravi nei miei tanti giornali. Di solito mi piacciono quelli che ci mettono sangue, cuore, che riescono a emozionarti, a farti sentire le loro emozioni. Penso a Zambellini, Vites, Trombetti e pochi altri. Non sopporto quelli freddi, che fanno un compitino in perfetto italiano ma suonano falsi lontano un miglio. Che scrivono di cose lontane dalla loro realtà. Se poi sai come sono nella realtà il gioco si smaschera facilmente. Al Mucchio purtroppo ne sono passati molti. Per colpa mia certamente che li ho tirati fuori dall’anonimato in cui vivevano e in cui dovevano restare. I vari Cilìa, Guglielmi, Vignola, Besselva, Pasini e compagnia bella. Ripenso sempre a quella considerazione di Philip Lee Roth secondo il quale la ragione per cui ai critici piaceva Elvis Costello era che loro gli assomigliavano. Grande osservazione metafisica. Ti faccio un esempio. Maurizio Bianchini. Ha scritto sul Mucchio dal 1982 al 1988. Non capiva e non sapeva niente di rock ma scriveva in maniera sublime e tu… ci cascavi. Gli davi gli input giusti e lui partiva. Che invidia! Poi era quanto di più lontano dal rock potesse esistere. Veniva da 10 anni di seminario?!?»

Editoria musicale di casa nostra: anche qui Italia periferia dell’impero?

$_57«Direi proprio. Abbiamo sempre riportato tutto di seconda mano. Per carità, andava bene perché meglio qualche giornale copiato e mal scritto che niente ma con l’avvento di internet sono diventati inutili. Non è un caso che si siano ridotti tutti a una sorta di fanzine. Ci metto anche il Mucchio ovviamente. Anche se nel periodo ’88-’96 abbiamo fatto un giornale che si avvicinava a qualcosa di originale. Voglio dire che il Mucchio (o Rockerilla nei primi anni o come Gong o Muzak negli anni Settanta) è stato importante per far conoscere determinati artisti in Italia (penso a Bruce Springsteen) ma eravamo veramente poca roba. Certe cose scritte da Ciao 2001 negli anni Settanta meritavano la fucilazione. Eppure per noi erano verbo. La rivista perfetta è stata Outsider, che traduceva il 99% dall’estero, anche se era un giornale che all’80% si occupava dei grandi artisti del passato, magari approfittando di qualche ristampa o compleanno. Loro erano più bravi. Uso il passato perché ormai è tutto finito. Non vale neanche la pena recensire un disco e sinceramente provo molta commiserazione per i vari direttori dei giornali che ancora vanno in edicola. Deve essere distruttivo inventarsi ogni mese un giornale senza niente sotto le mani. Vendono fumo.»

È vero che non fa mai bene chiedere all’oste un giudizio sul vino che vende, ma più volte sei stato critico fino all’autodileggio su determinate tue scelte professionali, quindi vale la pena domandartelo: cosa davvero ha dato il Mucchio Selvaggio agli appassionati di rock in Italia?MS

«Nei primi anni ha fatto scoprire tutto il rock americano quando in Italia veniva osteggiato da tutti. A parte CSNY e pochi altri. Dico dagli Allman Brothers ai Lynyrd Skynyrd, passando per Bob Seger, Springsteen, Ry Cooder, la Band, tutta la scena country-rock, vedi Eagles, Flying Burrito Brothers, Byrds. Questa cosa è continuata anche negli Ottanta e in minor parte nei Novanta. Poi è stata molto importante anche per la parte politica/sociale ma è un’altra storia. Più che altro è stato un punto d’incontro per gente che si ritrovava nella stessa musica, ma anche cinema o libri, in un certo modo di vivere. Un mondo a parte. Inoltre è stato l’unico giornale musicale in cui chi leggeva sentiva di far parte di una famiglia. C’era affetto, stima. Ancora oggi c’è gente che lo compra solo per affetto. Poi neanche lo legge, anche perché fa schifo.»

Parecchie testate musicali hanno chiuso, quelle che restano in piedi non se la passano niente bene dal punto di vista economico, al punto che spesso non pagano chi firma i pezzi. Sembra che la figura del critico musicale sia stata superata dai tempi. Tu ti senti una vecchia ciabatta?

Billy Bragg era Extra
Billy Bragg era Extra

«Diciamo che è un mestiere finito. Sempre che sia esistito. Il problema sta nella triste constatazione che è il rock che è finito. Escono ancora una ventina di dischi l’anno decenti ma è veramente poca cosa rispetto a quanto ha dato il passato. E poi è stata la Rete a soffocarci. Che senso ha comprare giornali scritti male, raffazzonati quando premi un tasto e puoi leggere di tutto e di più, ascoltare, vedere, scaricare e tutto gratis? Dovesti offrire un prodotto di alta qualità ma non ne vedo. Forse in Italia la cosa si fa sentire maggiormente perché si sa che abbiamo sempre letto poco, ma ormai anche all’estero sta morendo tutto. Anche Mojo è sceso di qualità negli ultimi anni, si vede da come è stiracchiato, e prima o poi chiuderà. Tutto passa.»

Sei sempre stato un personaggio amato o odiato. In Rete girano storie poco edificanti, ti descrivono come un bandito, anche ai limiti della diffamazione. Che non sai scrivere, che sai solo copiare. Altri ti darebbero in mano la propria figlia e per loro sei un mito. Dove sta la verità?

alla feltri crazy«Io mi sono sempre considerato più un direttore/editore che un giornalista o un critico musicale. Diciamo un allenatore/giocatore. Il ruolo del direttore è spesso quello di far giocare quelli più in forma, quelli che fanno squadra e non avere scrupoli nel cacciare uno che ti gioca contro. Corri il rischio di farti molti nemici. A volte devi essere stronzo. Fa parte del gioco. Se poi sei anche editore, quindi sono in gioco i tuoi soldi, allora la cosa è ancora più difficile. Devi mediare in qualche modo perché un giornale è un’attività e alle banche non gliene frega niente che vuoi fare una copertina su Randy Newman o Jerry Jeff Walker. Ma tieni conto una cosa. Più la gente ti deve riconoscenza e più ti odierà. Fidati. Ho cominciato a scrivere di musica nel 1971, 44 anni fa. Quanti articoli, inchieste e interviste? Un migliaio? Di più? Qualcosa avrò imparato, no? Però è vero quando dicono che so poco di grammatica, che non ho una scrittura brillante. Purtroppo sia alle medie sia al liceo ho studiato poco. Mi piaceva di più divertirmi. E non mi dispiace. Nel tempo sono migliorato ma la consecutio temporum non è cosa per me. Però ho un orecchio come pochi. E soprattutto sono sempre stato sincero e ho sempre scritto quello in cui credo con profondo rispetto per il lettore. E non mi sono mai venduto il culo, pagando tutto sulla mia pelle. Pochi possono dirlo. Sul “copiare” anche lì si rimescola nel torbido. In Italia tutti abbiamo sempre copiato dagli inglesi e dagli americani. Si leggono tanti libri, tante riviste, si ascolta tanta musica e poi si scrive. Gira e rigira, puoi essere bravo quanto vuoi, ma non è mai farina del tuo sacco. Faccio sempre il caso di un mio ex-collaboratore di Torino che si vanta di essere un “maestro”. Non ha mai visto un concerto se non nella sua zona, non ha neanche il passaporto, mai intervistato nessuno, mai andato in tour con una band, mai andato a un party eppure pensa di essere Cristo sceso in terra. È come un laureato con il massimo di voti in chirurgia che non ha mai visto un corpo umano dal vero. Tu ti fideresti a farti operare da lui? Eppure c’è gente che ci casca. Come quell’altro con l’Ultima Thule. Non hanno mai capito l’essenza del rock and roll che è proprio sex, drugs and… FUN. Tutta gente che si prende troppo sul serio. Che non ride mai. C’è un sito che è fatto molto bene. Si chiama OndaRock. Articoli scritti bene, profondi, in buon italiano, ma… con che autorità? Sono tutti ragazzi italiani che non c’entrano niente con il rock. Boh. Come trovo inutile Rock.it. Però mi rendo conto che per il mercato italiano forse ha un senso. Insomma bisogna pur campare tutti quanti, no? Io l’ho fatto e ci ho campato per 40 anni. Divertendomi pure. Non esiste nessuna legge che vieta a un italiano di scrivere di rock per fortuna. Come non ne esiste una che vieta a un californiano di scrivere di calcio italiano.»

Un peccato che Outsider sia finito così presto, ma ormai ti consideri in pensione o cosa?Copia di libri ambedue

Outsider è stato il mio canto del cigno. L’unica rivista che poteva avere un senso oggi. Ripescare il passato eroico della nostra musica attraverso le voci di chi l’ha vissuto. Bellissimo e anche con un ipotetico target immenso. Cioè tutti gli over 50 che sono cresciuti con quella musica. Target alto con bella carta, bellissime foto. Purtroppo non avevamo i mezzi per farci conoscere e la situazione economica del nostro Paese non ci ha aiutato. Tuttavia stavamo crescendo, ormai vendevano come i vari Mucchio o Blow Up ma il socio finanziatore si è ritirato. Bastava qualche altro mese e avremmo anche cominciato a recuperare l’investimento iniziale. Peccato. Comunque lo ringrazio per averci creduto e alla fine perduto dei soldi. Purtroppo non siamo riusciti a trovare qualche editore interessato. Ne è servito a niente il crowdfunding. Avevo un giornale in pari tra entrate e uscite che poteva solo crescere ed è stato fatto morire così. Inoltre mi trovavo bene con il mio braccio destro, Giancarlo Trombetti, con la grafica… un ottimo team. Una boccata d’ossigeno perché gli ultimi anni al Mucchio, dove avevo tutti contro, è stata veramente dura. Adesso basta giornali. Mi limito a fare un libro l’anno, anche perché devo pur pagare l’affitto. Nonostante quello che scrive il “venerato maestro” è vero che mi sono divertito nella mia vita lavorativa ma non ho fatto certo i soldi. Questo libro su Page, Clapton, Green e Jeff Beck (I 4 Cavalieri dell’Apocalisse, nda) è veramente una bella cosa. Preziosa direi. E poi nessuno ha mai fatto un cosa del genere. A proposito, chi è interessato può richiedermelo alla mail max@outsiderock.com.»

Musica e tv: al di là dei festival, partimmo con Per Voi Giovani, passammo attraverso Mr. Fantasy, poi, cito a caso, fu il turno di trasmissioni come L’Orecchiocchio, D.O.C., Taratata per arrivare ai talent di oggi. Che storia è stata?

«Una storia molto simile a quella della carta stampata. Anche se qualcosa di buono da un punto di vista di noi rocker c’è stato. Sia a livello di tv sia di radio. Inutile fare i nomi. Purtroppo anche lì è stato nel tempo buttato tutto alle ortiche. Un patrimonio enorme. Basta pensare a come è finita Stereonotte. Oggi è calma piatta.»

Hai vissuto in pieno il tempo delle eroiche radio libere. Sbaglio o lo spirito che animava il tuo storico mensile era lo stesso che teneva in piedi stazioni che, quando si trattava di trasmettere musica, non avevano in testa altro che il valore della musica in sé?

«Sì. Esatto. Con i giornali forse è durata di più perché le radio hanno presto abdicato a quanto di bello c’era alla loro nascita. Oggi non si riesce più ad ascoltare un bel pezzo di musica. Eppure volendo si potrebbe fare e sicuramente avrebbe un mercato. Perché c’è tanta gente che accende la radio nella speranza di ascoltare qualcosa di buono e dopo aver smanettato per dieci minuti spegne bestemmiando. A volte mi capita di sentire Massimo Cotto a Virgin Radio, sono pochi minuti, ma mi si apre il cuore. Si potrebbe ma nessuno lo fa.»

Qual è stato l’ultimo disco che ha cambiato il corso della storia del rock?

«Uhm. Domanda troppo difficile. La domanda è “ci sono dischi singoli che hanno cambiato la storia del rock?”. Ah, saperlo! L’ultimo poi è impossibile.»

Requiem per un oggetto rotondo che, inserito in un certo supporto, produce della musica. Era inevitabile finisse così?

«Intendi il cd? È stata una grossa fregatura. Ce l’avevano dato per indistruttibile e non era vero. Quando è uscito hanno aumentato il prezzo con la scusa degli investimenti e promettendo che sarebbero tornati indietro e non era vero. Adesso che tutti viaggiano sui file e il cd sta morendo come la mettiamo?»Copia di max after bathing

Il vinile è rinato dalle sue ceneri. Stimi che la stessa sorte possa accadere al cd?

«I numeri del vinile sono troppo piccoli per pensare a un’inversione di tendenza. Rimarranno un gioco per pochi eletti. Un discografico mi diceva che l’idea delle case discografiche è quella di razzolare ancora qualcosa approfittando della passione di pochi eletti. Prima che non esista più neanche un supporto fisico.»

Ultimamente Francesco Guccini ha affermato: «Non ascolto più la musica di questi ultimi anni, non tanto perché sia brutta, semplicemente perché la trovo inutile». Tipico atteggiamento tranchant dello snob o ha ragione?

«Ha ragione.»

Cofanetti dai prezzi impossibili contenenti cd che ripetono all’infinito la medesima canzone in monconi diversi, dischi che omaggiano artisti che c’entrano poco con chi li interpreta o che vivono sulla delicata fortuna di una traduzione, album in cui accanto ai vivi si fanno cantare i defunti. Ma il catalogo deve essere per forza questo?

«Be’. sì. Poi c’è qualcosa più buono e tanto di superfluo. Ma è facile infierire sui fan.»

woody guthriePadre, Figlio e Spirito Santo del rock.

«Woody Guthrie, Bob Dylan, Springsteen.»

Il musicista o il gruppo più sopravvalutato.

«Anche qui è questione di gusti. Cito solo gente famosa. Di getto scelgo i Grateful Dead. A parte Anthem of The Sun e Bear’s Choice mi hanno sempre fatto dormire. Vanno bene se sei fatto di acido, ma come possa uno nato a Gallarate, che al massimo si è fatto del rosmarino, impazzire per i Dead è un mistero. Poi dico Genesis, di cui non vado oltre Nursery Crime, Soft Machine, due palle, scusa ma preferisco il jazz vero e Velvet Underground dei quali salvo White Light/White Heat, ma tutta la montatura intorno è esagerata. Poi vediamo… i Ramones, la stessa canzone moltiplicata per 50, AC/DC, Kiss, Nirvana, Pink Floyd, okay la chitarra di Gilmour, ma mai amati e poi grateful deadandrebbero bastonati solo per quella ciofega di Ummagumma, Jethro Tull, okay i primi due, tre dischi ma il seguito…, Captain Beefheart, Sex Pistols, Queen, Yes, Journey, Boston, Foreigner, Boston, Van Halen. Oddio, sicuramente me ne sono scordato qualcuno di fondamentale. Tra i più recenti Green Day, King of Leon, Muse, Pearl Jam, Coldplay, Linkin Park, Ma guarda aggiungo anche band come Hüsker Dü, Social Distorsion, Black Flag, Dead Kennedy’s e compagnia anche se qualcuno s’incazzerà. Ti piace l’hard rock punk californiano che è quanto di più distante da quello che sei? Okay, sono contento per te ma per favore non ci rompere i coglioni. Ti dirò anche che tanto di cappello per Who’s Next ma mai sopportato Tommy, Quadrophenia, la voce di Daltrey e il drumming di Moon. Ti metto anche un nome italiano. CCCP. Dio che palle!»

Invece, la Storia è stata bastarda con…?

«Con tanti. Molti sconosciuti perché per tutta una serie di ragioni non erano al posto giusto nel momento giusto. Altri non avevano le palle per reggere una situazione, quella di musicista, che non è così semplice come la si fa. Ovviamente quelli morti troppo presto come Nick Drake o Tim Buckley o quelli che sono sopravvissuti ma molto male. Vedi Peter Green o Syd Barrett.»

I tuoi dieci musicisti preferiti? Insomma quelli che non riesci a non ascoltare almeno una volta tutti i mesi.

randy newman«Uhm… Fleetwood Mac, Randy Newman, Bruce Springsteen, Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd, Animals, Yardbirds, John Mayall, James Brown, Bob Dylan, Rolling Stones, Beatles, Hendrix, Traffic, Band, Spirit, CCR, CSN & Young, Led Zeppelin, Nick Drake, Sly and Family Stone, Muddy Waters, Tom Petty, Jonathan Richman, Xtc, T-Bone Walker, Johnny Burnette, ZZ Top, Kinks, Little Feat, Ry Cooder, Howlin’ Wolf…»

 

exile_on_main_stDovessi partire stasera per l’isola deserta i 5 dischi che ti porteresti dietro?

«Ehm… Exile on Main Street degli Stones, At Fillmore East degli Allman Brothers, Boston Box 1970 dei Fleetwood Mac, Lubbock (On Everything) di Terry Allen, John Barleycorn Must Die dei Traffic. Ah… forse Rock N Roll Animal di Lou Reed come extra.»

Quale canzone ti sarebbe piaciuto scrivere?

«Almeno un centinaio. Wild Thing di Chip Taylor o Bad To The Bone di George Thorogood. Ma basta che me ne assegni una delle seguenti e mi fai contento: Paint It Black degli Stones, Louie Louie, Mr. Bojangles, Moondance, Imagine, Stand By Me, I Heard It Through the Grapevine, Sympathy for the Devil, Lola, All Right Now, Paranoid, Whola Lotta Love, You Really Got Me, La Grange, Gang a Gong (Get It On), Gimme Some Lovin’, Dancing In The Street, All Along the Watchtower, Thunder Road, Johnny B. Goode, For What it’s Worth, Knockin’ on Heaven’s Door, Oh Well, Who’ll Stop The Rain, Bad Moon Rising, Cocaine, Dear Mr. Fantasy, Born To Run, White Rabbit, Sunshine of Your Love, Werewolfes of London, Day Tripper, Running on Empty… ma guarda, anche Fly Me To The Moon, quella cantata da Sinatra.»

Il tuo primo album acquistato: titolo, quanti anni avevi, dove l’hai comprato, se te lo ricordi, il costo.

animalization the animals«Credo un best di Percy Sledge e uno di Ray Charles… Erano un mucchietto nel giro di una settimana. Mi pare anche uno di Brian Auger con Julie Driscoll, Trogglodynamite dei Troggs e Animalization degli Animals. Nel 1966 a Via Due Macelli a Roma, ora c’è un negozio di vestiti, e alla Discoteca Frattina a via Frattina. C’era già Consorti? Forse no. Il costo? Boh, forse 2.300 lire. Fino ad allora avevo acquistato solo 45.»

 

Il concerto a cui hai assistito che più ricordi con piacere.led zeppelin copenaghen 71

«Per forza di cose i Led Zeppelin nel 1971 a Copenhagen sul palco a fare foto e poi nei camerini. Ma anche i primi. Tipo Londra 1967, i due primi concerti al Marquee: Terry Reid e John Mayall con Mick Taylor aperti dai Ten Years After. Quelli che passavano a Roma fine Sessanta/inizio Settanta come Canned Heat, Spencer Davis, Jethro Tull, Jack Bruce con Chris Spedding, Colosseum, Family, Who… E quelli successivi in Inghilterra: Clapton nel 1973, CSN + Joni Mitchell…»

then play onIl disco che hai ascoltato tante di quelle volte di cui ormai pensi di essere diventato l’autore.

«Then Play On dei Fleetwood Mac.»

 

Il più grande film rock di tutti i tempi.

«Forse The Blues Brothers. Ma perché non uno tra This is Spinal Tap, School of Rock, The Commitmens, Phantom of The Paradise o A Hard Day’s Night? Poi se vogliamo allargare il concetto di rock anche Blade Runner

Avessi 20 anni oggi.

«Partirei per l’Australia o la Nuova Zelanda. Sto cercando di convincere mio figlio Leòn che ha 18 anni. Una cosa è fondamentale. Scappare dall’Italia. È un paese morto.»

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VIVERE E MORIRE A MILANO (CRONACHE METROPOLITANE)

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Un’anziana spogliarellista che non si arrende al tempo che passa, la tragi­ca follia di un ragazzo della comunità cinese, la donna col sedere più profumato della città, i clienti di un ben strano hotel, le performance notturne e i sogni frustrati di un bancario dotato di un membro gigantesco, la guerra dichiarata di due neonazi al telefono, la giornata senza scampo di un povero redattore di un mensile sportivo, il mondo esploso di un’adolescente enorme, il guaio di un giovane a cui ingrassa solo la testa, il terzo grado di un boss della mala.

Questi e altri insoliti personaggi popolano una Milano che vive alla luce del sole ma che più spesso assomiglia a un fantasma. Più che una città che si alza, lavora, mangia, si diverte e poi va a dormire, la fotografia in bianco e nero di un arredo urbano in movimento. Racconti in forma di cronache e cronache che raccontano una modernità priva di tempo. Una città che insegna a vivere. O da cui si impara presto come morire.

 

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