A lui piacciono due per volta, come a Bennato. Dopo la prima parte della sua storia del rock con Long Playing, il critico che “nacque nel 1978 sulla copertina di Blue Valentine di Tom Waits”, come ama scrivere nella sua biografia, torna con una nuova fatica.
Un titolo accattivante, Perché non lo facciamo per la strada?, per un viaggio personale e a tratti intimo su cinquant’anni di musica rock. Il motore centrale resta la musica (e i suoi autori), ma il contorno di dischi (e succedanei), editoria specializzata, new media, concerti, audience non fungono da semplice ragù. Questa la nostra chiacchierata.
Gli anni Sessanta italiani sono stati segnati da un dato che spesso passa sotto traccia: le infinite cover di hit straniere. Il tuo libro ne fa un excursus corposo. Ma alla fin fine: fu un bene o marcò il provincialismo italiano rispetto all’estero?
«Le cover italiane dei successi rock inglesi e americani degli anni Sessanta erano canzonette che non meritavano di meglio dei juke-box di provincia. Di regola anziché elevare la musica leggera italiana, erano arrangiamenti modesti che banalizzavano il rock. Il primo talento nazionale fu Lucio Battisti, ma venne osteggiato da tutti: pubblico, casa discografica, arrangiatori e parolieri. La sua casa discografica, la Ricordi, non era d’accordo che producesse 33 giri. Per questo motivo fondò una propria etichetta discografica, la Numero 1, per cui registrò dischi come La batteria, il contrabbasso eccetera, fino alla svolta elettronica che gli alienò pubblico e stampa. Lucio fu il nostro Brian Wilson, il nostro Paul McCartney, ma nonostante il successo di massa, nazional-popolare, fu in realtà un artista incompreso.»
Musica e politica. Agli inizi degli anni Settanta trascendemmo in una follia verbosa e piuttosto isterica con i processi real time ai musicisti sul palco e le bombe molotov. A distanza di quarant’anni, come giudichi quel momento?
«Erano gli anni di piombo: non era un problema musicale ma sociale. Ai Settanta seguirono gli anni dell’ottimismo, le decadi degli Ottanta e dei Novanta. Con il nuovo millennio arrivarono gli anni di emme, che stanno rivelandosi i peggiori di tutti. Speravamo nell’Europa unita, che portasse un po’ di civiltà a un paese assopito, ci siamo trovati schiavizzati dalle lobby dell’euro a livello globale e sudditi di poco di buono a quello locale. Questo è il momento peggiore, ma, come diceva un film, non può piovere per sempre.»
Eravamo, come scrivi, alla periferia dell’impero. Cos’è cambiato nel nostro paese dopo cinquant’anni di rock?
«Una volta il rock era una scena. Rappresentava l’arte della seconda metà del XX secolo, e Londra era l’ombelico del mondo. Oggi la musica rock è underground, roba da carbonari e come tale non ha più un centro geografico. C’è fermento sotto le braci, sono molti i musicisti che suonano dal vivo, solo che i media li ignorano. Quello che non passa in TV è invisibile. Una volta i media erano la cronaca della scena, oggi rappresentano solo un pretesto per la pubblicità. C’è una crisi dell’editoria, è vero: ma perché il pubblico dovrebbe acquistare riviste e quotidiani realizzati a misura dei pubblicitari o di gruppi di potere? Per gli analfabeti a cui si rivolgono basta e avanza la TV.»
Una classifica non ha mai dato patente di autenticità e valore artistico, ma è indubbio che chiunque ne era affascinato. Il tuo libro si diverte a pubblicarne qualcuna.
«Perché non lo facciamo per la strada? è inzuppato di liste, classifiche, che ho battezzato decaloghi, anche se non sono mai composte da dieci elementi. Sono un divertissement per stimolare la discussione: se stilassimo ogni giorno la classifica dei nostri 10 dischi preferiti, credo che non risulterebbe mai la stessa. Se invece ti riferisci alle classifiche di vendita, ho dedicato un capitolo ai dischi che si vendevano in Italia negli anni Settanta e il confronto con i decenni successivi è impietoso. In quegli anni il pubblico italiano comprava in massa dei dischi davvero tosti.»
Uno dei capitoli più commoventi è quello dedicato alla cassetta, l’eroica C90. Permetteva una creazione di mondi infiniti. A quante ragazze ne hai nascosta nello zaino una compilata da te? Seguivi un particolare metodo nel comporre una cassetta?
«Ero il mago della cassetta, il re dei dj del nastro magnetico. Registravamo compilation da ascoltare in auto, per fare ascoltare le novità agli amici e per conquistare le ragazze. E il bello è che funzionava. Un’immagine vale più di cento parole, una canzone anche. Registrare una cassetta era come preparare una scaletta radiofonica: ci voleva coerenza, sensibilità ed estro. Persino il titolo aveva il suo ruolo.»
Un momento capitale fu il passaggio dal 45 al 33 giri. Non proprio come quello dal muto al sonoro nel cinema, ma molti artisti ne rimasero spiazzati. Chi non ebbe il fiato da long playing?
«Se devo consigliare a qualcuno l’album di un rock’n’roller come Elvis, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, non posso fare a meno di proporre una raccolta di singoli, perché i 45 giri erano la loro misura, il loro passo. Fu Bob Dylan a inventare il long playing, e fu di ispirazione agli altri giganti, i Beatles e i Rolling Stones. Pensa che i programmi radio più illuminati, come Per Voi Giovani, mandavano in onda album per intero, come quando fecero ascoltare l’intero triplo del festival di Woodstock. Ancora dieci anni dopo ascoltai alla radio “Heroes” di David Bowie trasmesso per intero senza interruzioni. Con i tempi e la superficialità di oggi sarebbe inconcepibile. Il livello della radio di oggi è tale che il dj ideale è quello che mitraglia parole senza alcun significato, tanto il pubblico non ascolta. L’epopea dell’album durò fino all’avvento della musica liquida. Oggi l’ascolto è in gran parte tornato alle singole canzoni.»
Senza il 33 staremmo a parlare di un’altra storia del rock?
«È una costante nella storia della musica che la durata di ciò che si crea sia legato al suo scopo. Le canzoni durano i tre o quattro minuti della lunghezza di un 45 giri, gli album i quaranta minuti di un vinile. I CD durano un’ora, e spesso francamente è troppo. D’altra parte anche gli spettacoli teatrali e i film durano un’ora e mezza. È il contenitore a plasmare il contenuto.»
La nascita delle etichette musicali segnò un momento di grande libertà per gli artisti. Un ultimo colpo di coda prima dell’intervento delle major?
«Usare il termine “intervento” per riferirsi all’arrivo delle major è una descrizione molto accurata di quello che è successo. Una volta musicisti, produttori, discografici, giornalisti facevano tutti parte della stessa scena, ognuno con un proprio ruolo ritagliato in base al proprio talento. Poi il mondo del denaro volle tirarne fuori un business e i dischi cominciarono a essere concepiti come saponette o detersivi, le etichette discografiche acquistate da chi il giorno prima commerciava pneumatici e il giorno dopo bibite gassate. Pensavano di essere in grado di plasmare i gusti degli ascoltatori e indirizzarne gli acquisti, invece finirono per soffocare gli artisti, la musica e alla fine il mercato stesso. Le major rivolsero tutta la loro attenzione al pubblico peggiore, il più superficiale, che però guarda caso non era quello che acquistava la musica. Oggi la finanza è passata come un’orda di cavallette, ha ucciso l’arte ed è passata oltre. Ha fatto terra bruciata.»
La Mela magrittiana dei Beatles e la lingua di John Pasche che ha fatto la fortuna degli Stones. Esiste un design legato alla musica rock che ha fatto più storia di questi due simboli?
«Solo uno: la banana di Andy Warhol sul disco d’esordio dei Velvet Underground. Il design delle copertine dei dischi era legato a una sensibilità artistica che oggi è trascurata. Esistono una pittura e una grafica degli anni duemila? È strano come oggi che abbiamo a disposizione la potenza della computer graphic, paia essersi eclissata l’ispirazione.»
Altro elemento sacro: la copertina. Il primo artista che ne capì la fondamentale importanza fu Bob Dylan. Ne citi una ventina tra quelle top. Ma a chi la medaglia d’oro?
«Ho scritto il decalogo delle copertine più significative della storia del rock, e naturalmente sono ben più di dieci. Ancora una volta Dylan, Beatles e Stones tirarono la volata. La copertina era un elemento importante per scegliere un disco fra gli scaffali del negozio, eppure in tanti sembravano non rendersene conto. Direi che lo stesso avviene per i libri. Io do alle copertine dei miei libri la stessa importanza del testo, e le curo personalmente, anche se sfortunatamente non sono un grafico.»
E la copertina più brutta?
«La vita è troppo breve per perdere tempo con le cose brutte. Mi stupiscono sempre le persone su un social network come Facebook, che pubblicano la maggior parte dei loro post per lamentarsi, criticare, deridere qualcuno. E io penso: scrivete piuttosto cose positive, create e condividete della bellezza. È la forza del Sì al posto del No, dell’amore al posto dell’accidia, ce lo hanno insegnato i Beatles in Yellow Submarine.»
A un certo momento la copertina non è stata più così centrale. Le cose col CD cambiarono solo per le dimensioni del supporto?
«I primi CD erano una vera sola. Costavano il doppio dei vinili e avevano una foto di copertina sfuocata e con i colori sbagliati. L’industria poneva meno cura nella confezione dei dischi che in quella dei detersivi. Era un segnale: il motore dell’operazione era l’ingordigia, non l’arte.»
Hai vissuto l’età d’oro della critica musicale italiana. Nel tuo libro pubblichi uno stralcio di un tuo pezzo che giudico in assoluto il più lirico tra quelli che hai scritto. Uno su Springsteen all’inizio degli anni Ottanta. Parli dell’epopea del Mucchio Selvaggio. Da lettore ho sempre pensato che ciò che distingueva questa testata dalle altre fosse una diversa sensibilità, una diversa capacità d’ascolto del singolo disco.
«È stato un grande momento. D’altra parte non c’erano solo cronisti musicali notevoli, ma anche scrittori, registi cinematografici e teatrali, attori. Dove sono finiti tutti? Oggi il web è una grande opportunità per la diffusione delle informazioni e delle idee, ma c’è un forte rumore di fondo. Tutti scrivono, tutti pontificano, tutti sono esperti e commissari tecnici. Vince il più rumoroso e il più volgare. La spazzatura vale quanto la cultura. Anzi, in TV vale molto di più. Anni fa fuggii dalla TV per approdare al web e ti dico che non possiedo un apparecchio televisivo in casa da molti anni. Tuttavia oggi che il nulla è arrivato anche in rete vorrei un web alternativo, un quartiere meno popoloso ma più selettivo. La fonte di ogni male è la pubblicità: all’inizio si scriveva sul web per diffondere un’idea, oggi per procurarsi degli accessi. Chi ha più accessi è più furbo, anche se i contatti durano tre secondi. Cosa legge la gente in quei tre secondi? Neanche i titoli. Per questo i notiziari on line fanno circolare bufale e spazzatura: perché sono le notizie più cliccate. Facebook all’inizio mi è parso una grande opportunità, un modo rivoluzionario per mettere in contatto le persone. Confesso che mi ha deluso: passo la maggior parte della mia navigazione a cliccare sul pulsante “non seguire più…”. Ma la colpa non è di Facebook: sono le persone a essere così. La democrazia ha anche degli effetti collaterali.»
A proposito di disco. Il loro prezzo non sarà il tema centrale per capire la crisi odierna del supporto materiale ma non è neanche così estraneo. Secondo te quanto dovrebbe costare un disco di inediti oggi?
«Il disco non è stato sempre un supporto necessario alla musica. La musica è esistita per centinaia di anni prima che fosse registrata e venduta sotto forma di dischi. Attualmente la crisi dei dischi è tale che le grandi catene hanno chiuso i battenti mentre sopravvivono ancora solo piccoli negozi indipendenti. Persino il futuro del CD non è così certo. Ma la musica non muore per questo, anzi, mi pare di scorgere ovunque un fiorire di attività live, una scena di musicisti che si conquistano un proprio pubblico show dopo show. Per me il supporto fisico è una cosa importante, fatico ad ascoltare a fondo un disco, a entrarci dentro senza avere una copertina da tenere in mano, da leggere, su cui studiare i nomi dei musicisti, del produttore e i testi delle canzoni, ma temo che sia semplicemente la forza dell’abitudine. Dopo tutto da adolescente anche per me era importante l’ascolto della radio e cos’era la radio se non già musica liquida? La nostra generazione si è abituata a possedere la musica, ma servizi come Spotify dimostrano che il possesso non è una cosa necessaria quando si può ascoltare la musica che si vuole quando si vuole, attraverso la rete. Il pericolo, me ne rendo conto, è un ascolto più superficiale, basato sulle canzoni più che sui long playing, ma se paragono questo tipo di ascolto a quello dei collezionisti che comprano i cofanetti con quattro take della stessa canzone, mi domando quale fra le due categorie apprezzi davvero la musica. Io stesso sto cercando di aggiornare il mio modo di ascoltare musica: sto archiviando in formato digitale su un enorme hard disk la gran parte dei miei CD. Ascolto sempre la musica sull’impianto hi-fi nell’attico, che è il regno dei miei dischi, ma in sala da pranzo, in auto e talvolta passeggiando sfrutto l’iPod. Con cuffiette marchiate Marshall, come i diffusori di Jimi Hendrix. Quello che per ora manca davvero alla musica liquida è un formato digitale decente della copertina, con note accurate e testi delle canzoni. Quando arriverà un formato standard anche per la copertina, potrei anche fare acquisti digitali. Dopo tutto sono un avido lettore di eBook, e su iPad leggo le riviste e guardo i film. Sto rimandando per pigrizia ma voglio collegare l’iPad anche all’impianto stereo sfruttando il wi-fi…»
Pagina 220: la tua cattiveria contro “i mediocri” mi ha ridato per un attimo i miei vent’anni. Oggi con la rete la distanza tra loro e chi con sincerità frequenta la musica si è, almeno apparentemente, ridotta ai minimi termini, non trovi?
«Ricordo una trasmissione della TV in bianco e nero, si intitolava Non è mai troppo tardi e insegnava a leggere e a scrivere agli italiani che non erano stati a scuola. La TV puntava a migliorare le persone, a diffondere la cultura. C’erano gli sceneggiati e le opere teatrali. Anche le librerie seguivano quello scopo. Poi è arrivata la stampa popolare e la pubblicità. Oggi che l’unico motore è il denaro, tutti i media puntano a solleticare il peggio, l’ignoranza, la stupidità. È la rivincita dei mediocri. Avranno vinto loro, ma io non alzo bandiera bianca e rimango asserragliato fra le mura di Fort Alamo con il fucile fra le mani.»
Scrivi: “Se c’è un disco che rischia di essere un capolavoro è quello che al primo ascolto non ti dice niente”. Sottoscrivo, ma al contempo ti chiedo: il rock non dovrebbe essere l’arte del “qui e subito” proprio per il suo profilo semplice e popolare?
«Ci sono canzoni che ti stendono al primo ascolto come un knock-out, altre che ti conquistano nel tempo. La musica dal vivo è più sincera, capisci al volo chi vale e chi è un bluff. Il disco registrato merita di essere ascoltato con attenzione e senza fretta. I dischi più orecchiabili spesso hanno vita breve e stancano presto. Altri dischi non invecchiano mai.»
Nella precedente chiacchierata ti domandai che fine aveva fatto Miami, perché tu all’inizio ti firmavi Miami Blue Bottazzi. Mi hai rimandato a questo libro, nel quale però il mistero resta irrisolto. Te lo chiedo nuovamente: dove hai messo Miami?
«In realtà non mi sono mai firmato Miami. L’ho fatto una volta sola, in calce al celebre pezzo su Bruce Springsteen, il più lungo mai scritto fino a quel momento in Italia, sulle ali dell’entusiasmo mosso dal big bang del recupero del rock. Springsteen con la E Street Band fu per noi quello che Elvis era stato per i ragazzi degli anni Cinquanta. Aggiungere Miami alla firma fu un omaggio alla band, attraverso il suo elegante chitarrista. All’epoca eravamo in tre amici, e per un po’ ci siamo chiamati l’un l’altro Miami, Boss e Dio. Dio stava per Big Man…»
“Bob Dylan in concerto è una penitenza”. Imputato Bottazzi Blue, ha da dire qualcosa in sua discolpa? E moderi la risposta perché sono pronti a partire 5.000 anni più le spese.
«Non ho mai avuto la fortuna di assistere a un concerto decente di Dylan. Lo vidi anche a Modena nel tour con Tom Petty ma non ne ho conservato memoria. Per questo motivo non vedo l’ora che esca l’annunciato film del tour.»
Fossi direttore di un giornale di musica, nel colophon chi scriveresti come spiritual guidance?
«Lo puoi leggere sul mio blog, il Blue Bottazzi BEAT, che recita “spiritual guidance John Belushi”. Ça va sans dire. Avrei comunque voglia di dirigere un giornale di musica. L’editoria digitale sarà il futuro prossimo, anche se il pubblico del rock è uno dei più resistenti a questa evoluzione. D’altronde una gran parte dei fruitori del rock nel nostro paese è rappresentata dai collezionisti, categoria prossima all’analfabetismo. Non è a loro che mi rivolgo. Quando i lettori digitali in Italia saranno una realtà significativa tenterò l’esperienza della rivista digitale. Non una rivista per nostalgici, ma una cronaca dei fatti, come fu Rolling Stone nel ’68 e il Mucchio nel ’78. Sono certo che non sarà un successo, ma neanche la fanzine Texas Tears negli anni Ottanta lo fu, eppure c’è chi la ricorda con affetto ancora oggi.»
Per saperne di più su Blue Bottazzi: http://bluebottazzibeat.blogspot.it/
Concordo anche sulle virgole Blue !!!